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di Roberto Paura

spazio “Durante i miei viaggi ho avuto l’idea di un’altra sinfonia, stavolta una sinfonia a programma, ma con un programma che dovrà rimanere un mistero per chiunque – che provino a indovinarlo!”.
Così, in una lettera, Pëtr Il'ič Čajkovskij per la prima volta faceva riferimento alla sua sesta sinfonia, opera 74. Lui solo, probabilmente, era cosciente del fatto che quella sarebbe stata anche la sua ultima composizione. Nove giorni dopo la prima, nell’ottobre del 1893, a San Pietroburgo, moriva dopo aver da poco passata la cinquantina. E quella sinfonia, entrata nella storia con il nome di Patetica, scelto dall’autore su suggerimento del fratello Modest (divenuto nel tempo una sorta di agente del fratello, poi primo biografo e censore delle sue migliaia di lettere), non solo è diventata una delle più note pagine musicali del mondo, ma anche lo sfondo di un grande mistero, quello della morte di Čajkovskij. 
Forse lui stesso, affascinato dalla musica di Mozart più che da quella di chiunque altro, meditò di imitarne anche l’ultima vicenda biografica, che costituisce un altro affascinante mistero del mondo musicale. Morto a trentacinque anni lasciando incompiuta una delle sue più suggestive opere, il Requiem, di Mozart si disse fosse stato avvelenato dal suo più anziano collega, Antonio Salieri, che ne invidiava il successo. Quel Requiem, di cui s’ignorava all’epoca il committente, sarebbe stato richiesto da Salieri sotto mentite spoglie in una squisita vendetta finale. Una bella pagina romanzesca non a caso amata soprattutto dai russi: fu Aleksandr Puškin il primo a renderla nota nel suo dramma Mozart e Salieri (1830), poi Nikolaj Rimskij-Korsakov la mise in musica nel 1898, cinque anni dopo la morte di Čajkovskij; Peter Schaffer la portò a Londra trasformandola in un successo teatrale negli anni Settanta e Milos Forman, nel 1984, con Amadeus, la fece sbarcare a Hollywood. La Patetica era, per Čajkovskij, il suo Requiem. Se non lo disse forse esplicitamente, lo chiarì a se stesso annotando il programma di massima su un foglio:

“Il motivo sotterraneo è la Vita, con la sua antitesi in essa connaturata: il primo movimento è soltanto passione, fiducia, slancio vitale; il secondo movimento raffigura l’amore; il terzo la fine delle illusioni per l’incalzare minaccioso delle forze del male; il quarto è la Morte, cioè l’annientamento della Vita” (cit. in Bellingardi, 1990a, p. 131).

