DEAD MAN (Dead Man)
è un film del 1995 diretto da Jim Jarmush
TRAMA
Nel West dell’Ottocento, il timido contabile William Blake arriva in un paese di frontiera alla ricerca di un lavoro presso le officine Dickinson. Cacciato in malo modo, uccide per legittima difesa il figlio del principale, e fugge in mezzo ai boschi, dove, inseguito da un cacciatore di taglie cannibale, inizia un viaggio verso la morte, assistito da un nativo americano che si chiama Nessuno, ed è convinto di avere a che fare con l’omonimo poeta visionario inglese di cui è diventato ammiratore avendo studiato, da piccolo, in Inghilterra. Nel West più laido e sporco che si sia mai visto al cinema, Jarmusch trasforma il road movie in una parabola allucinata e nichilista, dove lo spazio della frontiera diventa un limite interiore e tutto introiettato, specie di fuga dal mondo fatta di visioni e allucinazioni (c’è chi ha parlato di “western lisergico”), in fondo alla quale c’è la morte invece del paradiso delle droghe artificiali. William Blake ferito, febbricitante e sempre più vittima degli eventi – per quanto causa prima di una catena di inarrestabile violenza – diventa uno specchio dello spettatore, condotto in un viaggio imprevedibile e angosciante, anche se illuminato da squarci di poesia bizzarra e da umorismo macabro in dosi massicce.
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.
DEAD MAN
regia di Jim Jarmush
di Livio Santoro
Babylon was built on fire
And the bones of useless machines
It hurt to breath
Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra
L’Occidente ha sempre avuto i suoi bei simboli.
S’è trovato sempre a sguazzare nella forza e nella
velocità, nel progresso e nell’acciaio,
guardandosi nello specchio irriflesso delle sue
stesse violente pulsioni. E s’è trascinato fino a
dove l’orizzonte glielo ha permesso. Fino al mare.
È nato dalle grandi narrazioni dell’oro e
s’è subito accomodato sulla morbida
volgarità dei suoi primi coloni, reprobi subumani del suo
stesso sistema staminale, delle sue leggi, impossessandosi di un oceano
e cercandone affannosamente un altro, dalla parte opposta. E tra le due
distese d’acqua, nel luogo che ha eletto a sua patria
definitiva e sincera, l’Occidente s’è
fatto sedimento iconografico per un’epoca che ancora
testardamente prosegue, nonostante tutto, protendendo le sue rotaie in
una lotta costante con la terra, facendosi come un sistema di vene che
trasporta sangue sporco e canceroso fin dentro i recessi più
lontani del suo organismo, linfa funzionale alla sua stessa massa
tumorale. L’Occidente è nato come nascono le
metastasi, e allo stesso modo dalla sua precoce putrescenza sono nati
per gemmazione i suoi primi miti universali da rappresentare
preferibilmente con un filtro seppiato: l’uomo solo, il
whiskey stracciabudella, il vapore, le Colt, il
vaiolo, gli avvoltoi in cerchio sopra le carcasse di bufalo, le
locomotive… Miti contraddittori che non cessano di
sopravvivere. Ancora oggi. Miti in quanto oramai posti al di
là del tempo. Quadri pullulanti delle immagini della
frontiera, densa di secchi personaggi. Tutti protagonisti di una
mitologia che assume la selvatichezza domata del mondo come cifra per
misurare la forza dell’uomo.
Ma
nell’Occidente, che è occaso, ossia fine e
tramonto, è però già scritta la sua
stessa negazione. Come se questa fosse l’intrinseco
corollario di un teorema canceroso. Proprio perché occaso
è termine escatologico, estremizzazione nominalistica di
quel traguardo che si trova fin dove si trova la linea più
lontana dell’orizzonte. E, nonostante ciò, questo
traguardo si fa di volta in volta oggetto concreto da spostare un poco
più in là, poco più oltre la frontiera
appena raggiunta e consumata.
L’Occidente che oggi
stesso percorriamo con le nostre scarpe è nato da uno sfogo
purulento, gonfiandosi a dismisura ma nascondendo le sue cose di dentro
e mascherandole dei tessuti di superficie: allo stesso modo di quelle
fibrocisti che nell’oscurità
dell’abnorme patologico contengono peli e denti, secrezioni
di sebo e schegge d’osso, tocchi di grasso e unghie deformi.
Tutto dentro, tanto non si vede da fuori. Perché da fuori si
vede solo l’organismo che cresce, che si gonfia, che fagocita
spazio, terra.
Ecco l’Occidente, materia teratologica rivestita di
meraviglia e progresso.
