ACQUE DEL SUD (To Have and Have Not)
è un film del 1944 diretto da Howard Hawks
TRAMA
Nell’estate del 1940, a Fort de France, in Martinica, il capitano Harry Morgan e il suo amico alcolizzato Eddie vivono portando a pesca i turisti americani. Harry vorrebbe starsene lontano dagli attriti tra patrioti e collaborazionisti francesi, ma la prepotenza di questi ultimi e il desiderio, forse, di iniziare una nuova vita a fianco di una giovane e irriverente americana, Marie Browning, gli faranno cambiare idea. Adattando – pare per scommessa – Avere e non avere (sceneggiato molto liberamente da Jules Furthman e William Faulkner), Hawks realizza un’opera personale più che una specie di remake di Casablanca, come probabilmente pensavano i dirigenti della Warner.
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.
ACQUE DEL SUD
regia di Howard Hawks
di Francesco Galofaro
“Maybe just whistle”
Come Faulkner riscrisse Hemingway
Un aneddoto, attribuito come tanti altri ad Howard Hawks, vuole che il grande regista americano fosse a caccia con William Faulkner e Clark Gable, quando Hawks e Faulkner cominciarono a discutere di letteratura. Gable chiese a Faulkner quali fossero i suoi scrittori americani preferiti, e Faulkner rispose:
“Hemingway. Willa Cather. John Dos Passos.
E io, naturalmente”
Al che Gable si mostrò entusiasta:
“Lei scrive, Mr. Faulkner?”
Alla domanda seguì un silenzio imbarazzato.
“Sì – risposte Faulkner infine –
è Lei di cosa si occupa, Mr. Gable?”
Cosa ci facesse a Hollywood uno come Faulkner è un fatto ben noto: sbarcava il lunario sceneggiando film popolari. Scrittore difficile, elevato, il successo non gli aveva certo arriso. Così, dal 1932 al 1945, collaborò a film come Il grande sonno, sempre per la regia di Hawks, dal romanzo di Chandler; in queste righe vorrei occuparmi dell’incontro-scontro tra Faulkner ed un altro grande scrittore, avvenuto poco prima, quando Faulkner fu incaricato di scrivere la sceneggiatura di To Have and Have Not, dal romanzo di Hemingway. Il lettore ricorderà la scena da antologia in cui Lauren Bacall si rivolge ad Humphrey Bogart:
Harry: What'd you do that for?Slim: Been wondering if I'd like it.
Harry: What's your decision?
Slim: I don't know yet. (She kisses him again)
Slim: It's even better when you help. Uhh... sure you won't change your mind about this? This belongs to me, and so do my lips, I don't see any difference ... OK You know you don't have act with me, Steve. You don't have to say anything, and you don't have to do anything. Not with me. Oh, maybe just whistle. You remember how to whistle don't you? Just put your lips together ... and blow.
La sequenza, come pure il personaggio di
“Slim” Marie, non corrispondono al romanzo di
Hemingway. Sempre secondo Hawks, originariamente essa costituiva il
provino della Bacall, al suo esordio; lui stesso avrebbe chiesto a
Faulkner di lavorarci ed inserirla nella sceneggiatura del
film.
Perché ci interessa questa scena,
al di là della sua innegabile efficacia? Perché
una comparazione tra sceneggiatura e romanzo si presta molto bene a
chiarire il giudizio critico di Faulkner su Hemingway. Faulkner non si
limita a “tradurre” Hemingway per lo schermo ( per
il concetto di traduzione intersemiotica cfr. Dusi,
2003), ma impiega il libro di Hemingway come un repertorio entro cui
trascegliere alcuni, e solo alcuni, elementi, e ricombinarli in una
nuova storia. Non solo: come vedremo, Faulkner aggiunge temi e figure
del proprio immaginario narrativo, prendendo le distanze da Hemingway.
Per
comprendere meglio tutto questo, vorrei ricostruire in breve le opposte
traiettorie letterarie di Hemingway e Faulkner, come pure il loro
legame con il film in questione da un punto di vista strutturale,
tematico e figurativo, ideologico. Se per Hemingway la fonte
privilegiata di indagine sarà naturalmente il romanzo To
Have and Have Not, ragioni di brevità mi impongono
di esemplificare temi e figure faulkneriane a partire dal suo romanzo Santuario,
poiché tra i tanti è sicuramente quello
che con il cinema e con la scrittura cinematografica ha più
a che fare, anche se non mancheranno le incursioni in altre opere di
Faulkner. Tanto i luoghi della sceneggiatura in cui Faulkner si
allontana da Hemingway, quanto quelli in cui gli si mantiene fedele ci
serviranno a ricostruire il giudizio critico del primo sulla produzione
letteraria del secondo, e su un romanzo che, per quanto diseguale,
problematico, strutturalmente poco lineare, fu un best seller che,
contribuendo all’affermazione del proprio autore tra i grandi
scrittori mondiali, fu altresì capace di influire sulla
cultura di massa della propria epoca. Si pensi alle diverse versioni
cinematografiche, come anche alle evidenti influenze che il terzo
racconto del volume ha avuto su film come L’isola
di corallo di John Houston (1948).
1. ACQUE DEL SUD (To Have and Have Not)
Il
romanzo di Hemingway divenne una sceneggiatura le cui prime versioni
vennero realizzate da Jules Furthman. Faulkner realizzò la
versione definitiva (cfr. Cartosio, 1995). Il regista, Howard Hawks,
aveva fortemente voluto l’intera operazione, acquistando i
diritti e rivendendoli alla Warner. Come vedremo, egli era molto
interessato al nome di Hemingway, che compare nelle locandine, nel
trailer cinematografico e nei titoli di testa del film accanto a quelli
di Humphrey Bogart, Lauren Bacall, Dolores Moran.
Il
film, della durata approssimativa di 100 minuti, uscì nelle
sale americane nel 1944. Dall’uscita del romanzo erano
passati solo sette anni, ma il contesto era molto mutato: dalla grande
depressione alla guerra al nazismo, dalla lotta di classe alla
contrapposizione tra ideologie e grandi nazioni. Non a caso il film
appare influenzato dai moduli di Casablanca.
L’oggetto della storia slitta così dalla critica
sociale alla propaganda bellica.
Il film
è l’esordio di Betty Weinstein Perska,
diciannovenne ebrea povera di New York, poi comparsa a Broadway e
modella, che sarebbe passata alla storia con lo pseudonimo di Lauren
Bacall. Ebbe un successo immediato: lo spartito della canzone che canta
nel film fu pubblicato, e il suo ruolo nel film fu parodiato in un
cortometraggio di animazione della Warner, come d’altronde si
usava all’epoca.
