TENEBRE
è un film del 1983 diretto da Dario Argento
TRAMA
Uno scrittore americano di gialli si trova coinvolto, a Roma, in una serie di omicidi commessi da un fanatico moralista che ha qualche trauma infantile in sospeso. Dei film di Dario Argento (anche sceneggiatore), è uno dei più violenti e uno dei più sofisticati tecnicamente (molte le sequenze realizzate con la Louma, una macchina da presa che consente ogni genere di acrobazie).
da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011,
di Paolo Mereghetti, Dalai Editore, Milano, 2010.
TENEBRE
regia di Dario Argento
di Guido Vitiello
Prima che si chiamasse
col nome di Assassino
aveva un altro nome, Dio
Manlio Sgalambro, Nietzsche
Niente male, per un film che si chiama Tenebre: una donna tutta vestita di bianco, con una borsa bianca, entra in una casa bianca e si mette a conversare con un’altra donna, la sua amante, avvolta in un telo bianco. Si affaccia alla finestra, dalle tende bianche, e sembra avvertire una presenza minacciosa. Da qui parte un tour de force registico che non ha pari nel cinema di Dario Argento, un long take delirante, quasi un piano-sequenza, che sfugge a qualunque classificazione, realizzato con la leggendaria Louma (una gru snodata su cui è montata la macchina da presa, e che consente acrobazie e traiettorie impossibili). È una soggettiva dell’assassino?
È un’oggettiva irreale, come quella che apre L’infernale Quinlan? Per sciogliere il dilemma soggettiva/oggettiva, come vedremo, bisognerà prima chiarirsi le idee su chi o che cosa Argento intenda per “soggetto”. La macchina da presa s’innalza in un movimento vertiginoso, s’inerpica sui muri dello strano edificio irregolare e scosceso (all’Eur di Roma), indugia davanti alla finestra del piano superiore, spia per un poco la ragazza nell’asciugamano bianco, poi riprende la sua corsa e perlustra superfici, tegole, travi, in un folle minuto di arte materica o astratta, e quando lo spettatore ha perso ormai ogni cognizione dello spazio, si avvicina a una tapparella chiusa e sembra infine incarnarsi nelle mani guantate di un uomo, che ne scardina le liste ad una ad una e si presenta alle spalle della vittima con un rasoio affilato. Era dunque una soggettiva? Sembrerebbe di sì. Ma non c’è soggetto, nel mondo naturale e men che mai in quello umano, che possa fisicamente compiere quei movimenti. Che cosa diavolo abbiamo visto, allora?
Facciamo un passo indietro. Argento ha cominciato la sua carriera registica con il giallo, e lo ha contaminato sempre più di elementi thriller e horror, fino a sfociare nel cinema dell’orrore puro e semplice, spesso con una declinazione fantastica. Ora, che cosa distingue questi generi? Si potrebbero riempire volumi di classificazioni più o meno bizantine, ma basterà tenere in conto un solo aspetto: nel giallo e nel thriller l’assassino è (spesso, non sempre) una persona in carne e ossa; nell’horror, specie in quello fantastico, il male è (spesso, non sempre) di natura soprannaturale. Tenebre appartiene alla fase del cinema di Argento contesa più di ogni altra tra queste due vocazioni: l’assassino qui è ancora uno psicopatico, non certo un demone o una strega, ma di quegli esseri soprannaturali esibisce già l’onnipresenza, l’invisibilità e la sovrumana libertà di movimento. D’altra parte, l’idea filosofica alla base del film è che l’omicidio sia l’atto della libertà suprema, il gesto tramite cui si acquisisce una sovranità quasi divina sugli altri esseri e ci si affranca dai limiti dell’umanità volgare, il gregge, gli schiavi incatenati alla morale comune. È il superomismo pop e un po’ pacchiano di Argento, l’anarchismo esistenziale che pervade la sua visione del mondo. Prima ancora dei titoli di testa, vediamo la mano guantata di un uomo che regge un libro (il romanzo Tenebrae, a cui s’ispireranno i delitti) e ne legge ad alta voce alcune frasi, per poi gettarlo nel fuoco:
L’impulso era diventato irresistibile. C’era una sola risposta alla furia che lo torturava. E così commise il suo primo assassinio. Aveva infranto il più profondo tabù e non si sentiva colpevole, né provava ansia o paura, ma libertà. Ogni ostacolo umano, ogni umiliazione che gli sbarrava la strada poteva essere spazzato via da questo semplice atto di annientamento: l’OMICIDIO.
