NUOVOMONDO
è un film del 2006 diretto da Emanuele Crialese
SINOSSI
All’inizio del Novecento, il contadino siciliano Salvatore Mancuso decide di emigrare in America con i due figli e la vecchia madre: dopo i disagi del viaggio, durante il quale fa la conoscenza con la misteriosa Lucy, dovrà fare i conti con le regole dell’immigrazione statunitense a Ellis Island. La storia dell’emigrazione italiana come uno strazio psicologico e non come un’odissea romanzesca. Crialese (autore anche della sceneggiatura) sceglie una chiave intimista e antirealista che penalizza lo spettacolo, ma privilegia le conseguenze che i fatti hanno sull’animo delle persone: la partenza è una “lacerazione” che strappa le persone le une alle altre, il viaggio è l’affollamento degli stanzoni di terza classe, New York è un “altrove” avvolto nella nebbia, il “nuovo mondo” una sfida ad accettare l’ignoto (Salvatore si taglia i baffi, gli immigrati si sposano). E il sogno di trovare monete che cadono dagli alberi e fiumi di latte diventa l’incubo della perdita della propria identità. Crialese cerca analogie con il presente e racconta la Storia dalla parte degli umili.
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.
NUOVOMONDO
regia di Emanuele Crialese
di Antonietta De Feo, Vittorio Martone
Il mare è una guancia di cristallo, il sole scotta
le piccole onde di vetro che vanno a rompersi sotto la base spessa di
questi poveri che non hanno mai veduto l’acqua, e che non
sanno dire “navigare”.
E adesso,
armati dei bagagli di una modesta vita, resta da vincere la paura,
prendere una nuova rotta, sentirsi costernati e lanciati da sponda a
sponda. Una paura cattiva, indecente, ma sopita dall’attesa
del varco, oltre le Colonne d’Ercole, verso quella terra
lontana a cui affidare la speranza dell’illimitato e il
desiderio e l’impazienza di sorprendersi per galline giganti
e smisurate carote.
Si parte da Palermo e
lì lo sgomento cresce di fronte al bastimento,
“accussì ‘u chiaman” la balena
di metallo, bianca e grigia, che dai suoi sfiatatoi lancia stringati
tonfi di richiamo alla dipartita. Ognuno cerca un modo di smaltire
l’affanno e di inseguire quella verità che il
nuovo mondo s’era ingoiata. C’è chi
invoca San Gennaro e Santa Patrizia rosicando arance rosse, chi rinvia
le ansie della traversata mandando giù una bottiglia di
vino, chi tace meditando su quanto sia poi inevitabile andare via dalla
propria terra e da se stessi, chi si fa spazio nel mucchio agitando il
proprio corpo su altri corpi sudati e stanchi. È per tutti
giunto il momento, bisogna salpare, in prima, seconda o terza classe
che sia.
La nave si stacca lentamente dal molo di braccia
alzate, facendo sopravvivere una malinconia che andava a posarsi su
tutto. A un tratto il tessuto della patria è solo un porto
immobile e qualche figura umana venuta a segnalare un commiato di
fazzoletti bianchi. Ormai si lascia dietro una vita per un tempo ancora
da riempire senza farsi illudere dalle onde e dal loro invito al sonno,
con la speranza di tenersi a galla sofferenti, chiusi in un secchio di
ultimo miraggio, uno sopra l’altro come pesci dentro la rete.
Le anime che emigrano arrancano tra la vita che è trascorsa
e quello che le resta, sospese come in un limbo per accogliere un
principio di sole che non scalda. Il loro dio è un albero
enorme che guida la loro casa momentanea verso una riva che si spera.
Una riva che ad ognuno forse darà qualcosa o
toglierà qualcosa o molto più semplicemente gli
concederà almeno il lusso di un addio, lento, lacrimoso.
Sarà la riva dell’America, una soldatesca che
arruola sventurati sognatori.
“L’importante era davvero sbarcare in America: come e quando non aveva importanza.
Se ai loro parenti arrivavano le lettere, con quegli indirizzi confusi e sgorbi
che riuscivano a tracciare sulle buste, sarebbero arrivati anche loro;
«Chi ha lingua passa il mare», giustamente diceva il proverbio. E avrebbero passato il mare,
quel grande mare oscuro; e sarebbero approdati agli stori e alle forme dell’America,
all’ affetto dei loro fratelli zii nipoti cugini, alle calde ricche abbondanti case,
alle automobili grandi come case”
(Sciascia, pp. 21-27).