Trattandosi di un film di
culto, è obbligatoria una breve notizia circa la storia
d’amore tra la Bacall e Bogart, nata sulla scena e durata
tredici anni, fino alla morte di lui. Jonathan Coe (1991), grande
mitografo, racconta che al funerale la Bacall fece seppellire Bogart
con un fischietto d’oro che l’attore le aveva
regalato in omaggio alla scena del film che fu causa del loro coup
de foudre. Hawks sostenne che Bogart si era innamorato del
personaggio e non dell’attrice, ma forse era solo un
po’ geloso.
Howard Hawks
Laureato in
ingegneria meccanica, durante la prima guerra mondiale fu pilota
d’aeroplani – il tema di molti suoi film.
Cominciò alla Mary Pickford Company, come editor e poi come
sceneggiatore. Essendo ricco di famiglia – suo padre era un
grande commerciante – prestò soldi a Jack Warner e
divenne presto produttore. Si tratta di un autore totale,
poiché collaborava alla scrittura dei film che dirigeva.
André Bazin vede in lui il prototipo americano
dell’autorialità, il pilastro della sua estetica.
Impiegò le tecniche espressioniste del cinema tedesco in Scarface
(1932), un crudo film ispirato alla vita di Al Capone che
incappò nella censura, al punto che fu possibile rivederlo
solo nel 1979.
Leigh Brackett, grande sceneggiatrice e
scrittrice di fantascienza che in quegli anni collaborò con
Faulkner e Hawks a Il grande sonno, scrisse:
Molti produttori non fanno altro che mettere il fiato sul collo agli scrittori. Howard Hawks siede con te per chiacchierare, esponendo ogni suo pensiero sul tipo di storia che vuole, come dovrebbe andare eccetera. E poi si ritira a Palm Springs sul campo da golf, lasciando a te di tornare con la sceneggiatura migliore che riesci a scrivere.
2. ERNEST HEMINGWAY
Cenni biografici
Era nato a Oak Park
Illinois, 1899; morì suicida a Ketchum, Indiana, 1961. La
sua vita presenta qualche analogia con quella del padre, un medico che
gli aveva trasmesso la passione per la caccia e la pesca, e che si era
a propria volta suicidato.
Il giovane Hemingway
lavorò per un anno come cronista, per poi raggiungere il
fronte italiano nel 1917, dove guidava le ambulanze per la croce rossa.
Fu ferito e decorato con la croce di guerra.
Negli
anni Venti vive a Parigi e frequenta il salotto di Gertrude Stein ed
Ezra Pound, come altri giovani scrittori americani spiantati
(Fitzgerald, Dos Passos, Cummings), per i quali la critica
coniò il termine Lost Generation.
Pubblica i primi Successi – The Sun Also Rises
o Fiesta (1926) e A Farewell to Army
(1928). Negli anni Trenta si trasferisce a Key West in Florida. Il mar
dei Caraibi è descritto in To Have and Have Not
(1937); la guerra civile spagnola, cui partecipò come
volontario, è descritta in For Whom the Bell Tolls
(1940). In questi anni i suoi romanzi si arricchiscono di temi sociali
e politici, e recuperano la difesa della libertà come
valore. La critica non considera queste opere all’altezza
delle precedenti. Con il successo, Hemingway divenne un personaggio
mondano, e nel 1954 gli fu attribuito il Nobel.
Caratteri dell’opera di Hemingway
La
precarietà della vita e la sua mancanza di uno scopo si
riflettono in tutte le opere di Hemingway. Al di là dei
piaceri quali sesso ed alcol, la vita trova senso solo quando si
traduce in lotta per la vita stessa e in una sfida continua con la
morte, dunque nella guerra, nella violenza, nel confronto con la natura
(caccia, pesca, corrida). Il suo stile, definito dai critici
“primitivista”, è complementare a queste
scelte: periodi brevi, concisi, secchi, dialoghi asciutti ed estesi,
introspezione psicologica ed emotiva limitata – tuttavia non
assente, come vorrebbero alcuni critici. Non a caso è stato
riletto dalla generazione degli scrittori americani
minimalisti.
Ma sono davvero del tutto irreperibili
nella sua produzione le preoccupazioni per l’avanguardia, per
lo sperimentalismo, l’attrazione verso le tante
possibilità narrative non convenzionali offerte dalla
lingua? Non sempre l’opera di uno scrittore assomiglia allo
stereotipo descritto dai critici: ad esempio, in The Snows of
Kilimanjaro, descrivendo i ricordi di uno scrittore morente e
il suo rammarico di non poterli trasformare in situazioni narrative,
Hemingway utilizza una tecnica di Joyce e di Faulkner: il flusso di
immagini (cfr. Kennedy, 1996, p. 197-220).
To Have and Have Not: temi e
struttura
Negli anni Trenta Hemingway non
è ancora uno scrittore di successo, anzi: se la passa
discretamente male. Si è sposato, c’è
la crisi economica e non riesce a pubblicare; per di più
è in crisi creativa. Si è trasferito a Key West
in Florida; lì assiste ai terribili effetti di un uragano
sull’economia locale – in gran parte povera e
basata sulla pesca, molto lontana dalla Florida vacanziera di oggi.
Suggestionato contemporaneamente da idee diverse, Hemingway costruisce
tre racconti basati su due piani opposti.
Il primo
piano è quello della borghesia. Esso si incarna in due
attori collettivi distinti: un gruppo di borghesi e intellettuali snob
il cui punto di vista sul luogo è approssimativamente quello
dei turisti a caccia di folklore; i rappresentanti della legge che
persegue i criminali sotto la convinzione di una loro propensione
genetica a delinquere.
Il secondo piano è
quello dei pescatori caraibici, marinai, contrabbandieri, e della loro
cultura che non fa differenza tra ciò che è
legale e ciò che non lo è, perché
impegnata nella lotta per la sopravvivenza.
I due piani si
intersecano ma non si omogeneizzano mai: proprio come borghesia e
proletariato, sono immiscibili. Nel disperato tentativo di costruire un
romanzo unitario, Hemingway tenta di legare i racconti impiegando gli
stessi protagonisti, utilizzando la stessa ambientazione, grazie anche
all’escamotage del ciclo stagionale. Fra l’altro un
tentativo, quello del doppio racconto senza intersezioni, che trova un
analogo faulkneriano nella struttura narrativa di Palme
selvagge.
Al suo primo tentativo di denuncia
sociale, Hemingway costruisce un personaggio darwiniano, impegnato
nella lotta per la vita, totalmente amorale perché non
può permettersi un’etica. Alla fine egli soccombe
perché non è possibile vincere da soli, senza una
qualche forma di organizzazione collettiva: Harry è un
personaggio tragico e votato alla sconfitta, proprio come il suo
autore. In questo esce molto al di fuori degli schemi ideologici della
critica letteraria engagée, che per
molti anni non è riuscita ad apprezzarlo. Certo,
è evidente il conflitto di classe tra il derelitto
contrabbandiere Morgan e una borghesia smidollata protetta dai tutori
della legge. Questi addirittura sembrano perseguire il puro e semplice
sterminio dell’avversario. Nonostante si tratti di una vera
guerra, Morgan resta privo di un proprio esercito e muore. La chiave
nel romanzo, a mio parere, non si dà soltanto nelle ultime
parole di Morgan:
Comunque vada … un uomo solo non ha uno straccio di possibilità.
