MIGNON È PARTITA è un film del 1988
diretto da Francesca Archibugi
TRAMA
La giovane e altezzosa parigina Mignon a causa dei guai di suo padre con la giustizia viene spedita dagli zii romani. Giorgio, cugino tredicenne, se ne innamora non ricambiato: Mignon ripartirà, e lui avrà imparato qualcosa della vita. L’esordio della Archibugi è stato salutato come una ventata di aria fresca nello stantio cinema italiano: dimostra un occhio attento e affettuoso sul quotidiano, e una leggerezza di tocco nell’affrontare tormentoni come quello dei primi turbamenti.
Grandi elogi alla prova della Sandrelli nel ruolo della mamma.
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.
MIGNON È PARTITA
regia di Francesca Archibugi
di Adolfo Fattori
INTERNO GIORNO
– TOTALE
Soggiorno della casa
di Giorgio. Ci sono Mignon, Giorgio, abbandonato su una poltrona, tutti
i familiari di Giorgio, chi in piedi, chi seduto.
Mignon sta
partendo, torna a Parigi. Saluta tutti, uno per uno, in sequenza. Per
ultimo Giorgio: fra loro, un abbraccio più lungo,
più forte, più sentito. Il Padre di Giorgio
sollecita Mignon: bisogna andare, l’aereo non aspetta.
STACCO
…
Compare Giorgio, di spalle, in PRIMO PIANO.
CONTROCAMPO
PRIMO PIANO di Giorgio,
lo sguardo
perso, verso la porta d’ingresso.
CAMPO
LUNGO
Giorgio, di spalle, corre verso
la porta d’ingresso, la varca.
…
CAMPO
LUNGO
Giorgio arriva al cancello che
chiude il cortile, sempre chiamando Mignon per nome, cerca di passare
attraverso le sbarre del cancello, come aveva sempre fatto. Non ci
riesce: è cresciuto, non ci passa più…
…
mentre già si sente la VOCE
FUORI CAMPO di Giorgio che comincia a narrare,
CAMPO LUNGO, SOGGETTIVA di Giorgio
Il taxi, con Mignon a bordo, si allontana, mentre Giorgio
continua a chiamarla…
… mentre
nell’immaginazione di Giorgio – e sullo schermo
– scorrono le immagini di lui che dà delicatamente
un bacio a Mignon su una spalla mentre sono su una chiatta sul Tevere.
Mignon si volta verso di lui, lo guarda, sorpresa e sorridente.
VFC:
Giorgio: Oggi ho quindici anni, tre mesi, sette giorni. In
casa tutto è cambiato.
Non ho più visto
Mignon.
Adesso ho capito qualcosa che allora ero troppo
ragazzino per capire: quel giorno sul Tevere, se avessi fatto un gesto
diverso, Mignon mi avrebbe guardato come non ha mai fatto, e tutta
questa storia sarebbe stata diversa…
Cos’era successo,
“quel giorno sul Tevere”? Che Mignon, dopo che
Giorgio le aveva letto ad alta voce la fine di un libro (L’isola
di Arturo di Elsa Morante?), gli aveva chiesto se si era mai
innamorato, se in quel momento lo era, e di chi, e lui aveva risposto
evasivamente, e alla domanda cruciale non aveva colto
l’occasione di rivelarle che sì, era innamorato:
di lei. Né, subito dopo, aveva lasciato libero il desiderio
di scostarle i capelli da una spalla, e darle un bacio, come invece lo
vediamo fare – ma solo nella fantasia – nel finale
del film, mentre le immagini ci mostrano quello che sente che avrebbe
dovuto fare.
Un’occasione lasciata andare, un
“momento fatale” sfuggito, come un soffio di vento,
dalle sue mani.
Non ne ha avuto il coraggio? Non ha
voluto rischiare l’imbarazzo di una reazione indesiderata?
Magari derisoria?
O forse ha prevalso il desiderio
di prolungare all’infinito un attimo, di sospenderlo nel
tempo, di fermare uno snodo aperto a future possibilità? O
semplicemente non si era completato il “rito di
passaggio” che lo avrebbe trasportato
nell’adolescenza, in cui entra solo quando cerca di fermare
Mignon, ma non riesce a passare fra le sbarre del cancello? Rito che
nel suo caso, dobbiamo immaginare, si innesca sul Tevere e si compie
con l’addio della ragazza? È qui, in questo
passaggio, che il ragazzo scopre attraverso il dolore della perdita e
la frustrazione per un’occasione persa, la
fragilità della condizione umana, e diventa
“grande”?
