“Durante i miei viaggi ho avuto l’idea di
un’altra sinfonia, stavolta una sinfonia a programma, ma con
un programma che dovrà rimanere un mistero per chiunque
– che provino a indovinarlo!”.
Così,
in una lettera, Pëtr Il'ič Čajkovskij per la prima volta faceva
riferimento alla sua sesta sinfonia, opera 74. Lui solo, probabilmente,
era cosciente del fatto che quella sarebbe stata anche la sua ultima
composizione. Nove giorni dopo la prima, nell’ottobre del
1893, a San Pietroburgo, moriva dopo aver da poco passata la
cinquantina. E quella sinfonia, entrata nella storia con il nome di Patetica,
scelto dall’autore su suggerimento del fratello Modest
(divenuto nel tempo una sorta di agente del fratello, poi primo
biografo e censore delle sue migliaia di lettere), non solo
è diventata una delle più note pagine musicali
del mondo, ma anche lo sfondo di un grande mistero, quello della morte
di Čajkovskij.
Forse lui stesso,
affascinato dalla musica di Mozart più che da quella di
chiunque altro, meditò di imitarne anche l’ultima
vicenda biografica, che costituisce un altro affascinante mistero del
mondo musicale. Morto a trentacinque anni lasciando incompiuta una
delle sue più suggestive opere, il Requiem,
di Mozart si disse fosse stato avvelenato dal suo più
anziano collega, Antonio Salieri, che ne invidiava il successo. Quel Requiem,
di cui s’ignorava all’epoca il committente, sarebbe
stato richiesto da Salieri sotto mentite spoglie in una squisita
vendetta finale. Una bella pagina romanzesca non a caso amata
soprattutto dai russi: fu Aleksandr Puškin il primo a
renderla nota nel suo dramma Mozart e Salieri
(1830), poi Nikolaj Rimskij-Korsakov la mise in musica nel 1898, cinque
anni dopo la morte di Čajkovskij; Peter Schaffer la portò a
Londra trasformandola in un successo teatrale negli anni Settanta e
Milos Forman, nel 1984, con Amadeus, la fece
sbarcare a Hollywood. La Patetica era, per
Čajkovskij, il suo Requiem. Se non lo disse forse
esplicitamente, lo chiarì a se stesso annotando il programma
di massima su un foglio:
“Il motivo sotterraneo è la Vita, con la sua antitesi in essa connaturata: il primo movimento è soltanto passione, fiducia, slancio vitale; il secondo movimento raffigura l’amore; il terzo la fine delle illusioni per l’incalzare minaccioso delle forze del male; il quarto è la Morte, cioè l’annientamento della Vita” (cit. in Bellingardi, 1990a, p. 131).
Le sconcertanti battute iniziali del primo movimento,
introdotte dal fagotto e dai contrabbassi, ritornano infatti nelle
ultime note, che imitano un cuore che pian piano si spegne. Un finale
clamorosamente diverso da quelli tipici di Čajkovskij, sempre tendenti
al climax; e così sorprendente e impressionante che il
pubblico in sala, durante la prima esecuzione, non riuscì a
sciogliersi in un applauso se non troppo tardi, decretando un mezzo
insuccesso che rinforzò senz’altro le intime
convinzioni del suo autore, forse persuaso che anche il pubblico
– da sempre dalla sua parte – non riuscisse
più a capirlo.
La fortuna di Čajkovskij in vita,
cresciuta negli anni fino ai trionfi attribuitigli nelle sue
tournée in tutta Europa e in America (dove fu idolatrato),
fu in realtà raramente benedetta dalla critica. Ben note
erano le feroci recensioni del rigido Cezar' Antonovič Kjui,
senz’altro il meno dotato membro del Gruppo dei Cinque, a
quasi ogni prima delle opere del suo connazionale. Gli ambienti
musicali del nazionalismo russo lo considerarono sempre un
filo-occidentale, almeno fino a Stravinskij che ne
sottolineò l’aderenza allo “spirito
russo”; altri, come Theodor Adorno, lo liquidarono come un
nazionalista musicale. Nel suo Introduzione alla sociologia
della musica, pur non affrontando direttamente
l’opera di Čajkovskij, Adorno faceva trapelare il suo
giudizio in alcuni brevi commenti. Nella sua penetrante classificazione
dei “tipi di comportamento musicale” associava la
musica di Čajkovskij all’ascoltatore
“emotivo”, che “si mette a piangere
facilmente” di fronte a una “musica ascoltata in
chiave sensoria ed emotiva” come quella tipica del
“carattere slavo che oscilla violentemente tra
l’accesso emozionale e la melanconia” (Adorno,
1971). Poco più avanti quella stessa musica –
insieme a quella di Sergej Rachmaninov – veniva bollata con
la poco lusinghiera definizione di “depravate riserve del
tardo romanticismo” (ivi, p. 30).