Occorre anche dare il giusto peso al fatto che, a causa del “tutti contro tutti” che caratterizza l’ambiente di Harry, egli non riesce ad emanciparsi da una solitaria lotta per la vita, quasi fosse una maledizione ineluttabile. Anche per questo il romanzo non ricade in facili schematismi didascalico-ideologici. Questo può aver disturbato la sedicente critica militante almeno quanto la corrosiva denuncia sociale ha allontanato la critica borghese, circuita dalle chimere dell’American Dream. Ad ogni modo il romanzo rimane legato ad un punto di vista strettamente individuale, cosa che non accade, come vedremo, nella sceneggiatura che ne trae Faulkner.
La ricezione
La pubblicazione non
fu apprezzata dalla critica. Ecco alcuni giudizi d’epoca, che
testimoniano delle difficoltà di ricezione della scrittura
hemingwayana, decisamente innovativa quanto disorganica ed altalenante.
J. Donald Adams (1937), critico del New York Times,
scrisse del romanzo:
Nonostante la sua
continua forza quanto a scrittura narrativa è
considerevolmente inferiore ad Addio alle armi.
Sul
New Statesman and Nation –
all’epoca, di tendenza socialista – un anonimo
(1937) attribuisce a Sinclair Lewis un giudizio per cui i personaggi di
Hemingway sarebbero poco più che “buoi
muti”, per poi dichiarare:
Periodi
lunghi, allusioni, analogie, idee, e tutto ciò che
è riflessivo o istruito è alieno al romanzo; una
medietà ammirevole, impossibile di crescita.
Secondo
Malcolm Cowley (1937), peraltro amico e sodale di Hemingway
all’epoca della Lost Generation, il
romanzo mancherebbe di “unità e sicurezza
dell’effetto”, mentre per Bernard DeVoto (1937),
critico liberal, il romanzo costituisce
l’ennesima prova che i personaggi di Hemingway mancano di
coscienza. Infine, Edwin Muir (1937), poeta delle isole Orcadi imbuito
di cultura mitteleuropea, sentenzia:
Il
contrasto tra gli avere e i non avere non è convincente.
Romanzo
scomodo, sulla crisi, denuncia del naufragio americano? Andava
condannato, occorreva prenderne le distanze, attaccarne lo stile per
evitare di entrare nel merito dei contenuti? Forse. Ad ogni modo non fu
certo l’impegno sociale a costituire il tratto più
interessante del romanzo agli occhi di Hollywood.
Secondo
l’ennesimo aneddoto di Hawks, stavolta riportato in Bruce
Kawin (1980:15-16), nemmeno Hemingway era soddisfatto del proprio libro:
“Hawks: Ernest, sei un maledetto sciocco. Ti servono soldi, e lo sai. Non puoi fare tutto ciò che ti pare. Se faccio tre dollari con un film, ne prendi uno. Posso tirar fuori un film dalla tua peggior storia”.
“Hemingway: Qual è la mia peggiore storia?”
“Hawks: Quel mucchio di spazzatura del diavolo che si intitola Avere e non avere”.
“Hemingway: non puoi farci nulla, con quello”.
“Hawks: Certo che posso. Tu hai procurato il personaggio di Harry Morgan, io penso di poterti dare la moglie. Tutto quel che devi fare è una storia su come si sono conosciuti”.
Si tratta di una storiella ben congegnata: il dialogo
è quello di tante sceneggiature anni Quaranta, che
così tanto devono proprio alla lingua di Hemingway; egli
è rappresentato come lo stereotipo dello scrittore in crisi,
vittima di una concezione snobistica della cultura; Hawks naturalmente
lo salva, portandolo ad accettare compromessi con il mercato, come se i
soldi curassero tutte le ferite. Tuttavia sono convinto che, in
effetti, alcune caratteristiche del romanzo lo rendessero
particolarmente appetibile per un cineasta. Per comprenderle meglio,
sarà bene rileggere l’unica critica positiva
d’epoca che abbia trovato, e che è a mio parere
particolarmente azzeccata: quella di Granville Hicks, critico
letterario, allora marxista (Cfr.Robbins, 1974, p. 117). Secondo il suo
punto di vista, Henry Morgan è il primo personaggio di
Hemingway compiutamente maturo perché si distacca
dall’autobiografismo inconscio dei precedenti; in
realtà si tratta di un punto controverso: Vincenzo
Mantovani, curatore e traduttore dell’edizione Mondadori,
identifica in ciascun personaggio il ritratto – o la
caricatura – di persone frequentate da Hemingway durante il
soggiorno a Key West. Tuttavia, forse Hicks voleva sottolineare
l’irrilevanza del gioco al “chi e chi”,
un vizio della critica di sempre, più interessante per i
biografi che per una valutazione critica della sua opera: alla maggior
parte dei lettori il riconoscimento di fatti e persone reali risulta
interdetto. Dunque, sul piano dell’efficacia del romanzo,
ciò che davvero conta è la restituzione di
personaggi credibili, poco importa dove l’autore li ha
trovati. Scrive ancora Hicks:
Hemingway
esibisce – come dall’inizio della propria carriera
– una straordinaria maestria dell’arte
dell’esposizione indiretta del personaggio. Nella vita le
nostre idee degli altri sono deduzioni basate su quel che fanno e
dicono. Hemingway sceglie di lasciarci conoscere i suoi personaggi
nello stesso modo, e dunque riporta, in gran parte, solo quel che
può essere appreso dalla vista e dall’udito. Per
ottenere questo, oltre all’economia, egli domanda, richiede,
un artigianato di alto livello. Conosciamo Morgan da ciò che
dice, qualche volta da ciò che pensa. Lo conosciamo,
inoltre, perché comprendiamo le relazioni che le altre
persone, in particolare sua moglie, intrattengono con lui. Hemingway ci
dà tutto questo in poche scene, ciascuna delle quali
relativamente breve.
E in effetti il racconto
è rarefatto, procede per scene esemplari, quasi si trattasse
di un dramma o – guarda caso – di un film. Questo
tratto della scrittura di Hemingway deve aver colpito Hollywood, al
momento di opzionare la raccolta di racconti: anche al cinema, infatti,
è obbligatorio far conoscere i personaggi attraverso il
dialogo, attraverso l’azione. La voce narrante non
può certo spiegarne il pensiero, se non sporadicamente, in
casi specifici, a meno che non si cerchi un effetto marcatamente
letterario e comunque a rischio di sfiancare il pubblico con
ciò che in gergo si chiama “spiega”. Il
cinema ha altri mezzi e con questi deve arrangiarsi, sfruttando le
proprie grandi potenzialità per aggirare certi limiti. Come
vedremo, non è affatto un caso che Faulkner recuperi tanta
parte del dialogo hemingwayano lasciandolo intatto. Inoltre, il romanzo
fu sfruttato per altre due pellicole: Golfo del Messico
di Michael Curtiz e Agguato nei Caraibi di Don
Siegel.
