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MULHOLLAND DRIVE (Mulholland Dr.)
è un film del 2001 diretto da David Lynch

TRAMA
Scampata a un omicidio, una donna senza memoria si rifugia nella casa dell’ingenua Betty, aspirante attrice appena arrivata a Los Angeles, facendosi chiamare Rita. Aiutandola a indagare nel suo passato, Betty si innamora di lei e scopre un segreto orribile. Ma in seguito all’apertura di una misteriosa scatola blu, i ruoli si capovolgono: Betty, diventata Diane, è un’attrice frustrata dal successo della sua amante Camilla, la quale altri non è che Rita. Lynch (anche sceneggiatore) architetta un puzzle noir che va ben oltre Strade perdute: lasciando incerto il legame tra le due parti (anche se l’interpretazione corrente è di considerare i primi due terzi come un sogno “ottimista” di Diane morente) crea un insolubile enigma di flashback, mondi paralleli, identità che si sovrappongono.
Un bel risultato per un film nato come pilot di una serie tv rifiutata dalla Abc e completato con l’intervento dei francesi di Studio Canal. Notevole l’apporto della fotografia di Peter Deming e della musica di Angelo Badalamenti, che interpreta il produttore che sputa il caffè
 
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.

MULHOLLAND
DRIVE

regia di David Lynch

di Antonio Iannotta


L’orecchio e l’ascolto sono il centro del cinema di Lynch. 
Solo pochi esempi. Dale Cooper (Kyle MacLachlan) di continuo, durante Twin Peaks (serie tv in due stagioni, 1990-91), si confida a un registratore di nome Diane sul quale incide le proprie impressioni anche in punto di morte. Lynch sul set indossa spesso le cuffie che lo collegano alla voce degli attori, e anche quando non è accreditato sovrintende sempre al sonoro dei suoi film. L’orecchio tagliato di Blue Velvet (Velluto Blu, 1986) è metafora perfetta e più che evidente di una porta che dall’interno del corpo offre un varco verso l’esterno di una dimensione straniante che conduce dalla tranquilla cittadina di provincia a un mondo ben poco rassicurante, dove si svolge una storia intrisa di violenta depravazione. 
Spesso nel cinema di Lynch gli eventi precipitano all’improvviso e il modo in cui l’orrore prende il sopravvento, o il domestico lascia spazio al perturbante (è esattamente questo l’etimo dell’Unheimlich freudiano: ciò che non è più domestico, ma un tempo lo era), avviene attraverso un cambio di marcia segnalato dall’universo sonoro. 
Ancora: si pensi all’uso del silenzio e della dilatazione temporale in un altro suo film, The Straight Story (Una storia vera, 1999). La musica sfuma, non per lasciare il posto all’inquietudine straniante dei rumori del sottosuolo come in Blue Velvet, ma per dare modo al silenzio di irrompere. Un carrello in avanti ci avvicina lentissimamente alla casa di Alvin Straight (Richard Farnsworth): all’improvviso si sentono dei passi e subito dopo un forte tonfo. Una caduta banale viene trattata audiovisivamente in modo inquietante. A rendere sottilmente straniante la scena, e l’intero film, è proprio l’uso fuori dall’ordinario della sonorità, in primis attraverso il silenzio e l’immobilità. Ogni piccolo rumore che Straight produce è amplificato parossisticamente, al punto da apparirci fuori luogo, nel contesto di un film così silenzioso, come se provenisse da un’altra dimensione. 
Sin dal suo primo film, Eraserhead (Id., 1976), Lynch s’interroga sul luogo dal quale provengono i suoni che appaiono ai suoi spettatori così inquietanti e stranianti. Qual è l’origine dei rumori industriali che assediano la mente del povero Henry Spencer (Jack Nance), visto che non ne vediamo mai la fonte? Per tutto il film aleggia il sospetto che siano il prodotto di una mente psicotica. 
Pensiamo poi al suo ultimo lungometraggio, primo film girato totalmente in digitale, ma non in HD, a sottolineare anche una sorta di svalutazione del piano del visivo, Inland Empire (Inland Empire - L’impero della mente, 2006). Una grande esperienza sensoriale, che segna una nuova, programmatica deriva audiovisiva lynchana, dove i suoni orchestrati dallo stesso regista – con la complicità delle musiche del solito Angelo Badalamenti – sono gli elementi guida che fanno slittare un piano diegetico sull’altro in una narrazione-puzzle difficilmente ricostruibile., ma che ha proprio negli effetti sonori la sua matrice di riconoscibilità. Le sensazioni e le informazioni principali arrivano attraverso il senso dell’udito, e a partire da questo si ricostruisce il reale del film: sembra una chiosa a tutto il cinema del regista di Missoula.