L’aver inserito Čajkovskij nel capitolo su “Musica
e nazione” vuol dire avere completamente ignorato il fatto
che il compositore restò sempre più attratto dal
modello occidentale rispetto a quello slavo. Se è vero che i
temi delle sue opere liriche sono tutti tratti dalla storia russa,
nondimeno le sue opere orchestrali derivano esclusivamente da soggetti
occidentali (in primis William Shakespeare) e le sue sinfonie
più tarde si liberano dal languore nostalgico nei confronti
della patria per indossare le vesti dei grandi temi universali.
Sicuramente la radicale critica della società tout
court è alla base della violenta terminologia con
cui, di consueto, Adorno affrontava le questioni musicologiche,
scorgendo sempre negli autori più
“facili” lo spettro dell’industria
cultuale borghese.
Non è un caso se egli
abbia strizzato più di un occhio al critico ceco
ottocentesco Eduard Hanslick che, nel suo Il bello musicale pubblicato
per la prima volta nel 1854 (quasi un pamphlet nei toni e negli
intenti), si faceva portatore di una ferma convinzione: la musica
è priva di contenuto e apprezzabile solo a livello formale.
La tesi da lui così fermamente osteggiata era essenzialmente
la seguente: “In primo luogo si stabilisce come
‘scopo’ e funzione della musica il dover essa
suscitare sentimento o ‘bei sentimenti’. In secondo
luogo si designano i sentimenti come il ‘contenuto’
che la musica rappresenta nelle sue opere” (Hanslick, 1971,
p. 9). Veniva così distrutto il concetto basilare della
generazione romantica (per usare la fortunata definizione di Charles
Rosen), secondo il quale il compositore trovava nella musica lo
strumento ideale per dar voce ai propri sentimenti. L’unico
vero modo per comprendere la bellezza di un pezzo sarebbe, per
Hanslick, nell’analisi formale delle armonie che si possono
rintracciare tra le diverse battute di un tema, attraverso una
complessa lettura dello spartito riservata ai soli esperti. Ne deriva,
inevitabilmente, il distacco assoluto della musica dall’uomo
comune il quale, privo degli strumenti tecnici necessari, resterebbe
per sempre incapace di comprendere la reale bellezza della musica,
condannato a “definire l’essenza del vino
ubriacandosi” (ivi, p. 14). Anche davanti
a chi gli faceva notare che spesso Ludwig van Beethoven (il suo
beniamino) componeva sulla base di un programma, Hanslick obiettava che
tutt’al più quel programma poteva servire da
spunto, ma che la musica si sarebbe sviluppata in totale autonomia da
qualsivoglia programma. Se Beethoven intitolava Egmont
la sua ouverture, ciò non avrebbe significato cercare nella
musica un richiamo all’estremo patriottismo
dell’omonimo condottiero fiammingo (varrebbe la pena
replicare citando il notissimo episodio in cui Beethoven
cancellò la dedica a Bonaparte nella sua terza sinfonia,
l’Eroica, dove domina il tema prometeico
senz’altro ispirato agli avvenimenti a lui
contemporanei).
In quel libro, Hanslick non ebbe
modo di parlare di Čajkovskij semplicemente perché il
compositore era allora appena adolescente, ma le sue teorie estetiche
sarebbero state presto applicate anche al nostro (per esempio, la sua
inappellabile condanna nei confronti del balletto, dove Čajkovskij
avrebbe raggiunto una delle maggiori vette espressive: citando la
musica di Strauss, il critico sosteneva che “essa cessa di
essere [bellissima] non appena la si voglia eseguire a tempo con il
solo scopo di ballarla”). Negli anni successivi, Hanslick
ebbe modo di mettersi in pari: ascoltando la prima del Concerto
per violino di Čajkovskij, se ne uscì con parole
di fuoco: “Egli dimostra per la prima volta nella storia che
la musica può puzzare. Questa musica puzza
d’acquavite scadente” (cit. in Bellingardi, 1990a).