3. WILLIAM
FAULKNER
Cenni
biografici
William Faulkner – ma il suo vero cognome
era “Falkner” – era nato a New Albany
Mississippi, 1896, e morì a Oxford, Mississippi, nel 1962.
La sua famiglia apparteneva alla tradizionale borghesia sudista: suo
padre era colonnello dell’esercito durante la guerra civile,
e in seguito fu avvocato e uomo politico.
Il giovane
William frequentò un anno di
università, per arruolarsi nella Canadian Air Force nel
1918, troppo tardi per partecipare ad azioni di guerra. Il tema ritorna
in molti romanzi e racconti. Si veda per esempio Gambetto di
cavallo: pubblicato nel ’49 insieme ad altri
racconti polizieschi scritti a partire da ’32: Faulkner
affronta il genere giallo fondendolo con il proprio immaginario e
trattandolo con le proprie tecniche letterarie. Il personaggio di Gavin
Stevens è costuruito sul modello dell’istruzione
europea di Faulkner (si legga a pag. 228 della edizione Einaudi),
mentre il nipote Charles Mallison Jr. sugli ideali della sua tarda
adolescenza, quando, non ancora maggiorenne, si arruolò
volontario per partecipare alla guerra (p. 188). Molti giovani
d’allora rimpiansero di non aver potuto dar prova di
sé durante il conflitto. Lo stesso Bogart fu arruolato in
marina per pochi mesi.
Nel 1924 Faulkner fu giornalista, e nel
1925 passò un anno in Europa. Si confronti la sua biografia
con quella di Hemingway: il viaggio in Europa era tipico della
formazione alto-borghese americana. In Europa, Faulkner
cominciò la sua attività di scrittore, ma se il
successo di critica fu immediato, non altrettanto può dirsi
di quello economico. Per mantenersi, dal 1932 al 1945 scrisse
sceneggiature per Hollywood, come abbiamo anticipato. Hollywood era
allora una fonte di introiti per molti scrittori, pensiamo a
Raymond Chandler, e costituiva una fonte di fascinazione per altri,
Hemingway compreso, che realizzò una sceneggiatura per un
documentario (The Spanish Earth). Inoltre, nel 2009
Cuba ha aperto gli archivi dello scrittore agli studiosi, annunciando
tra le altre novità una sceneggiatura de Il
vecchio e il mare.
Tornando a Faulkner, il
riconoscimento letterario arriva nel 1949 con il Nobel. Dal 1957 fu
docente all’università della Virginia, ma la sua
salute andò declinando anche a causa dell’abuso di
alcol, altra passione in comune con Hemingway.
Caratteri della scrittura di Faulkner: Santuario.
I
romanzi faulkneriani trattano prevalentemente temi legati al sud degli
Stati Uniti, descrivendone la violenza e la brutalità, e
sono ambientati nella mitica contea di Yoknapatawpha. Il suo stile,
estremamente riconoscibile, è stato così
riassunto da Fernanda Pivano (2010:269):
(…)
i soliti periodi lunghi tre o quattro pagine, il solito racconto
spezzato e frammentato, il solito toboga di immagini e di stati, le
solite genealogie senza limiti. Ma che bello se si potesse dire spesso
“solito” a roba di questo genere.
È
impossibile sintetizzare esaustivamente problemi complessi come la
scrittura faulkneriana, le figure a lui care, l’ideologia:
tutto ciò meriterebbe uno studio a se stante.
Perciò ricorro ad uno stratagemma, e mi
concentrerò soprattutto sul suo romanzo Santuario.
Scelgo questo e non, ad esempio, L’urlo e il furore,
perché, al contrario degli altri, ebbe successo negli anni
Trenta e portò al suo autore una certa notorietà.
Si tratta di un libro che con il cinema ha molto a che fare, e che anzi
ne ha perfino cambiato involontariamente la storia.
Romanzo
dai caratteri popolari, violento, con venature di erotismo, Santuario
divenne una classica lettura proibita, ovverosia obbligatoria: Fernanda
Pivano (1992) testimonia come i giovani dell’epoca lo
leggessero di nascosto. Con queste premesse, non poteva non divenire
immediatamente un film. Perfino il titolo era talmente tabù
in alcuni ambienti che Hollywood non poté utilizzarlo. Solo
nel 1961 è stato riadattato per il grande schermo con il suo
titolo originale. Così, l'adattamento della Paramount
uscì nel 1933 come La storia di Temple Drake
(titolo italiano: Perdizione), “senza
ingannare nessuno che sapesse leggere”, sempre nelle parole
della Pivano. Miriam Hopkins recita il ruolo che dà il
titolo al film, la promiscua figlia di un giudice meridionale. Temple
farebbe qualsiasi cosa per un brivido, e finisce dritta nelle mani di
una banda di rapitori. Viene violentata da Trigger, il capobanda, dopo
di che lei lo uccide. Chiamata a testimoniare nel processo dal suo ex
fidanzato (William Gargan), pubblico ministero, non solo Temple
confessa l'omicidio di Trigger, ma rivela a tutti di aver goduto
segretamente dello stupro.
Rispetto al film il
romanzo di Faulkner sa essere anche più efferato; nonostante
questo La storia di Temple Drake è uno
dei tanti film che portò alla crociata cattolica per
“ripulire Hollywood” e all’istituzione
del codice di autocensura del 1934. Ad ogni modo, per Faulkner questa
fu l’occasione di rinsaldare i rapporti col mondo del cinema,
i quali, come dirò poi, risalivano al 1932.
Un libro scritto per vendere?
Proprio
come Gavin Stevens, il detective dei suoi racconti, Faulkner si
è nutrito di cultura europea e in America è un
non-integrato. I suoi romanzi, di grande valore letterario, hanno
successo di critica ma non vendono, perciò gli editori non
lo pubblicano. Per prendersi una rivincita sulla cultura americana,
Faulkner decide di scrivere un romanzo commerciale ispirandosi a quel
che vende, ossia al Pulp, i racconti di serie b
pubblicati nelle riviste, spesso ispirati ad una brutalità
senza confini. Qualcosa di tipicamente americano, e contemporaneamente
una fonte di sostentamento per scrittori esordienti – non
tutti di talento, a dire il vero.