 

Nel cinema di Lynch si ha davvero la sensazione allora che “lo schermo sia una fragile membrana dietro cui premono correnti multiple” (Chion 1992, p. 169): sono i modi attraverso i quali pulsano i suoni nel suo cinema, come se fossero anticipati dal loro riverbero.
L’appena citato Michel Chion, sulla scorta degli studi di Jerôme Peignot e soprattutto di Pierre Shaeffer, invita a chiamare acusmatici i suoni che si svincolano dalla loro origine e de-acusmatici quelli che vengono condotti nuovamente alla loro fonte (Chion 1990, 2003). In tanti, tantissimi momenti di Mulholland Drive (Id., 2001) Lynch scaglia addosso al suo spettatore tutta la potenza del cortocircuito di questa definizione. Ma mai con la forza della scena perturbante del club Silencio. 
Betty (Naomi Watts) e Rita (Laura Harring) dopo aver fatto l’amore si addormentano. Rita, nel sonno, ma sembra più in trance, pronuncia in loop le parole: “No hay banda, no hay banda. No hay orquestra. Silencio...”. Tanto da svegliare Betty che, spaventata, la scuote. A quel punto Rita torna in sé e le chiede di accompagnarla immediatamente in un posto. Al club Silencio, ovviamente, prima evocato da Rita, teatro-karaoke dove le due protagoniste del film sembrerebbero perdersi per sempre.
“No hay banda, non c’è una banda, è tutto registrato. No hay banda, eppure noi sentiamo una banda. Se vogliamo sentire un clarinetto, ascoltate...”: in questo modo, il presentatore e illusionista del suono del Silencio accoglie le due protagoniste del film  per dare subito il la a una serie di interventi sonori. In particolare, dà vita a una sequenza di performance musicali, la più potente delle quali è Llorando cantata da Rebekah Del Rio, con un enorme coinvolgimento emotivo da parte delle due donne, in lacrime per il pathos. Allorché la cantante sviene, in maniera improvvisa e inaspettata, mentre lo straziante canto continua incessante, scopriamo che la performance è in playback. Sul finale della scena, mentre il canto continua, s’innesta uno dei temi musicali della colonna sonora di Badalamenti. “È solo un’illusione”. Il playback messo in atto dal regista statunitense funziona come una musica del cervello riprodotta da una sorta di fonografo che solca e sonda l’intimo delle due donne mettendo in scena, catarticamente, la loro tragedia (Grespi 2008, p. 125). Ma la “banda”, in questa scena, significa altro. Non è solo l’orchestra acusmatica, sconnessa dalla sua fonte visibile e da ciò che l’immagine mette in campo quando i suoni dei fiati e della voce di Rebekah Del Rio sono udibili. La “banda” è anche il nastro magnetico e la frequenza sonora che collega i mondi dimensionali intra-diegetici di Mulholland Drive con l’universo audiovisivo del regista, in primis con Twin Peaks.

