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HAPPY TOGETHER (Happy Together)
è un film del 1997 diretto da Wong Kar-wai

TRAMA
Ho Po-wing e Lai Yiu-fai, gay hongkonghesi in Argentina, si tradiscono, si lasciano, si ritrovano; uno sfuggente ragazzo di Taiwan li affascina entrambi. Cambiano i sessi, ma le trappole della passione sono sempre le solite; e non c’è felicità, malgrado la canzone dei Turtles che fa da titolo (e che si ascolta nella versione di Danny Chung). Sulle tracce di Manuel Puig, Wong parla di esilio e di perdita, cercando nuovi orizzonti geografici ma restando prigioniero del suo stile lussureggiante e della fotografia manierata di Christopher Doyle.
 
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.

HAPPY TOGETHER

regia di Wong Kar-wai

di Aldo Di Marco


Nel 1954 un cantante e compositore messicano scrive una canzone che verrà ripresa con diversi arrangiamenti da un cantante e compositore brasiliano. Dal movimento mariachi di Tomás Méndez, all’intimismo cantautorale di Caetano Veloso, Cuccurucucù Paloma si trasfigura in un manifesto della canzone d’amore, o meglio delle sofferenze che derivano dalla perdita della persona amata. Possiede la rara dote della sintesi, dote che si trova solo nei capolavori: testo semplice ma evocativo, voce febbrile e trasognata, arrangiamento minimalista. Tutto il necessario, nulla di troppo. Un paradigma di quella che per me dovrebbe essere la musica sacra, la musica che aiuta a mettersi in religioso contatto con “altri mondi”. Forse proprio per questo carattere evocativo è stata inserita nella colonna sonora di diversi film. Il caso più famoso è Parla con lei di Pedro Almodovar (2002), dove Veloso recita se stesso cantando accompagnato solamente da chitarra, contrabbasso e violoncello. Ma è un altro caso che mi sta a cuore, di cinque anni antecedente. Non l’ho scelto con l’intenzione un po’ altera di andare a cercare un film sconosciuto. L’ho scelto d’istinto come se già sapessi che prima o poi ne avrei parlato con qualcuno. Per me si tratta di una scena-madre che mi è talmente rimasta addosso da fare parte ormai del mio immaginario sensoriale, come se avessi vissuto quell’esperienza realmente in prima persona.

 

Nel 1997 il regista Wong Kar-wai vince la Palma d’Oro per la miglior regia al Festival di Cannes con il film Happy Together dove racconta la storia di due ragazzi che lasciano Hong Kong per andare a vedere le cascate dell’Iguazù al confine tra Brasile e Argentina. La meta del loro viaggio (che non andrà a buon fine) è già enunciata nei primi minuti del film, come il tema di una sinfonia. Dopo nemmeno sei minuti, irrompe inaspettata la ripresa a volo d’uccello delle cascate argentine, ma ancor più inaspettata irrompe l’orchestra d’archi che accompagna Caetano Veloso:

 

Dicen que por las noches
no más se le iba en puro llorar

 

La pellicola passa dal bianco e nero al colore. La ripresa passa dalla lingua d’asfalto di un’autostrada al volo libero sulle cascate. Il sonoro passa dal clacson di un’autobotte all’orchestra d’archi. L’unico elemento di continuità è dato dal canto di Veloso che sembra la continuazione della voce fuori campo che ci aveva accompagnato fino a quel momento. È già duro il contrasto tra la storia “on the road” e la visione onirica delle cascate, come le vedrebbe un angelo di Wim Wenders, ma è ancora più cocente il contrasto (o la consonanza) tra le immagini rallentate della massa d’acqua che cade e la canzone che parla del distacco tra due persone. Per un minuto e 27 secondi il film abbandona lo sviluppo narrativo per diventare pura astrazione poetica. Un inserto pubblicitario al contrario: anziché offrire un’occasione di distrazione, impone una maggiore concentrazione. Non sul film, che resta sospeso, ma su noi stessi, che restiamo percossi e attoniti. Non un momento per alzarsi dalla poltrona, ma un momento di raccoglimento, e una domanda: perché ci piace soffrire così?

 

Juran que el mismo cielo
Se estremecía al oír su llanto

 

Ogni volta che provo un dolore, ogni volta che provo a non sentirlo, vedo quella scena, vedo acqua che cade. Le prime volte l’ho anche sognata. Un fiume che viene da molto lontano, che è riuscito a restare a galla crescendo e moltiplicandosi, ora si perde. Un enorme volume d’acqua in piena corsa improvvisamente inciampa e cade. Non c’è più alcun legame forte tra la materia liquida, o forse non c’è mai stato fino a questa prova estrema. Non c’è più la storia, le origini, e l’impeto ad accomunare, non c’è nemmeno più l’orizzonte di fronte al buco nero della cascata. Le molecole si separano, si spezzano e nebulizzano. Alcune si ritroveranno in un nuovo fiume, diverse, sopravissute e stravolte riprenderanno una nuova corsa. Alcune andranno a formare rugiada, nebbie e nuvole, altre affonderanno per sempre sottoterra. È una separazione indolore, incosciente, spettacolare e insensibile come deve essere la natura. La sensibilità è nostra, di osservatori distaccati, ci sentiamo attirati dalla bellezza di questa caduta, apparentati a questo destino che somiglia così tanto alla separazione, alla perdita di una persona cara.

 

Ay, ay, ay, ay, ay cantaba,
de pasión mortal, moría.

 

Siamo noi la macchina da presa che guarda dall’alto la sorte che ci capita? Vorremmo sempre vederla così, volandoci sopra per non soffrire troppo. Invece noi siamo l’acqua, siamo il fiume che striscia la pancia sull’ultima roccia prima del grande salto.

 

Cucurrucucu...paloma,
Cucurrucucu...no llores.
Las piedras jamás, paloma,
Qué van a saber de amores?

 

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