Nell’introduzione
dell’edizione 1932 Faulkner pretende di aver ultimato due
stesure del romanzo; non ci sono prove di questa operazione. Nonostante
questo, Fernanda Pivano (ibidem) gli dà
credito e considera Santuario un romanzo concepito
sì per vendere, ma passato attraverso il riscatto della
riscrittura. Questo punto di vista mi lascia un po’ scettico;
che abbia riscritto o no il romanzo, Faulkner reimpiega la scrittura
delle avanguardie come tecniche per caratterizzare situazioni e
personaggi. Ad esempio, in Santuario la scrittura
barocca e lussureggiante degli esordi diviene un registro narrativo
accanto ad altri, in vista di determinati effetti di senso: ad esempio,
a p. 19 dell’edizione Adelphi, una scelta lessicale preziosa
caratterizza il discorso di Horace, l’avvocato colto di
Harward che, in stato di ubriachezza, racconta di aver lasciato la
moglie. Invece (p. 200) Temple racconta la violenza sessuale che ha
subito utilizzando una tecnica affine al monologo interiore.
Interessante poi (pp. 207-208) come nel dormiveglia/sogno Horace si
trasformi in Temple grazie ad un operatore, il frastuono dei cartocci
delle pannocchie cui lei stessa faceva riferimento ricordando la
violenza sessuale. Uno squisito correlativo oggettivo.
Accanto
alle tecniche, nel romanzo ritroviamo anche i temi cari a Faulkner: i
ritratti del sud cui è sempre stato interessato (p. 108); la
saga familiare; banalmente, l’immaginaria città di
Jackson, della prototipica e ideale contea di Yoknapatawpha,
dove i romanzi di Faulkner costruiscono uno dopo l’altro una
saga di personaggi, storie, relazioni. Per attenermi al nostro
argomento, tuttavia, mi limiterò ad attrarre
l’attenzione del lettore su due ruoli tematici che, presenti
in Santuario e tipici dell’opera di
Faulkner, hanno una rilevanza anche per quel che riguarda la versione
cinematografica di To Have and Have Not.
Il gangster
Un altro registro
linguistico impiegato da Faulkner è quello dei dialoghi dei
gangster, secchi e concisi – si vedano quelli di Popeye a
pag. 47.
“E poi vai a rimetterti
giù alla strada” disse Popeye. “Sentito?
”
“Pensavo che volesse starci lei, di guardia” disse l’uomo.
“Non pensare” disse Popeye, raschiando i risvolti dei pantaloni.
“Te la sei cavata senza per quarant’anni. Fai quello che t’ho detto”.
La fonte di ispirazione potrebbe essere il racconto poliziesco noir – in particolare Dashiell Hammett, che aveva rinnovato il genere e, a detta di Raymond Chandler, segnato una generazione; l’efficacia con cui Faulkner riesce a replicare questo modello, ormai attestato nella cultura popolare, costituì probabilmente uno dei motivi dell’interesse di Hollywood verso la sua scrittura.
Ancora, dello stereotipo del gangster Popeye condivide i simboli e il modo di vestire: abiti neri, il panciotto, la fondina con la semiautomatica, l’eterna sigaretta in bocca; egli è descritto come un orco nelle fiabe, una pura funzione narrativa, parla il meno possibile, non ha uno spessore cognitivo o emotivo, sembra vivere un perenne stato crepuscolare di coscienza, si limita ad agire per lo più di notte, attirando le proprie vittime in spazi chiusi. Con un procedimento metonimico, il testo lo riduce spesso alla bronza accesa della propria sigaretta – forse anche qui c’è il tentativo di costruire un correlativo oggettivo. Anche la scelta di farne un personaggio impotente è coerente con questa impostazione de-antropomorfizzante.
La donna perduta
Un altro
personaggio che Faulkner porterà al cinema è la
donna perduta, esemplificata dall’eloquio della donna del
gangster a pag. 61:
“Un uomo? Tu un uomo
vero non l’hai mai visto. Tu neanche lo sai cosa sia esser
voluta da un uomo vero. E ringrazia il cielo che non
t’è mai successo e non ti succederà
mai, perché se no scopriresti quel che vale quel bel
faccino, e tutto il resto di te a cui credi di tenere tanto, quando
invece ne hai soltanto paura. E se lui è abbastanza uomo da
darti della puttana, dirai Sì Sì e ti trascinerai
nuda per terra e nel fango perché te lo dica ancora
(…)”
Il punto di vista cognitivo ed
emotivo di Temple che ritroviamo a p. 91 non è certamente
riproducibile al cinema, caratterizzato da enunciazione impersonale
– Metz (1995); tuttavia la scrittura faulkneriana ricorda una
semisoggettiva, perché lo sguardo del narratore è
solidale con il personaggio di Temple, ma senza utilizzare la prima
persona. L’intera scena viene raccontata una seconda volta in
prima persona dalla compagna di Lee (p. 153) e poi ancora da Temple
stessa, come abbiamo detto (p. 200). In questo modo Faulkner ottiene un
effetto straziante: il lettore sa come l’intera vicenda non
può non andare a finire, e segue passo passo sentimenti e
passioni dei personaggi che ancora sperano in una soluzione diversa e
migliore. Qui abbiamo un massimo di contrasto rispetto alla scrittura
hemingwayana: questa riporta anche gli accadimenti più
mostruosi con la freddezza del miglior giornalismo, alla ricerca di un
effetto di straniamento; Faulkner riempie il racconto dei fatti delle
tonalità emotive più diverse: il lettore non si
annoia nel leggere e rileggere la medesima vicenda, perché
l’interesse non è nella struttura narrativa,
quanto in quella passionale.
Ritornando alla figura
della donna perduta, Faulkner avrebbe portato a Hollywood questa figura
fin dalle prime prove. Anche qui tuttavia l’interesse del
mondo cinematografico verso Faulkner non risiede soltanto nei temi che
affronta, ma anche in una scrittura tesa a far cogliere stati
d’animo attraverso azioni – si veda il modo in cui
descrive il comportamento di Temple a p. 210.
Faulkner e il cinema
Il successo
di Santuario segna una svolta nella vita di
Faulkner. Eppure non si deve solo al successo se divenne sceneggiatore
a Hollywood. Ironia della sorte, fu proprio Hemingway a influire
casualmente sul suo destino, scegliendo di ripubblicare il suo racconto
Turnabout, originariamente edito nel 1932 sul Saturday
Evening Post, in una antologia di racconti di guerra (cfr.
Matthews, 1995, pp. 51-74). E proprio questo racconto fu comprato da
Hollywood, perché Howard Hawks realizzasse il film Rivalità
eroica ( Today We Live), con Gary Cooper
e Joan Crawford. La MGM pagò 2.250 dollari a Faulkner
perché producesse una sceneggiatura, che egli
realizzò in cinque giorni. In seguito, dovette riadattarla
inserendo una storia d’amore romantica per valorizzare la
Crawford in un ruolo di donna forte e divisa tra i classici due
pretendenti.