 

Ma la scena non finisce qui. Betty estrae dalla borsetta un cubo blu, con un’apertura triangolare che si rivelerà perfettamente combaciante con una chiave trovata prima, misteriosamente, nella borsetta di Rita. Da quel momento in poi, e siamo già ai due terzi abbondanti di un film già carico di misteri e domande inevase, Mulholland Drive cambia marcia e comincia a ripetersi, con un ritorno variato di personaggi e situazioni, ma anche di frasi, di luoghi già visti (e uditi) in precedenza. Tra continue trasformazioni figurative e passaggi dimensionali programmaticamente indecifrabili che doppiano e rifrangono in mille pezzi il reale del film. D’altra parte, il lungometraggio stesso nascerebbe come pilot per una serie televisiva mai realizzata, e forse per questo è così carico degli stilemi di tutta la produzione audiovisiva (e non solo) di Lynch. E a ribadire la misteriosa centralità della scena del club Silencio ci pensa il finale di Mulholland Drive. Dopo un’ultima inquietante scena dove vengono passati in rassegna personaggi e momenti chiave della narrazione, tutto scompare dietro una spessa tenda azzurra. Dissolvenza. Ed ecco ri-apparire il palco del Silencio. Una donna con una bizzarra parrucca blu, che nella sequenza prima analizzata era apparsa per un attimo tra il pubblico, in un sussurro dice: “Silencio”. Dissolvenza in nero.  
Se non possiamo mai fidarci delle voci del cinema, dal momento che è sempre tutto registrato e frutto di finzione artefatta, come chiosa il luciferino presentatore del club Silencio, allora il cinema di Lynch, e Mulholland Drive in particolare, è un esempio formidabile di cinema del ventriloquio. La natura più autentica del cinema parlato e sonoro è infatti il ventriloquio, con tutta la sua doppiezza e ambiguità, e l’inesauribile competizione tra suono e immagine. Che Lynch coglie come nessun altro. La voce arriva sempre da un luogo non identificabile e ci parla. Pensiamo al ventriloquo che diventa geloso del suo pupazzo fino allo scatenamento psicotico nell’ultimo episodio, diretto da Alberto Cavalcanti, del film collettivo Dead of Night (Incubi notturni, 1945). Il ventriloquo Maxwell Frere (Michael Redgrave) diventa completamente succube della sua altra personalità che si manifesta attraverso il pupazzo Hugo Fitch, fino a “ucciderlo”, collassando lui stesso. Si può sopprimere la propria voce e rimanere ancora vivi? L’episodio di Cavalcanti ha un finale indimenticabile: Maxwell riprende i sensi in ospedale e quando sta per ricominciare a parlare, tra mille difficoltà lo fa, ma parla con la voce distorta del pupazzo. 
Sembra che al dispositivo ventriloquo del cinema non si possa tappare la bocca.
E in Mulholland Drive, che sin dal titolo è un’opera riflessiva prima ancora che sul cinema proprio su Hollywood, non è un caso allora che a scompaginare le carte in maniera definitiva sia proprio la scena che contrappone il suono in playback, in quanto sganciato dal campo visivo, dall’immagine, epitome della stessa Hollywood. E il suono sganciato dall’immagine nasce e muore, così come l’immagine cinematografica fuoriesce per riprecipitare nel nero, nel silenzio.   
“Silencio”, (ap)punto.

 


 

LETTURE

× Bertetto, P., (a cura di), David Lynch, Marsilio, Venezia, 2008.

× Caccia, R., David Lynch, Il Castoro, Milano, 2004.

× Chion, M., L’audio-vision: son et image au cinéma, 1990, trad. it. L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 1997.

× Chion, M., David Lynch, 1992, trad. it. David Lynch, Lindau, Torino, 1995.

× Chion, M., Un art sonore, le cinéma, 2003, trad. it. Un’arte sonora, il cinema, Kaplan, Torino, 2007.

× Grespi, B., Mulholland Drive, 2008, in Bertetto, 2008, pp. 109-126.

× Malavasi, L., David Lynch. Mulholland Drive, Lindau, Torino, 2008.