Quando, dopo la morte di Čajkovskij, Hanslick ascoltò per la
prima volta la Patetica, il rispetto che si deve ai
morti smussò forse un po’ del suo astio. Scrisse
infatti: “Notevole è
l’originalità di questa composizione”,
aggiungendo poi la sua inevitabile postilla: “Vi è
senz’altro un programma poetico nascosto nelle fibre della
musica... Gli ascoltatori avrebbero forse desiderato di conoscere il
peculiare programma che è alla base della sinfonia. Io non
sono dello stesso avviso perché considero una prova del
temperamento artistico del compositore il fatto che egli lasci che la
sua musica parli da sé” (cit. in ivi,
p. 111).
Il critico ignorava che un programma in
effetti c’era, ma era rimasto segreto per volontà
del suo autore. Del resto, le tesi di Hanslick entrano inevitabilmente
in rotta di collisione con lo scopo della musica di Čajkovskij. Se
nella ouverture fantasia Romeo e Giulietta la musica
consente “l’evocazione del cozzo di spade nello
scontro fra Capuleti e Montecchi, o nella Tempesta
la descrizione del mare, l’imitazione del grottesco Calibano
e la trascrizione orchestrale di un duetto d’amore operistico
tra Miranda e Fernando” (Casini e Delogu, p. 499), non
sarà magari musica a programma, ma il tema affrontato non
resta certo limitato al titolo. Čajkovskij cerca piuttosto di dargli
forma attraverso il ricorso all’onomatopea. La minuziosa
descrizione del programma della Quarta sinfonia,
affidata a una lettera a Nazeda von Meck, la sua benefattrice a cui la
sinfonia era dedicata, consente di andare oltre il formalismo musicale
e rintracciare nei quattro movimenti un tema preciso, che è
quello del destino. Tutto ciò giunge al massimo compimento
con la Patetica. Il programma
“misterioso” non era certo un mero spunto, ma una
precisa volontà di dar voce alle ansie del compositore
attraverso la musica. Con la Patetica, la
“musica a programma” giunge all’apice
estremo della sua evoluzione, trasformandosi nell’insondabile
testamento musicale tramite il quale Čajkovskij riuscirà a
esprimere quel disagio esistenziale che lo ha perseguitato tutta la
vita.
Ne era senz’altro convinto il direttore russo
Vladimir Delman, per il quale con la Patetica
Čajkovskij scrisse un vero e proprio Requiem. Delman
individuò nel corpus sinfonico del suo connazionale
l’elaborazione di una precisa riflessione esistenziale che
viene esplicitata compiutamente per la prima volta nella Quarta,
con il tema che apre il primo movimento scandito dagli ottoni, e giunge
a compimento nelle ultime battute della Sesta, dove
la rassegnazione al fato inesorabile sembra seguire la nota apposta da
Čajkovskij a margine del programma per la Quinta:
“No, non c’è speranza” (cit.
in Casini e Delogu, p. 347). Ma se non si accettasse la tesi che nella Patetica
e nelle altre sinfonie Čajkovskij inserì anche un contenuto
proveniente dall’intimo del suo animo, e si sposassero le
elucubrazioni di Hanslick sul fatto che quella musica non abbia altri
significati che quelli della musica stessa, perderebbe senso anche
tutto il lavoro di Herbert von Karajan. Il grande direttore austriaco
dedicò diverse registrazioni all’integrale
sinfonica di Čajkovskij, a partire dalla prima nel 1939 con i Berliner
Philarmoniker, proseguendo uno scavo interpretativo che
continuerà fino al termine della sua lunghissima carriera.
Nell’esecuzione del 1977, di nuovo con i Berliner, Luigi
Bellingardi vi legge non solo un intenso lavoro stilistico teso a far
emergere tutto “lo spessore sonoro della grande orchestra
tardo-romantica”, ma anche un’attenzione al
contenuto ‘spirituale’ della sinfonia. Vi si
riscontrano
“… tutte le sollecitazioni dell’ultimo retaggio ciakovskiano [sic], dalla precipitosa urgenza visionaria del terzo movimento alla consueta elegia del tempo conclusivo, Adagio lamentoso, ove le dissonanze si fanno sempre più struggenti, livide e desolate in una disperazione che si fa tragedia senza scampo” (Bellingardi,1990b).
Come scrive Marco Cicogna, rispetto alla più
celebre esecuzione della metà degli anni Settanta quella del
decennio successivo (l’ultima, 1984, con i Wiener) vede un
Karajan “per alcuni versi più vicino alla
concezione spirituale e sofferta di questa pagina, ultimata da
Tchaikovsky [sic] pochi giorni prima del suo
‘forzato’ suicidio” (Cicogna 2004). E
continua:
“C’è
un profondo senso di tragedia nella Patetica che alcuni interpreti
hanno voluto esaltare (Bernstein c’è riuscito
benissimo) e che il nostro [Karajan] raffigura invece con la consueta
raffinatezza senza mai dover andare sopra le righe… La
tensione non viene mai meno, prova ne sia il languido intervento del
clarinetto che si smorza nel pianissimo appena prima
dell’esplosione sonora che annuncia uno dei momenti
più incisivi della letteratura sinfonica, un grido di
angoscia in cui l’autore dà sfogo alle
più intime emozioni.”