Le sceneggiature realizzate in tanti anni
sarebbero 17 per un totale di 2500 pagine, anche se il numero non
è certo a causa del fatto che il suo contributo non fu
sempre accreditato. Ma qual era il rapporto di Faulkner con il cinema,
con la sua particolare forma di scrittura? Nelle sue parole,
frustrante. Migliaia di pagine buttate. Leggiamo la lettera di
dimissioni di Faulkner a Jack Warner 1945:
Ho
passato tre anni facendo un lavoro (tentando di farlo) e che non ero
preparato a fare e perciò ho perduto tempo che come
scrittore quarantasettenne non potevo permettermi di perdere. E non oso
perderne di più.
Faulkner considerava
l’attività di sceneggiatura perfino
dannosa:
A volte penso che se faccio un altro
trattamento o una sceneggiatura perderò qualunque potere
abbia come scrittore (cfr. Minter, 1980, p. 204).
Eppure,
a quanto pare esprimeva una grande ammirazione verso la
capacità dei suoi colleghi di
“telegrafare” al pubblico molte cose senza
impiegare parole, il che, secondo Bruno Cartosio (1995) implica
comunque un certo interesse verso questa forma di scrittura.
È chiaro che, per uno scrittore che aveva conosciuto
l’insuccesso commerciale, Hollywood rappresentava per lo meno
la possibilità di vivere della propria scrittura;
ciò non gli impedì di utilizzare temi dal proprio
lavoro di narratore, la donna perduta, l’incesto –
si veda L’Urlo e il Furore. Per questo i
critici contemporanei vedono sì in Faulkner la
consapevolezza del mercato, ma rivalutano lo sforzo di attivare nello
spettatore uno sguardo critico e non disimpegnato.
Faulkner
sognava quello che oggi definiremmo telelavoro, ossia scrivere dalla
sua tranquilla Oxford, Mississippi, dove aveva lasciato la moglie. A
Hollywood ebbe anche una estenuante storia d'amore con la segretaria di
Howard Hawks, Meta Carpenter, che in seguitò ebbe la buona
idea di pubblicare il loro carteggio, a carattere piuttosto
pornografico.
Scrivere per Hollywood, specie in tempo di
guerra, lo pose anche in una relazione problematica con la politica:
Franklin Delano Roosevelt gli commissionò una De
Gaulle Story, la cui realizzazione fu ostacolata dai rapporti
altalenanti tra il generale francese e il presidente americano.
Politici furono anche i motivi dell’ingaggio iniziale per Acque
del sud: Hawks gli chiese di modificarlo in modo che il
governo concedesse il visto per l’esportazione. In
particolare, l’ambientazione cubana del romanzo hemingwayano
era problematica – non si doveva disturbare l’amico
dittatore Fulgencio Batista?
Caratteri del rapporto tra Hemingway e Faulkner
Ancora
una volta, per sviscerare l’argomento di questo paragrafo
occorrerebbe una tesi di dottorato specialistica ed anni di lavoro. Mi
accontenterò dunque a brevi cenni che mi pare abbiano
attinenza con Acque del sud.
Ritornando
alla storiella su Faulkner e Clark Gable, devo dire che
l’aneddoto è verosimile.
In una
intervista (Inge, 1999, p. 71), celebre anche per le polemiche che
suscitò, citando anche John Steinbeck e Willa
Cather, Faulkner stilò la sua personale graduatoria degli
scrittori americani: (1) Thomas Wolfe, (2) se stesso; (3) Dos Passos;
(4) Ernest Hemingway. Un rapporto di stima, ma anche di competizione,
lega Hemingway a Faulkner, che in quella sede dice del collega:
Non ha coraggio, non si è mai distinto dalla massa. Non è mai stato noto per aver utilizzato un termine che potesse spingere il lettore a controllare il dizionario per verificarne l’impiego.
Il giudizio di Faulkner sulla scrittura di Hemingway era
negativo: la semplicità della lingua di Hemingway
rappresentava per Faulkner il fallimento nel cogliere le
opportunità della propria arte (cfr. Fleming, 1996, pp.
128-148).
Occorre aggiungere che Faulkner
denunciò come una distorsione della stampa il modo in cui i
suoi giudizi vennero riportati – oggi la considereremmo una
“smentita”; tuttavia, Hemingway non
perdonò a Faulkner le sue uscite (Inge, cit., XI).
Accomunati
dall’età e dalla cittadinanza statunitense,
Faulkner ed Hemingway sono dunque per molti altri versi contrapposti.
Come abbiamo visto Faulkner è uno scrittore affine alle
avanguardie europee, mentre Hemingway inventa una lingua diversa,
specificamente americana, anche nel senso dell’influsso che
finì per esercitare su una generazione di scrittori. Dopo
che negli anni Trenta la fortuna gli arrise, Hemingway fu anche
scrittore mondano; Faulkner conobbe il successo in ritardo, dopo la
riedizione dei suoi capolavori in The Portable Faulkner nel
1946 e il Nobel del 1949.
Certamente,
alcuni temi accomunano la loro produzione. In racconti come Monk,
o Una rosa per Emily, Faulkner affronta il tema
degli ultimi, mostrando interessi simili a quelli di Hemingway. Anche
questa analogia superficiale andrebbe discussa. A causa di questo tipo
di produzioni Faulkner è classificato nella
“sinistra letteraria”, ma ad essere di sinistra
è piuttosto la critica che lo legge in questo modo; Faulkner
rimane orgogliosamente un gentiluomo del sud: la Pivano (2010, pp.
267-269) porta ad esempio tutti gli stereotipi razziali in
virtù dei quali egli mostrava un civile apprezzamento verso
la gente di colore. La Pivano non lo dice, ma ai miei occhi si tratta
chiaramente delle stesse caratteristiche che il negriero cercava nella
propria merce. Tuttavia l’attenzione verso gli ultimi rimane
un tratto interessante che lo avvicina in parte all’Hemingway
di To Have and Have Not.
Altra
grande figura letteraria che accomuna i due autori è la
caccia. Non posso dilungarmi perché perderei di vista il
cinema, ma vorrei comunque spendere due parole
sull’argomento. La grande foresta esce
nel 1955. Raccoglieva materiale già edito in precedenza, su
cui Faulkner lavora per costruire un libro omogeneo, basato su una
serie di figure.
Il primo racconto – L’orso
– era uscito nel 1935, sul Saturday Evening Post.
Si trattava di un settimanale molto importante nella cultura americana,
che presentava articoli di attualità, ma anche letteratura e
poesia. Fu una palestra importante per molti giovani autori.
È evidente come Faulkner perseguisse anche qui un connubio
tra una scrittura elevata ed un tema popolare. Un paragone con
Hemingway si rivelerebbe piuttosto interessante. L’orso
infatti sfrutta la figura della caccia come percorso iniziatico, allo
scopo di costruire un racconto di formazione – un topos
letterario; in Hemingway la stessa figura rappresenta un tema molto
diverso, come la lotta tragica dell’uomo contro la natura,
lotta che spesso lo vede sconfitto. Anche in To Have and Have
Not reperiamo sostituzioni simili, per cui Faulkner mantiene
una figura proveniente dal romanzo di Hemingway ma la lega ad un tema
differente in coerenza con i diversi valori profondi espressi dal
racconto.