Ed ecco che da questo nascondimento di
materia organica melmosa e torbida sgorgano freneticamente le sembianze
di una bizzarra mitologia moderna, unico apparente rilascio della massa
tumorale. Suppurazione di immagini: in questa mitologia
d’Occidente i primi dèi (ambigui come lo sono
sempre stati) che scrivono e sono chiamati a far rispettare le leggi,
non hanno più l’aureola e neppure la corona a
sovrastare il capo ma hanno un cappellone cammello ad ampia falda; allo
stesso modo non hanno più i fulmini per impadronirsi della
magia del mondo, ma hanno sei proiettili di piombo. Non hanno aurighi e
nocchieri a trasportarli nei cieli su bighe alate rilucenti, ma
cavalcano solitari la sella di un pezzato attraverso il vento secco dei
deserti e delle praterie. E non si nutrono di ambrosia, ma masticano
tabacco e sputano continuamente saliva limacciosa e nera. Nera come il
petrolio. Perché non sono più dèi,
sono diventati uomini. Sporchi come gli uomini, tracotanti come gli
uomini.
Bizzarramente disegnato il destino della mitologia
d’Occidente: un destino che impone di rovesciare i caratteri
delle storie più classiche. Costruire una narrazione per poi
rivoltarla sui suoi contrari. In questa mitologia sono gli
dèi a chiedere pietà agli uomini, gli
dèi mansueti nascosti nello Spirito delle cose.
Ma
fortunatamente è anche vero che ogni mitologia ha il suo
Prometeo. E in questo scenario di polvere da sparo, di pistoni che
macinano carbone, di stelle appuntate a un petto gonfio di liquore e di
costoni di roccia rossa, qualcuno ha provato a sottrarre il fuoco per
evitare l’ipertrofia della massa cancerosa. Un Prometeo
rovesciato che toglie agli uomini, che sono le nuove
divinità, per ridare agli dèi di prima.
Eccolo,
è una specie di giullare. Un Prometeo goffo, vestito di
carnevale come un arlecchino. Ma senza la festa negli occhi. Con lo
stesso nome e la stesa anima di un poeta che aveva già visto
l’inizio dell’Occidente negli sbuffi dei primi
altiforni, nelle fuliggini dei primordi, dall’altra parte di
quel mare dove ancora non c’era la frontiera, dove questa era
più che altro una parola, in una terra lontana dalla polvere
rossa dei deserti. Allora, che ancora si era in tempo, William Blake
ricordava agli uomini la loro essenza divina. Un secolo più
tardi, sotto le mentite spoglie di un contabile reietto, William Blake
ricorda agli uomini la loro natura intimamente mortale. A quegli stessi
uomini che si sono fatti dèi, che hanno vestito il
cappellone e dismesso la corona. William Blake, questo nuovo Prometeo,
non porta più il fuoco, porta con sé il fardello
della morte. Esattamente come gli hanno suggerito gli Spiriti della sua
e della loro agonia.
Ogni notte, ogni mattina,
nascono alcuni alla rovina.
Ogni mattina, ogni notte,
nascono alcuni al soave delitto,
nascono alcuni ad infinita notte.
Recupera le sue stesse parole di quando era al di
là dell’oceano, William Blake. E canta
l’infinita notte annunciata dall’infinito occaso
che si nasconde nelle teorie di un Occidente che non ha rassegnazione,
immerso nella sua tracotanza, nella sua fame di terra e di spazio,
nella sua costante e squallida necessità di avere e superare
una frontiera, e poi una nuova, ed un’altra ancora. Che
dunque muoiano queste umanità imbarbarite fattesi
dèi! Sembra voler dire il nuovo Prometeo.
Perché è proprio nella storia della loro costante
e necessaria conquista che questi hanno inscritto la morte, la fine.
Hanno messo a simbolo il loro traguardo sempre raggiunto e sempre
spostato, come un infinito tramonto messo a preludio di un epilogo non
programmato: impossibile. Perché l’epilogo
è già dentro. Dentro ognuno di questi spiccioli
dèi, che prima ancora erano uomini ancora più
spiccioli, sgarbati.
Uomini che fanno la legge a loro misura e
che ne impongono il rispetto. Uomini che muoiono sfilandosi il
cappello, e andando a finire su un’aureola mondana fatta di
rametti di fuoco spento. Un uomo morto sulla terra che voleva essere un
dio ma che diventa dio solo da morto, come la conclusione parodica di
una storia stupida, violenta. La storia
dell’Occidente.
Nascono alcuni ad infinita notte.