Le sconcertanti battute iniziali del primo movimento, introdotte dal fagotto e dai contrabbassi, ritornano infatti nelle ultime note, che imitano un cuore che pian piano si spegne. Un finale clamorosamente diverso da quelli tipici di Čajkovskij, sempre tendenti al climax; e così sorprendente e impressionante che il pubblico in sala, durante la prima esecuzione, non riuscì a sciogliersi in un applauso se non troppo tardi, decretando un mezzo insuccesso che rinforzò senz’altro le intime convinzioni del suo autore, forse persuaso che anche il pubblico – da sempre dalla sua parte – non riuscisse più a capirlo.
La fortuna di Čajkovskij in vita, cresciuta negli anni fino ai trionfi attribuitigli nelle sue tournée in tutta Europa e in America (dove fu idolatrato), fu in realtà raramente benedetta dalla critica. Ben note erano le feroci recensioni del rigido Cezar' Antonovič Kjui, senz’altro il meno dotato membro del Gruppo dei Cinque, a quasi ogni prima delle opere del suo connazionale. Gli ambienti musicali del nazionalismo russo lo considerarono sempre un filo-occidentale, almeno fino a Stravinskij che ne sottolineò l’aderenza allo “spirito russo”; altri, come Theodor Adorno, lo liquidarono come un nazionalista musicale. Nel suo Introduzione alla sociologia della musica, pur non affrontando direttamente l’opera di Čajkovskij, Adorno faceva trapelare il suo giudizio in alcuni brevi commenti. Nella sua penetrante classificazione dei “tipi di comportamento musicale” associava la musica di Čajkovskij all’ascoltatore “emotivo”, che “si mette a piangere facilmente” di fronte a una “musica ascoltata in chiave sensoria ed emotiva” come quella tipica del “carattere slavo che oscilla violentemente tra l’accesso emozionale e la melanconia” (Adorno, 1971). Poco più avanti quella stessa musica – insieme a quella di Sergej Rachmaninov – veniva bollata con la poco lusinghiera definizione di “depravate riserve del tardo romanticismo” (ivi, p. 30). L’aver inserito Čajkovskij nel capitolo su “Musica e nazione” vuol dire avere completamente ignorato il fatto che il compositore restò sempre più attratto dal modello occidentale rispetto a quello slavo. Se è vero che i temi delle sue opere liriche sono tutti tratti dalla storia russa, nondimeno le sue opere orchestrali derivano esclusivamente da soggetti occidentali (in primis William Shakespeare) e le sue sinfonie più tarde si liberano dal languore nostalgico nei confronti della patria per indossare le vesti dei grandi temi universali. Sicuramente la radicale critica della società tout court è alla base della violenta terminologia con cui, di consueto, Adorno affrontava le questioni musicologiche, scorgendo sempre negli autori più “facili” lo spettro dell’industria cultuale borghese. 
Non è un caso se egli abbia strizzato più di un occhio al critico ceco ottocentesco Eduard Hanslick che, nel suo Il bello musicale pubblicato per la prima volta nel 1854 (quasi un pamphlet nei toni e negli intenti), si faceva portatore di una ferma convinzione: la musica è priva di contenuto e apprezzabile solo a livello formale. La tesi da lui così fermamente osteggiata era essenzialmente la seguente: “In primo luogo si stabilisce come ‘scopo’ e funzione della musica il dover essa suscitare sentimento o ‘bei sentimenti’. In secondo luogo si designano i sentimenti come il ‘contenuto’ che la musica rappresenta nelle sue opere” (Hanslick, 1971, p. 9). Veniva così distrutto il concetto basilare della generazione romantica (per usare la fortunata definizione di Charles Rosen), secondo il quale il compositore trovava nella musica lo strumento ideale per dar voce ai propri sentimenti. L’unico vero modo per comprendere la bellezza di un pezzo sarebbe, per Hanslick, nell’analisi formale delle armonie che si possono rintracciare tra le diverse battute di un tema, attraverso una complessa lettura dello spartito riservata ai soli esperti. Ne deriva, inevitabilmente, il distacco assoluto della musica dall’uomo comune il quale, privo degli strumenti tecnici necessari, resterebbe per sempre incapace di comprendere la reale bellezza della musica, condannato a “definire l’essenza del vino ubriacandosi” (ivi, p. 14). Anche davanti a chi gli faceva notare che spesso Ludwig van Beethoven (il suo beniamino) componeva sulla base di un programma, Hanslick obiettava che tutt’al più quel programma poteva servire da spunto, ma che la musica si sarebbe sviluppata in totale autonomia da qualsivoglia programma. Se Beethoven intitolava Egmont la sua ouverture, ciò non avrebbe significato cercare nella musica un richiamo all’estremo patriottismo dell’omonimo condottiero fiammingo (varrebbe la pena replicare citando il notissimo episodio in cui Beethoven cancellò la dedica a Bonaparte nella sua terza sinfonia, l’Eroica, dove domina il tema prometeico senz’altro ispirato agli avvenimenti a lui contemporanei). 
In quel libro, Hanslick non ebbe modo di parlare di Čajkovskij semplicemente perché il compositore era allora appena adolescente, ma le sue teorie estetiche sarebbero state presto applicate anche al nostro (per esempio, la sua inappellabile condanna nei confronti del balletto, dove Čajkovskij avrebbe raggiunto una delle maggiori vette espressive: citando la musica di Strauss, il critico sosteneva che “essa cessa di essere [bellissima] non appena la si voglia eseguire a tempo con il solo scopo di ballarla”). Negli anni successivi, Hanslick ebbe modo di mettersi in pari: ascoltando la prima del Concerto per violino di Čajkovskij, se ne uscì con parole di fuoco: “Egli dimostra per la prima volta nella storia che la musica può puzzare. Questa musica puzza d’acquavite scadente” (cit. in Bellingardi, 1990a). Quando, dopo la morte di Čajkovskij, Hanslick ascoltò per la prima volta la Patetica, il rispetto che si deve ai morti smussò forse un po’ del suo astio. Scrisse infatti: “Notevole è l’originalità di questa composizione”, aggiungendo poi la sua inevitabile postilla: “Vi è senz’altro un programma poetico nascosto nelle fibre della musica... Gli ascoltatori avrebbero forse desiderato di conoscere il peculiare programma che è alla base della sinfonia. Io non sono dello stesso avviso perché considero una prova del temperamento artistico del compositore il fatto che egli lasci che la sua musica parli da sé” (cit. in ivi, p. 111). 
Il critico ignorava che un programma in effetti c’era, ma era rimasto segreto per volontà del suo autore. Del resto, le tesi di Hanslick entrano inevitabilmente in rotta di collisione con lo scopo della musica di Čajkovskij. Se nella ouverture fantasia Romeo e Giulietta la musica consente “l’evocazione del cozzo di spade nello scontro fra Capuleti e Montecchi, o nella Tempesta la descrizione del mare, l’imitazione del grottesco Calibano e la trascrizione orchestrale di un duetto d’amore operistico tra Miranda e Fernando” (Casini e Delogu, p. 499), non sarà magari musica a programma, ma il tema affrontato non resta certo limitato al titolo. Čajkovskij cerca piuttosto di dargli forma attraverso il ricorso all’onomatopea. La minuziosa descrizione del programma della Quarta sinfonia, affidata a una lettera a Nazeda von Meck, la sua benefattrice a cui la sinfonia era dedicata, consente di andare oltre il formalismo musicale e rintracciare nei quattro movimenti un tema preciso, che è quello del destino. Tutto ciò giunge al massimo compimento con la Patetica. Il programma “misterioso” non era certo un mero spunto, ma una precisa volontà di dar voce alle ansie del compositore attraverso la musica. Con la Patetica, la “musica a programma” giunge all’apice estremo della sua evoluzione, trasformandosi nell’insondabile testamento musicale tramite il quale Čajkovskij riuscirà a esprimere quel disagio esistenziale che lo ha perseguitato tutta la vita.
Ne era senz’altro convinto il direttore russo Vladimir Delman, per il quale con la Patetica Čajkovskij scrisse un vero e proprio Requiem. Delman individuò nel corpus sinfonico del suo connazionale l’elaborazione di una precisa riflessione esistenziale che viene esplicitata compiutamente per la prima volta nella Quarta, con il tema che apre il primo movimento scandito dagli ottoni, e giunge a compimento nelle ultime battute della Sesta, dove la rassegnazione al fato inesorabile sembra seguire la nota apposta da Čajkovskij a margine del programma per la Quinta: “No, non c’è speranza” (cit. in Casini e Delogu, p. 347). Ma se non si accettasse la tesi che nella Patetica e nelle altre sinfonie Čajkovskij inserì anche un contenuto proveniente dall’intimo del suo animo, e si sposassero le elucubrazioni di Hanslick sul fatto che quella musica non abbia altri significati che quelli della musica stessa, perderebbe senso anche tutto il lavoro di Herbert von Karajan. Il grande direttore austriaco dedicò diverse registrazioni all’integrale sinfonica di Čajkovskij, a partire dalla prima nel 1939 con i Berliner Philarmoniker, proseguendo uno scavo interpretativo che continuerà fino al termine della sua lunghissima carriera. Nell’esecuzione del 1977, di nuovo con i Berliner, Luigi Bellingardi vi legge non solo un intenso lavoro stilistico teso a far emergere tutto “lo spessore sonoro della grande orchestra tardo-romantica”, ma anche un’attenzione al contenuto ‘spirituale’ della sinfonia. Vi si riscontrano