Chissà quante volte
ci ripenserà, mentre passano gli anni, il nostro Giorgio,
andando a far compagnia a tanti personaggi
dell’immaginazione, come quello cui dà voce
Fabrizio De André traducendo Les passants di
George Brassens e Antoine Pol (1974)
… è più difficile dimenticarti
di quelle felicità intraviste
dei baci che non si è osato dare
delle occasioni lasciate ad aspettare
degli occhi mai più rivisti…
Proprio come il ragazzino di Mignon
è partita, che nel corso del tempo avrà
lunghi pomeriggi estivi, assolati e silenziosi, solitari e annoiati, in
cui pensare ad un possibile amore, neanche perduto, ma semplicemente
eluso, forse evitato, o (s)fortunatamente solo sognato proprio per
evitare delusioni e disillusioni, facendo un’esperienza di
cui è piena la letteratura – di cui forse è
fatta la letteratura, ed è contemporaneamente una
delle materie del cinema – quella
dell’impossibilità di realizzare
l’amore, uno dei nuclei tematici originari del romanzo
borghese, perché la persona amata è lontana nello
spazio, come nei Dolori del giovane Werther di
Wolfgang Goethe, come ci ricorda Roland Barthes in Frammenti
di un discorso amoroso: “L’assenza amorosa è possibile in un solo senso e non può essere espressa che da chi resta – e non da chi parte: io, sempre presente, non si costituisce che di fronte a te, continuamente assente” (1979, p. 33).
O
è irraggiungibile nel tempo, e ci si può
innamorare – o si è stregati da un incantesimo o
da un’ossessione – come in certi racconti
fantastici, da Edgar Allan Poe fino al Carlos Fuentes di Aura
(2011), oppure per una insuperabile differenza di età, o
ancor di più per la speranza o il caso fortuito di
ritrovarsi dopo decenni, illudendoci di esser rimasti immutati
nell’età e nell’aspetto – un
po’ come in Lettera da Berlino di Ian Mc
Ewan (2005).
Ecco, Giorgio, come ognuno ed ognuna di noi, vive
l’assenza dell’amata, raccontandosi continuamente
– e continuando a vederla scorrere dietro i suoi occhi
– la vicenda alternativa, quella che sarebbe scaturita da una
decisione che non ha saputo prendere, forse per evitarsi il destino del
suo coetaneo narrativo, l’Arturo di Elsa Morante, che per
aver forzato la mano ha rischiato il disastro, e che il ragazzino cerca
anche di imitare nel suo goffo tentativo di suicidio, sostituendo
goffamente ai sonniferi di Arturo la naftalina…
E
poco conta che, come ricorda sempre Barthes, “Storicamente,
il discorso dell’assenza viene fatto dalla
Donna…” (ibidem): lo stato
d’animo è speculare. Così, mentre
classicamente è l’uomo, l’eroe, a
partire, nel film della Archibugi è la ragazza, Mignon, ad
andar via, lasciando Giorgio solo con i suoi interrogativi, con la sua
malinconia, con la sua solitudine.
In più, forse
nelle parole del francese c’è
un’implicazione sfuggita anche a lui stesso: l’io
che “si costituisce” di fronte al
“te continuamente assente”
è la sintesi narrativa di una svolta cruciale nel percorso
dell’individualizzazione moderna, un altro dei passaggi
attraverso cui si istituisce l’interiorità del
soggetto contemporaneo, della sua depressiva introversione.
Meglio
rinunciare, allora, anche soltanto a parlarne? Impossibile, come sembra
dimostrarci suo malgrado Viktor Šklovskij, il fondatore del
formalismo russo, nel suo Zoo o Lettere non d’amore (1966),
in cui una donna vieta ad un uomo innamorato di lei di scriverle
d'amore. E costui comincia allora a scriverle “lettere non
d’amore”.
Da questa consegna si
sviluppa un discorso infinito, prima di tutto sulla letteratura, grazie
a riferimenti occulti, citazioni cifrate, nel tentativo, continuamente
contraddetto, di non trasgredire al patto sottoscritto: “Non
scriverò sull’amore, scriverò solo sul
tempo” (p. 24), perché promettendo di non
parlarne, lo nomina inevitabilmente, ricadendo nella rottura della
promessa fatta: “Ma sull’amore non
scriverò (corsivo nostro). Tu lo vedi, scrivo
sempre di letteratura” (p. 70).
