Vorrei
capire,
con i miei piccoli occhi mortali,
come
ci si vedrà dopo.
Se ci fosse luce
sarebbe bellissimo.
lettera
recapitata
a Eleonora Moro il 5 maggio 1978.
La prima volta che ascoltai in cuffia What’s Going On di Marvin Gaye, ero nudo in poltrona, occhi chiusi e finestre sbarrate. Cominciai a fluttuare pensando di poter fottere il Signore!
Damn it!
L’incipit di questo articolo è troppo
californiano, così come lo avrebbe scritto Lester Bangs. Qui
non siamo su Creem!
Devo tornare indietro e mettere i segnaposti al tavolo;
bisogna che ricordi i miei antichi maestri, aver coscienza storica, imitar
bene le cose naturali e onorare il convitato di pietra.
Qui
parlerò di un musicista inglese dal carattere chiuso,
melanconico e poco incline al sondaggio critico: Peter Hammill.
Vive
a Bath, città del Regno Unito nella regione inglese del
sud-ovest, nella Contea del Somerset. Quando esce in giardino, Hammill
saluta il vicino di casa Peter Gabriel, sorridendo come i
gatti stesi al sole, con i tratti lenti dell’élite
britannica, dal manto borghese dei coloni.
Ci fu un tempo, da
ragazzi, in cui brillavano d’ira, travestiti come pagliacci
del Globe, gli eroi shakesperiani del teatro
elisabettiano. Ricordavano Astrea, il mito della renovatio,
del ritorno al paradiso perduto, desiderosi di radicarsi in un passato
minacciato da rivoluzioni, lì dove la sociologia della
musica poteva sconfiggere il disarmo culturale di quei giorni. Erano
gli anni Settanta, i Beatles su un tetto ad aggiustar le antenne e la
Apple Records, ricordandosi di Isaac Newton, cadeva al suolo. Fu la
fine della cultura ancestrale, l’inizio
dell’edonismo e dell’atonia sfiancata. Nasceva il
Punk, l’opera da due soldi!
Il 77, il numero
difettivo, il numero atomico dell’iridio, il numero che
indica gli angeli del male. I Sex Pistols furono i nuovi alchimisti,
producendo oro dal nichel e organizzando i ricicli storici. Il tempo
del progressive e dei giganti buoni, dei folletti e
delle stronzate dal colore cremisi, terminò. Arrivarono gli
aghi e i capelli come i cimieri dei centurioni. L’anno della
morte del progressive, dall’America e dalla Gran Bretagna,
giunsero i Mad Max ante quem, sporchi e
postmodernisti, i nuovi eroi, mentre nel mondo la Sostanza M
del dickiano A Scanner Darkly invadeva il mercato.
Si
chiamavano Stooges, Ramones, Dead Boys, Clash, The Damned. La musica,
nata nel salotto buono di Elvis, era nel mezzo del cammino; cominciava
il tempo per invecchiare.
Il vento scomposto che aveva
scacciato l’intera morfologia della fiaba inglese, non aveva
toccato Peter Hammill. Il vecchio generatore con il carico di sci-fi e
drammi apocalittici, incantava i giovani ribelli. Hammill travestito da
Rikki Nadir, pseudonimo à la
page, sculettava robotico e transgenico. I
musicisti dalla simile data anagrafica cercavano riparo. David Bowie
abbandonava Los Angeles e con Coco Schwab e Iggy Pop,
raggiungeva Berlino. La capitale in quei giorni ricordava l’Europa
Anno Zero, scura e divisa, nevrotica e marcusiana.
L’eroe glam rinasceva divina Dietrich. Pubblicò Low
(1977) e tra sintetizzatori e richiami funk, David Bowie
inventò il suo Enten-Eller.
Brian
Eno nei giorni del disastro, concepiva a Berlino, Before and
After Science (1977), uno squarcio dal titolo perfetto,
l’opera da affiancare ai dipinti di Mark Rothko,
l’armonia calcolata, con quella By This River
che a me ricorda una Ofelia cyber abbandonata in un fiume di
cristallo.
Peter Hammill nel 1978 usciva con il suo The
Future Now, anche lui ossessionato dal Tempo,
come se la prima generazione dei cantori della solitudine sentisse
svanire la forma.
Per anni ho amato quest’album, poi
dimenticato, poiché anche io ho imborghesito il mio umore,
chiedendo ristoro al folk americano del secondo millennio e a quei
generi che anticipano sempre il suffisso post. Ma
ai tempi dell’università tra apocalittici e
integrati, questo vinile segnava tutti i miei giorni. Come un
consumatore medio, infervorato dal rock americano stradaiolo e
fanfarone, tutto lacca e gridolini orgasmatici, questo diluvio atomico
fu il mio the day after. Già quella
copertina con il ritratto con la barba a metà, come una foto
di Man Ray, e le articolazioni portanti artrosiche come i dipinti di
Egon Schiele, predicava una diversità biologica, da camera
asettica di clinica psichiatrica. La voce di Hammill tagliata dal
violino di Graham Smith e dal sax di David Jackson, registrata in tubi
sintetici, riformulava il mio personale breviario di musica
apocalittica. E poi Energy Vampires, il quinto
brano, voce dronata, singulti cameristici e il testo ad
indicare una fuga:
Hunched in the corner of the dressing-room,
trying to get back to the real...
Uh-oh, here they come, ready for their meal:Energy Vampires, crawling out of the wall,
they want to steal my vitality,
they want to drink it all.This guy says that he wrote all my songs,
this girl says she's had my baby -
me, I don't know them from Adam and Eve,
sometimes I really believe I'm going crazy.“Excuse me while I suck your blood,
excuse me when I phone you,
I've got every one of your records, man,
doesn't that mean I own you?”
Oh, sure, I long ago decided to make myself an exponent
of public possession in the private obsession zone.But now I'm serious, let's be serious, I'm not selling you my soul,
try to put it in the records but I've got to keep my life my own.
One thing I've not got a lot of is time
and it's slipping away...I've got a life to live too.
In quel tempo leggevo Lucrezio e la natura delle cose aveva
instillato in me la teoria epicurea della realtà e
del ruolo dell’uomo in un universo meccanicistico, fatto di
materia e generato dal vuoto. Una notte, ascoltando Hammill,
improvvisamente compresi cosa cercavano quei miei eroi feriti, apolidi
nelle terre della vecchia Europa.
Io non ho mai avuto il
coraggio di seguirli.
× ASCOLTI
× Hammill P., The Future Now, Charisma, 1978, ristampa cd Charisma, 2006.