“… tutte le sollecitazioni dell’ultimo retaggio ciakovskiano [sic], dalla precipitosa urgenza visionaria del terzo movimento alla consueta elegia del tempo conclusivo, Adagio lamentoso, ove le dissonanze si fanno sempre più struggenti, livide e desolate in una disperazione che si fa tragedia senza scampo” (Bellingardi,1990b). 

Come scrive Marco Cicogna, rispetto alla più celebre esecuzione della metà degli anni Settanta quella del decennio successivo (l’ultima, 1984, con i Wiener) vede un Karajan “per alcuni versi più vicino alla concezione spirituale e sofferta di questa pagina, ultimata da Tchaikovsky [sic] pochi giorni prima del suo ‘forzato’ suicidio” (Cicogna 2004). E continua:

“C’è un profondo senso di tragedia nella Patetica che alcuni interpreti hanno voluto esaltare (Bernstein c’è riuscito benissimo) e che il nostro [Karajan] raffigura invece con la consueta raffinatezza senza mai dover andare sopra le righe… La tensione non viene mai meno, prova ne sia il languido intervento del clarinetto che si smorza nel pianissimo appena prima dell’esplosione sonora che annuncia uno dei momenti più incisivi della letteratura sinfonica, un grido di angoscia in cui l’autore dà sfogo alle più intime emozioni.”