Ognuno con le proprie ciotole di latta si prepara alle
infinite notti di traversata. Lì le chiacchiere si tengono
attorno ai ricordi di bambino, quando il mattino era una fata dai
capelli luminosi e le magie come le giostre si avevano al prezzo di un
biglietto da staccare. Tutto profumava di celeste e di campi spogli e i
mali accomodati nell’ingresso se li tenevano solo i grandi
venuti a porgere le condoglianze. Erano natali poveri di lucette e
amore buono, ma la pioggia aveva il dono degli odori e aprire le
finestre era riconoscerli e capirli, era avere un racconto di lancette
vecchie vecchie. Poi la nave batte sulle onde e il risveglio
è brusco, sudato, in quel mare senza tregua e
un’assenza, imperfetta, tra le mani di quei giorni da
crociera di straccioni.
Una settimana dice che ci vuole per
vedere il “Grande Luciano”, la distesa di mare
personificata da Salvatore Manguso. Salvatore Manguso di Petralia, per
la precisione, che in mezzo a tutti quegli
“stranieri” non aveva mai dormito, che come tanti
altri aveva fino ad allora solcato i talloni su pochi chilometri di
terra. E qualcuno, nella stretta di quella stiva, ravvisa che in fondo
siamo tutti italiani, riconoscendo la stessa pelle imbrunita dal sole,
le stesse mani distinte dagli aridi raccolti, gli stessi aneliti a cui
tenersi forte come natanti su un bianco mare di latte. Si sopporta
insieme l’umiliazione della casa lontana, assimilati e
incorporati in quella “gabbia di galline”, dove la
luce del giorno è l’unica via di fuga,
lì su quel pontile a mirare un gregge di nuvole, corteggiati
dal suono di un musico zingaro. E le donne sulle panchine di sopra
coperta dicono già, con idiomi quasi impenetrabili, che i
sogni vengono fuori come le gondole dal ponte e allo stesso modo se ne
vanno perchè la vita è di per sé
qualcosa di irrisolto.
Poi, una mattina, finalmente
l’America. Si sente gridare il suo nome da mille lingue, le
voci appassionate e le dita puntate a est. Sono i poveri davanti alla
loro America imbonita dal bel tempo e dalla poca distanza.
Così
la nave li restituiva alla terra, nudi, indecisi, in un posto che
chiamano “ellisailant”. L’isola dove si
cammina in fila fino alla punta della libertà.
L’isola dove poliziotti e medici robusti riempiono la stiva
del loro Paese con nuove braccia da fatica. Le braccia di quella gente
salata cui non era rimasta che la forza per speronare il golfo e
mettersi a dormire.
“Siamo venuti scalzi, invece delle suole,
senza sentire spine, pietre, code di scorpioni.
Nessuna polizia può farci prepotenza
più di quanto già siamo offesi.
Faremo i servi, i figli che non fate,
nostre vite saranno i vostri libri di avventura.
Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino,
l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso”
(De Luca, p. 35).
Dicono che lì si vende felicità per
poche lire. Tutti ne vogliono un po’, ma è una
felicità che un giorno, distrattamente, si perde sopra la
sedia di un bar di porto: forse Sicilia si chiamava, e se li rivedesse
adesso li troverebbe invecchiati, stanchi e invecchiati.
Si
resta orfani del pascolo ordinato che si fermava un poco sulle alture
quando lo illuminava un morso di luna diafana dall’alto di un
cielo che aveva visto gli eroi piangere per le loro divinità
scorrette. Orfani di quei chilometri di roccia nuda e rovinata, battuta
dall’odore violento di formaggio di capra e carne speziata,
anice dolcissimo e cannoli di burro, e musica che a chiamarla nostalgia
si volta e li invita. La polvere siciliana, rossa, che arriva alla gola
come calce di cantiere, amara e friabile, amara e limosa. E quelle
figure in abiti spessi che portano alle caviglie le traversate sotto
vento e l’abitudine al silenzio.
“ti saluto dai paesi di domaniche sono visioni di anime contadine
in volo per il mondo
mille anni al mondo mille ancora
che bell’inganno sei anima mia
e che grande questo tempo che solitudine
che bella compagnia”
(De André/Fossati).
A loro bisognerebbe domandare la misura, la profondità del secchio, il sapore del pasto, il peso della storia di fronte alla nostra ignoranza, alla loro gogna. Perché questo gioco di lettere non renderà mai giustizia a chi si è messo in petto uno stradario e non gli è bastato vendere la casa e la saggezza ma ha dovuto dare un senso anche all’immobile. Perché di fronte al dramma del distacco tutti i secoli si mettono in attesa, per fermarsi, annullarsi, e raccontarsi di quell’isola a ventre calmo, che gli porta in dono l’epilogo del ricordo.
LETTURE
× De Luca E., Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo, Feltrinelli, Milano, 2005.
× Sciascia L., Il mare colore del vino, Adelphi, Milano, 2011.
ASCOLTI
× De André F., Fossati I., Anime Salve, in Anime Salve, Bmg/Ricordi, 1996.