Questa
“mossa del cavallo”, per citare proprio il
letterato russo, questo tentativo di aggirare l’ostacolo
muovendosi obliquamente, come appunto fa il pezzo degli scacchi, cui
“la via diretta è preclusa”
(Šklovskij, 1967, p. 7), si rivela insomma fallimentare:
volutamente, perché il parlar d’amore alla donna
gli è troppo urgente, o ineluttabilmente, perché,
scrivendo di letteratura, si finisce necessariamente per parlar
d’amore?
E quindi, alla fine, di
sé, del proprio viaggio lungo la vita? Di quella che per
qualcuno è “l’avventura
umana”, di una ricerca – immobile o frenetica
– che ci porta a costruire la nostra personale narrazione,
ampiamente menzognera, immaginata (Campbell, 2011), desiderata.
Vedi di che si tratta: contemporaneamente alle
lettere a te scrivo un libro. E ciò che è nel
libro e ciò che è nella vita si sono del tutto
confusi […] L’amore ha i suoi metodi, una sua
logica di movimenti, stabilita senza di me e senza di noi. Ho
pronunciato la parola dell’amore e ho messo in moto il
meccanismo. È cominciato il gioco. Dove è
l’amore, dove è il libro, non so più (Šklovskij, cit., 1966, p. 63).
Anche
Giorgio ci è cascato: a Mignon legge letteratura –
e forse spera che le parole di un altro evochino le sue, che fra le
frasi di un suo doppio filtrino i suoi sentimenti...
Ma
quando viene il momento, non può che tirarsi indietro: teme
che il gioco, appena cominciato, finisca? che si risolva in un
“No”, magari imbarazzato, dispiaciuto, ma
perentorio, senza appello?
O ha paura di scatenare forze
arcane, indomabili, che lo soverchierebbero?
Ancora,
dopo la partenza della ragazza cosa gli vieterebbe – come
è capitato, almeno nell’adolescenza, ad ognuno di
noi – di decidere improvvisamente di partire
all’avventura, ed andare a cercare la sua bella a
Parigi?
Perché forse, in
realtà, non è questo, che vuole: una volta visto
il gioco, come in una mano di poker, questo potrebbe rivelarsi
troppo… normale. Alle fiabe, non ha senso chiedere cosa
significa concretamente “… e tutti vissero felici
e contenti”: la quotidianità è banale e
ripetitiva, è storia, non racconto.
Quindi
immaginiamoci pure Giorgio che ricorda, attraverso gli anni, la Mignon
che ha conosciuto, altezzosa e bellissima, ferma nei suoi quindici
anni, fuori del flusso del tempo e delle età che cambiano e
ci cambiano, e continua a sognarla, e a sognare.
Il miglior
modo disponibile per replicare l’invocazione di Romeo a
Giulietta, Rendimi immortale con un bacio.
Sarebbe
bastato quello, quel bacio che il ragazzino non ha avuto il coraggio di
dare, a donargli l’immortalità, quella fatta di un
ricordo inestimabile, da blindare nella memoria, impermeabile agli
interrogativi su coincidenze, destino, fatalità, caso,
inattaccabile agli acidi della quotidianità, della routine,
dell’abitudine – e del tempo.
Meglio
immaginarsi vicende, raffigurarsi scenari, costruirsi trame. Ancora la
letteratura, anzi la narrativa, quindi ancora il cinema: l’ha
stabilito in via definitiva il cinema classico americano. Due film su
tutti, a titolo di esempio: La regina d’Africa di John
Houston e A qualcuno piace caldo di Billy Wilder, nel momento in cui,
sulle ultime inquadrature, compare il THE END sì a fermare
la storia, ma a far continuare il racconto nell’immaginazione
di ognuno di noi, che ci nutriamo della sostanza evanescente delle
nostre avventure immaginarie.
LETTURE
× Barthes R., Fragments d’un discours amoureux, 1977, tr. it. Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1979.
× Campbell F., Padre y memoria, 2009, tr. it. Padre e memoria Tra fiction e neuroscienze, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2011.
× Fuentes C., Aura, 1962, tr. it. Aura, Il Saggiatore, Milano, 2011.
× Mc Ewan I., The Innocent, 1990, Lettera da Berlino, Einaudi, Torino, 2005.
× Šklovskij V., Zoo ili pis’ ma ne o ljubvi, 1923, tr. it. Zoo o Lettere non d’amore, Einaudi, Torino, 1966.
× Šklovskij V., Chod Konia, 1923, tr. it., La mossa del cavallo, De Donato, Bari, 1967.
ASCOLTI
× De André F., Canzoni, Produttori Associati, 1974, ristampa cd BMG – Ricordi, 2002.