Ma in cosa consiste quel “profondo senso di tragedia” che ognuno può scorgere nell’ascoltare la Patetica? E perché quella tragedia si lega così intimamente al destino di Čajkovskij, alla sua improvvisa morteë Innanzitutto, i tempi. Il compositore muore poco più di una settimana dopo la prima della sua sinfonia, ufficialmente di colera, la stessa malattia che uccise l’adorata madre. Una tempistica senz’altro sospetta, e un’eziologia assai curiosa considerato il periodo dell’anno (l’autunno inoltrato) e il fatto che il colera sia, generalmente, una malattia delle classi umili. Perciò, fin dai giorni successivi alla morte, si cominciò a parlare di un suicidio. Poco più di un’affascinante e inquietante teoria popolare, rilanciata però dalla russa Aleksandra Orlova nel 1981 in un saggio che ebbe grande fortuna (in Italia uscì nel 1993). Basandosi sulla raccolta di testimonianze dell’epoca e da indagini negli archivi sovietici, non suffragate però da nessuna prova definitiva, la Orlova si fece sostenitrice di una tesi ampiamente definita nei dettagli, quella di un suicidio o meglio di un forzato suicidio. Alla base, uno scandalo: Čajkovskij, noto omosessuale, stava degnando di troppe attenzioni il nipote di un alto membro dell’aristocrazia russa che lo andò a denunciare direttamente allo Zar. Le leggi, in proposito, parlavano chiaro: il carcere o il confino, in entrambi i casi l’ignominia sulla carriera del compositore. I suoi ex compagni della Scuola di Giurisprudenza, dove Čajkovskij si era diplomato prima di abbandonare la pubblica carriera per la musica, decidono perciò di riunirsi in un giurì segreto incaricato di evitare che l’onta dello scandalo cada anche sul loro istituto, tra i più prestigiosi della Russia. Čajkovskij viene condannato a morte dal giurì, che gli impone di suicidarsi in maniera discreta. Il giorno dopo, uno di loro porta al compositore il veleno che lo ucciderà. I dottori che accorrono al capezzale nascondono la verità della malattia attribuendola al colera. Modest, chiaramente a conoscenza della vicenda, la nasconde nella sua biografia. Il segreto giungerà alle orecchie della Orlova attraverso un lungo filo di testimonianze partite dal medico che per primo diagnosticò il colera, e che avrebbe poi affermato: “Čajkovskij si avvelenò”.
Una storia estremamente romantica nella sua tragicità, perfetto epilogo della vita del compositore della Patetica (che Čajkovskij aveva inizialmente battezzato Tragica), se non fosse che un gran numero di indagini successive ne hanno smentito in buona parte gli assunti. Non ci fu nessun giurì e Čajkovskij non era tanto stupido da accettare il suicidio forzato senza andarsene all’estero; l’omosessualità era un vizio ben noto in Russia in tutti gli ambienti, e non destava certo uno scandalo tale da necessitare una soluzione così radicale. Però, qualcosa resta. Resta la testimonianza di quel medico, secondo il quale Čajkovskij si suicidò. Sì, si suicidò davvero, e oggi i suoi studiosi sono quasi unanimemente concordi su questo punto. Un suicidio meditato a lungo e che doveva apparire del tutto casuale, come già il compositore provò anni addietro quando, distrutto dal matrimonio fallimentare con l’isterica Antonina Miljukova (da cui si separerà de facto dopo appena tre mesi, incapace di rassegnarsi all’eterosessualità), tentò di buscarsi una malattia mortale bagnandosi nelle gelide acque della Moscova, senza tuttavia andare oltre un raffreddore. Nella Patetica, Čajkovskij realizzò quel programma segreto che si concludeva con la morte; una sorta di grandioso riassunto della sua vita, un’accettazione del Fato che sempre lo perseguitò. Una caraffa d’acqua ghiacciata, non bollita, trangugiata in un ristorante, gli procura il colera che a San Pietroburgo in quel mese – nonostante sia ottobre – fa sentire gli ultimi strascichi. La morte sopravviene pochi giorni dopo, inesorabile. Il compimento del programma segreto della sua sinfonia.
Forse Čajkovskij non sarebbe rimasto poi tanto infastidito dall’estrema popolarità di cui ha goduto anche la sua più intima opera, appunto la Patetica, negli anni successivi. Per un compositore il cui “più estremo desiderio era che aumentasse il numero di persone che conoscevano la sua musica e che trovavano in essa conforto” (Plini, 2009), l’enorme riscontro della Patetica nella cultura popolare odierna rappresenterebbe forse per lui il massimo riconoscimento. La rielaborazione del primo movimento nella popolare The Story of a Starry Night degli anni Quaranta, resa celebre dalle interpretazioni di voci come quelle di Glenn Miller e José Carreras, è proseguita negli anni (In Time di Steve Lawrence, 1961, ancora una cover del primo movimento; Pathetique una versione del terzo movimento, eseguita nel 1969 da The Nice, gruppo del primo progressive rock inglese, capitanato da un giovane Keith Emerson) fino a oggi. Persino la fantascienza l’ha recuperata inserendone degli spezzoni in Soylent Green (in Italia 2022: i sopravvissuti, 1973, dove la musica accompagna l’eutanasia del protagonista) e in Minority Report (2002). E sempre la fantascienza ha rilanciato la popolarità di una delle più note composizioni di Čajkovskij, l’Overture 1812, che domina la scena-cult di V for Vendetta (2005) in cui il Parlamento inglese salta per aria. Prima ci aveva pensato del resto Walt Disney che aveva reso ancora più celebre nell’immaginario popolare il balletto Lo Schiaccianoci utilizzandone diversi pezzi nel suo Fantasia (1940), e poi recuperando alcuni brani del balletto La bella addormentata nel bosco (segnatamente il valzer e il Pas de caractère) nella colonna sonora dell’omonimo film d’animazione del 1959. E se proprio volessimo ribadire il rapporto tra Čajkovskij e l’immaginario mediatico, basterebbe ricordare che il più celebre tema del Romeo e Giulietta è diventato universalmente noto come “tema d’amore” grazie al suo utilizzo nella serie di videogames The Sims per accompagnare il momento in cui i personaggi del gioco si baciano per la prima volta. Ironicamente, un amore finto, virtuale, artificiale, come quello che Čajkovskij aveva costruito con l’odiata moglie; un ideale d’amore che lo perseguitò fino alla morte, fino agli ultimi battiti di quel cuore che si spegne che si può udire nelle ultime note della Patetica, affidate all’ineluttabile suono dei contrabbassi; la morte messa in musica.