La voce fuori campo che pronuncia queste parole, guarda caso, è quella di Argento. Anche le mani guantate, con ogni probabilità, sono le sue. Così come sono sempre sue, per sua stessa ammissione, le mani degli assassini nei suoi film. Un vezzo, una firma, un cameo hitchcockiano? Può darsi. Ma c’è dell’altro; e per capire che cosa sia dobbiamo ricordarci che in ogni film, di Argento o d’altri, è presente un’entità che non è né un demone né una strega, ma che ugualmente domina il tempo e lo spazio, può violare tutti i luoghi chiusi, balzare sui tetti come una scimmia, sorraderli come un pipistrello, insinuarsi negli interstizi come un serpente. È la macchina da presa. E se nella sequenza di Tenebre essa finisce per materializzarsi nella mano guantata di Argento che impugna un rasoio, è perché proprio tramite l’onnipotenza della macchina da presa il regista vuole vivere la sua tenebrosa imitatio omnipotentiae divinae, per usare la formula di Agostino. L’intero apparato del film è volto unicamente a questo scopo: consentire l’ebbrezza e la libertà dell’annientamento, il dominio superomistico se non proprio sovrumano sulle creature di un mondo di finzione. È, se vogliamo, la perversa poesia di Argento, regista poco avvezzo alla prosa del mondo: le sue trame sono per lo più sgangherate, i suoi dialoghi abborracciati, i suoi personaggi inverosimili e a volte ai limiti del comico involontario. Della vita e degli uomini, non capisce nulla. Ma quando si tratta di uccidere, Argento non ha pari. Pensiamo al grand-guignol surrealista del primo omicidio di Suspiria, al giardino-labirinto di Quattro mosche di velluto grigio, alla ballerina-silhouette di Nonhosonno, all’atelier insonorizzato di L’uccello dalle piume di cristallo. L’arte di Argento è tutta lì, in quelle sequenze folli e ispirate. Così come nei film porno le parti “caste” non sono che grigi interludi tra un amplesso e l’altro, allo stesso modo nel cinema di Argento le scene ordinarie non sono che tempi morti il cui unico scopo è sfociare nell’estasi del delitto, per dirla con Luis Buñuel. L’estasi in cui ci si identifica con Dio – l’Arci-assassino – e con il suo potere di dare e togliere la vita.
Ora, poiché è seccante parlare di Dio tra persone laiche, limitiamoci almeno a chiamare Dio, Brama, e abbreviamolo in B.
Così scriveva Pier Paolo Pasolini in uno dei suoi
saggi sul cinema, che sotto la cenere del gergo semiologico crepitano
sempre di fuoco vivo. Se la realtà, il mondo, non
è che il linguaggio di B. che monologa con sé
stesso, il cinema, “lingua scritta della
realtà”, partecipa di questo soliloquio
cosmico.
Ecco, in questa sequenza di Tenebre,
l’identificazione dell’istanza narrante con il
principio creatore (e distruttore) di tutte le cose è piena
ed estatica. D’altronde, confessò lo stesso
Argento, “… se avessi tempo, denaro e
possibilità di sbagliare, i film li farei io completamente,
travestendomi io stesso e interpretando tutti i ruoli”.
Più che il Brama di Pasolini, però, Argento
è uno Shiva, un devastatore cosmico. Un piccolo dio
tenebroso che tesse il suo monologo di immagini, suscita mondi e
continuamente li dà alle fiamme. E questo gioco cosmologico
e omicida glielo consente solo l’horror, l’unico
genere popolare che dall’epoca di Hitchcock sia riuscito a
essere al tempo stesso iper-tecnico e metafisico. E, per giunta,
metacinematografico: la coda di questa sequenza magistrale, infatti,
è ancora un gioco sui confini del cinema. La musica dei
Goblin (o meglio, di tre ex Goblin riuniti per l’occasione),
che credevamo extradiegetica, si rivela azionata dal giradischi della
ragazza in asciugamano, che la interrompe per andare a vedere cosa
è accaduto. Finisce uccisa in un tripudio di vetri, specchi,
duplicazioni e filtri visivi che vale da sola tutto Omicidio
a luci rosse di Brian De Palma. Ma non
c’è da stupirsene più di tanto: De
Palma aspira a essere Hitchcock, Argento aspira a essere Dio.
***
P.S. Con buona pace di Pasolini, chi oggi senta parlare di una identificazione con B. non pensa certo a Brama ma a tutt’altro genere di onnipotenti. Si dà il caso che, all’epoca di Tenebre, Argento fosse in rapporti stretti con l’altro B. (“l’unico [politico, ndr] che posso dire di avere frequentato è proprio Silvio Berlusconi, come produttore”). E a giudicare dalla scena in cui Veronica Lario, futura signora B., viene massacrata a colpi di accetta, l’equivoco merita di essere alimentato.