4. RAPPORTI TRA ROMANZO E FILM
Cautele
metodologiche
Nel ricostruire le scelte del Faulkner che
riscrive Hemingway occorre risolvere alcuni problemi. La sceneggiatura
infatti è frutto della collaborazione di tre persone: oltre
a Faulkner, responsabile della versione definitiva, Jules Furthman e,
naturalmente, Howard Hawks. Non essendo disponibile, che io sappia e al
momento, uno studio filologico sulle diverse versioni, mi rifaccio ad
una categoria molto utile sviluppata dalla semiotica: quella di
enunciatore, o, per dirla con Umberto Eco (1979), di autore
modello. Ogni testo, in quanto prodotto dall’industria
culturale, è frutto della cooperazione tra diverse
professionalità. Per quanto riguarda il cinema, ad esempio,
oltre al regista e agli sceneggiatori, abbiamo scenografi, costumisti,
compositori, montatori, direttori della fotografia, e mi scuso se
dimentico qualcuno. Agli occhi di una sociologia della cultura, il
tradizionale concetto di autore si dissolve così in una
sorta di nube autoriale (cfr. Becker, 1982).
Lo
sguardo della semiotica in un certo senso è in grado di
riconciliare le due visioni pre- e post-industriale della cultura (author
as many, author as one) notando che il punto di partenza di
ogni nostra ricerca è il testo, e che l’autore cui
ci riferiamo è sempre l’immagine
dell’autore che desumiamo dal testo, a maggior ragione quando
non disponiamo di informazioni sufficientemente attendibili –
a partire dal primo grande autore della letteratura mondiale, Omero.
Chiamiamo per semplicità autore modello
questa imago auctoris ricostruita a partire dalle
“tracce” delle scelte enunciative che ha lasciato
– consapevolmente o meno – nel proprio
testo.
L’operazione che ho cominciato a
delineare è dunque la seguente:
- ricostruire l’autore modello F dei romanzi di Faulkner, o per lo meno alcuni che giudico pertinenti al suo lavoro di scrittura popolare, vicina al cinema, con particolare riguardo per le sue preferenze in fatto di temi e figure ricorrenti;
- ricostruire l’autore modello H del romanzo To Have and Have Not di Hemingway;
- ricostruire l’autore modello A del film To Have and Have Not, ossia Acque del sud.
- Comparare le scelte dei tre autori modello: comprendere dove A si avvicina ad H e dove se ne distanzia per aderire ad F – una questione di compatibilità tra autori modello.
Poiché a questo punto A è una gerarchia di autori, oltre ad una sorta di sovrapposizione coerente di F e di A, si pone la domanda: quanto il Faulkner empirico è A? Faulkner è il responsabile dell’ultima versione della sceneggiatura, e dunque si è assunto la responsabilità anche del lavoro di Furthman. Quindi, ad esempio, importerebbe relativamente se a portare sullo schermo i dialoghi del romanzo fosse stato Furthman: la nostra non è una questione di primogenitura, dato che Faulkner ha comunque ritenuto di lasciarli come li ha trovati. E non importa se fu davvero Hawks a chiedere a Faulkner di inserire nella sceneggiatura il provino della Bacall: Faulkner è il responsabile della sua scrittura nella versione definitiva, ha preso un’idea generale e l’ha trasformata in una delle più intense figure femminili del cinema hollywoodiano. Insomma, senza voler rubare nulla agli altri, su Faulkner grava una parte cospicua della responsabilità autoriale.
Cinema e letteratura: osservazioni generali
La
scrittura cinematografica ha per lo più un carattere
parassitario. Certo, esistono sceneggiature originali, ma non si
contano gli adattamenti a partire da romanzi e racconti, al punto che
alcuni dizionari del cinema contengono indici delle opere letterarie
dalle quali sono stati tratti uno o più film.
L’arco
narrativo del lungometraggio sembrerebbe adatto ad esaurire il
contenuto del racconto più di quanto non riesca a riportare
fedelmente la grande complessità e i dettagli di grandi
romanzi. Chiamo a testimoniare Sergej M. Ejzenštejn (1958),
ed in particolare la sua lezione agli studenti sul romanzo Stalingrado
di Nekrasov. Appare chiaro che il romanzo funge da paradigma
entro cui selezionare gli elementi che struttureranno il racconto
cinematografico. Diremo dunque che l’adattamento, in quanto traduzione
intersemiotica da romanzo a
film, necessita anche di una operazione metasemiotica:
un lavoro sul romanzo e sul
film.
Nel caso di Acque del sud questa
operazione di selezione e concatenazione balza agli occhi: il romanzo
raccoglie tre racconti legati tra loro; la sceneggiatura seleziona in
gran parte elementi provenienti dal primo racconto.
Elementi tradotti
Nonostante le
grandi differenze tra film e romanzo, un esame della struttura
narrativa del film e del primo racconto
hemingwayano, ed in particolare della sintassi profonda delle loro
funzioni, permette di verificare come a cambiare sia soprattutto la
carrozzeria della storia, meno il suo telaio. Ad esempio, in entrambi
la vicenda si avvia dalla più classica mancanza
già nota a Vladimir Propp (1966): Harry viene buggerato e si
trova senza soldi (poco importa che nel film fosse sul punto di
recuperarli) ragion per cui (contratto) accetta di
far qualcosa di illegale. Qui la vera differenza tra libro e film
riguarda la moralità del programma narrativo di Harry, e
dunque non riguarda la struttura narrativa, quanto i valori profondi in
gioco. Ad ogni modo, il programma narrativo di Harry riesce e questi si
ricongiunge con la donna amata.
Non sto cercando di convincere
il lettore che si tratti della stessa trama:
chiaramente, questa struttura è tanto generale da poter
essere impiegata per generare racconti d’ogni tipo. Su questo
appoggio, vediamo montate, sia pur con funzioni diverse, anche alcune figure
provenienti dal romanzo, come la sparatoria; alcuni temi
(Eddy l’ubriaco tradirà Harry?) e ruoli
tematici come i rivoluzionari, i rappresentanti di
un’autorità ottusa e prevaricatrice, il turista
borghese truffaldino. Interessante, grazie all’eccellente
recitazione di Walter Brennan, anche la resa cinematografica dello stile
visivo di Hemingway: Eddy “camminava come se
avesse le giunture montate all'incontrario”. E accanto a
tutto ciò, azioni – il cazzotto di Harry al
marinaio ed amico Eddy per dissuaderlo dall’accompagnarlo in
una avventura pericolosa; battute come: “Ti voglio coraggioso
ma non fuori uso”; pagine intere di dialogo (ad es. le pp.