× ASCOLTI

× Pëtr Il'ič Čajkovskij, Sinfonia n.6, opera 74, Patetica, in Karajan conducts Tchaikovsky, Orchestra: Berlin Philharmonic Orchestra, Vienna Symphony Orchestra, box set 8 cd, Deutsche Grammophon, 2001.


× LETTURE

× Adorno T., Einleitung in die Musiksoziologie, 1962; tr. it. Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi, Torino, 1971.
× Bellingardi L.(a), Invito all’ascolto di Cajkovskij, Mursia, Milano, 1990. × Bellingardi L.(b), Tra magia, modernità e decadentismo Karajan interpreta le Sinfonie di Ciakovski, in “Tschaikowsky 6 Symphonien” dirette da Herbert von Karajan, Deutsche Grammophon, 1990, 429 675-2.
× Casini C., Delogu M., Cajkovskij, Bompiani, Milano, 2005.
× Cicogna M., Karajan dirige la 6° sinfonia di Cajkovskij, Audioreview, 2004, anche su
http://www.radio.rai.it/filodiffusione/auditorium/view.cfm?Q_EV_ID=81946&Q_PROG_ID=229.
× Hanslick E., Von Musikalisch-Schönen, 1854; tr. it. Il bello musicale, Martello Editore, Milano, 1971.
× Plini O., Compositori: Piotr Il’ic Ciajkovskij, in “Balletto.net”, 14 aprile 2009,
http://www.balletto.net/giornale.php?articolo=2333.
× Puskin A., Mozart e Salieri, Einaudi, Torino, 2006.
× Shaffer P., Amadeus, André Deutsch Limited, Uk, 1980, trad. it. Amadeus, Einaudi, Torino, 1987.