31-33). Proprio i dialoghi sono cruciali per comprendere la relazione
tra Faulkner ed Hemingway.
La scrittura di Hemingway si presta
bene alla sceneggiatura. Il suo dialogo, così distante da
quello nevrotico, spezzato e denso di allusioni dei romanzi di
Faulkner, è stato considerato da taluni critici fin troppo
tagliente. Ma Faulkner deve averlo apprezzato: come abbiamo visto,
aveva a propria volta impiegato un registro simile in Santuario
per caratterizzare il gangster Popeye. L’efficacia
e la concisione di Hemingway fa di lui un precursore ed un modello per
gli sceneggiatori del cinema hollywoodiano degli anni Quaranta. Il
motivo non risiede solo nei ruoli “forti” che
caratterizzano quel cinema, ma è anche, ancora una volta, un
fatto relativo al linguaggio del cinema sonoro. Se ai tempi del muto
un’immagine, un gesto, bastavano a far comprendere la
situazione allo spettatore in qualche secondo, il rischio che incombe
continuamente sul cinema sonoro è il pleonasmo derivante
dall’obbligatorietà del dialogo in molte delle
situazioni rappresentate – cfr. Ejzenštejn,
“Il futuro del sonoro – dichiarazione”
(1949). Si comprende allora l’evoluzione della lingua
cinematografica verso battute secche ed efficaci, che esaltino il ritmo
del montaggio, una forma espressiva sempre disponibile accanto ad altre
per i registi di ogni epoca. Nel mantenere il dialogo hemingwayano
Faulkner compie così una operazione metacinematografica e ad
un tempo metaletteraria, poiché basata sulle caratteristiche
della lingua di Hemingway.
Tradimenti
Senza dubbio, il fatto
che il cinema poggi su un dispositivo di enunciazione meccanico,
impersonale, porta a specificità del linguaggio
cinematografico che non permettono la resa fedele di alcune tecniche
enunciative. Per cui, non ritroviamo al cinema il continuo spostamento (débrayage)
dei punti di vista dei protagonisti, il discorso diretto o indiretto
libero, le strutture a incasso di narratori che caratterizzano il
romanzo. Oltre alle differenze tra le lingue della scrittura e del
cinema, occorre registrare gli interventi di Faulkner il quale, si
è detto, mantiene essenzialmente la sintassi profonda della
struttura narrativa e sfrutta i racconti di Hemingway come repertorio
di situazioni drammatiche: a parte ciò, è
soprattutto sul piano semantico che Faulkner apporta le sue modifiche.
Egli opera per commutazioni, ossia per
sostituzioni che alterano il significato della storia. Quella
più evidente riguarda le relazioni sentimentali di Harry:
evidentemente Faulkner e Hemingway avevano gusti molto diversi in fatto
di personaggi femminili. Nel romanzo, a Marie è affidato il
ruolo tematico della moglie fedele e sessualmente soddisfacente, che
attende Harry a casa, incapace di rassegnarsi alla certezza che prima o
poi egli non tornerà più:
Marie lo seguì con lo sguardo mentre usciva di casa, alto, largo di spalle, con la schiena dritta e i fianchi stretti, che si muoveva, pensò, in silenzio come un animale, agile e svelto e non ancora vecchio, tanto elastici e spediti sono i suoi movimenti, pensò, e quando salì in macchina lo vide biondo, con i capelli bruciati dal sole, la faccia con i larghi zigomi da mongolo, e gli occhi socchiusi, il naso rotto alla radice, la bocca larga e la mascella rotonda, e salendo in macchina Harry le sorrise e lei si mise a piangere. Quella maledetta faccia, pensava. Ogni volta che vedo la sua maledetta faccia mi vien voglia di piangere.
Il personaggio di Marie sarebbe in certo modo sciatto e
stereotipato se non fosse per la tecnica narrativa adottata: il passo
che ho riportato non è una descrizione oggettiva di Harry,
ma di come Marie lo vede: la sua fisionomia le è nota in
ogni dettaglio carico della propria passione –
è uno sguardo intenso, ben lontano da quello,
meccanico, della macchina da presa.
Nel film Marie
diviene al contrario una classica donna perduta faulkneriana, un
personaggio sicuramente più emancipato rispetto a quello di
Hemingway, ma di una emancipazione il cui limite coincide appunto con
un certo “virilismo” anni Quaranta. Marie, in fuga
dalla vita, è la versione cinematografica della Temple Drake
di Santuario, temprata dall’esperienza
del mondo ed incarnata nelle fattezze e nei modi di Lauren Bacall. La
Marie di Hemingway è complementare al marito, anche da un
punto di vista sessuale; la Marie faulkneriana è un
personaggio simmetrico ad Harry Morgan, e, come ciascuno nota, ruba la
scena perfino ad un vero duro come Bogart.
Da un punto di
vista tematico, la crisi economica del romanzo è sostituita
nel film dalla guerra. Hemingway aveva osservato gli effetti della
crisi sulla società di Key West, colpita duramente
perché impegnata anche nella lotta per la vita e a
fronteggiare avversità naturali come gli uragani. Sebbene il
suo punto di vista ricordi più Herbert Spencer che Karl
Marx, Hemingway non può fare a meno di mettere in scena la
lotta di classe. La borghesia è rappresentata attraverso
l’ottusità dei suoi gendarmi, il feroce egoismo di
casta o la promiscuità sessuale dei suoi notabili, la
vacuità dei suoi intellettuali.
In tutto
ciò, è vero che Faulkner mantiene anche una certa
rivalità ed incomprensione tra gli
“ultimi” e la borghesia, incarnata dal turista
americano; tuttavia quando Faulkner realizza la sceneggiatura
l’America è entrata in guerra e il conflitto
diviene, per lo meno temporaneamente, collaborazione di
classe. Questo probabilmente era il difetto principale della
sceneggiatura di Jules Furthman, più aderente al romanzo:
occorreva che la guerra sostituisse la crisi economica come
protagonista. Possiamo certamente dire che Faulkner tradisce Hemingway
ma anche e soprattutto se stesso, dato che la crisi economica
è sempre presente nei suoi spietati ritratti del profondo
sud.
Forse in conseguenza del mutamento nei valori profondi
che ispirano la storia, anche la focalizzazione muta: il romanzo
è e rimane su di un piano strettamente individuale, cosa che
non accade nella sceneggiatura che ne trae Faulkner. Nel film
Morgan/Bogart, come il Rick di Casablanca, trascende il proprio
interesse privato e sceglie di sposare una parte, di contrapporsi alle
forze del male incarnate nei collaborazionisti di Vichy. Ma in fondo,
tra la pubblicazione dei racconti e la l’uscita del film
passano sette anni. La guerra avrebbe davvero fatto
dell’individualista hemingwayano Morgan lo stereotipo
dell’eroe di guerra? Chissà.
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