Ma in cosa consiste quel “profondo senso di
tragedia” che ognuno può scorgere
nell’ascoltare la Patetica? E
perché quella tragedia si lega così intimamente
al destino di Čajkovskij, alla sua improvvisa morteë Innanzitutto, i
tempi. Il compositore muore poco più di una settimana dopo
la prima della sua sinfonia, ufficialmente di colera, la stessa
malattia che uccise l’adorata madre. Una tempistica
senz’altro sospetta, e un’eziologia assai curiosa
considerato il periodo dell’anno (l’autunno
inoltrato) e il fatto che il colera sia, generalmente, una malattia
delle classi umili. Perciò, fin dai giorni successivi alla
morte, si cominciò a parlare di un suicidio. Poco
più di un’affascinante e inquietante teoria
popolare, rilanciata però dalla russa Aleksandra Orlova nel
1981 in un saggio che ebbe grande fortuna (in Italia uscì
nel 1993). Basandosi sulla raccolta di testimonianze
dell’epoca e da indagini negli archivi sovietici, non
suffragate però da nessuna prova definitiva, la Orlova si
fece sostenitrice di una tesi ampiamente definita nei dettagli, quella
di un suicidio o meglio di un forzato suicidio.
Alla base, uno scandalo: Čajkovskij, noto omosessuale, stava degnando
di troppe attenzioni il nipote di un alto membro
dell’aristocrazia russa che lo andò a denunciare
direttamente allo Zar. Le leggi, in proposito, parlavano chiaro: il
carcere o il confino, in entrambi i casi l’ignominia sulla
carriera del compositore. I suoi ex compagni della Scuola di
Giurisprudenza, dove Čajkovskij si era diplomato prima di abbandonare
la pubblica carriera per la musica, decidono perciò di
riunirsi in un giurì segreto incaricato di evitare che
l’onta dello scandalo cada anche sul loro istituto, tra i
più prestigiosi della Russia. Čajkovskij viene condannato a
morte dal giurì, che gli impone di suicidarsi in maniera
discreta. Il giorno dopo, uno di loro porta al compositore il veleno
che lo ucciderà. I dottori che accorrono al capezzale
nascondono la verità della malattia attribuendola al colera.
Modest, chiaramente a conoscenza della vicenda, la nasconde nella sua
biografia. Il segreto giungerà alle orecchie della Orlova
attraverso un lungo filo di testimonianze partite dal medico che per
primo diagnosticò il colera, e che avrebbe poi affermato:
“Čajkovskij si avvelenò”.
Una
storia estremamente romantica nella sua tragicità, perfetto
epilogo della vita del compositore della Patetica
(che Čajkovskij aveva inizialmente battezzato Tragica),
se non fosse che un gran numero di indagini successive ne hanno
smentito in buona parte gli assunti. Non ci fu nessun giurì
e Čajkovskij non era tanto stupido da accettare il suicidio forzato
senza andarsene all’estero;
l’omosessualità era un vizio ben noto in Russia in
tutti gli ambienti, e non destava certo uno scandalo tale da
necessitare una soluzione così radicale. Però,
qualcosa resta. Resta la testimonianza di quel medico, secondo il quale
Čajkovskij si suicidò. Sì, si suicidò
davvero, e oggi i suoi studiosi sono quasi unanimemente concordi su
questo punto. Un suicidio meditato a lungo e che doveva apparire del
tutto casuale, come già il compositore provò anni
addietro quando, distrutto dal matrimonio fallimentare con
l’isterica Antonina Miljukova (da cui si separerà de
facto dopo appena tre mesi, incapace di rassegnarsi
all’eterosessualità), tentò di buscarsi
una malattia mortale bagnandosi nelle gelide acque della Moscova, senza
tuttavia andare oltre un raffreddore. Nella Patetica,
Čajkovskij realizzò quel programma segreto che si concludeva
con la morte; una sorta di grandioso riassunto della sua vita,
un’accettazione del Fato che sempre lo perseguitò.
Una caraffa d’acqua ghiacciata, non bollita, trangugiata in
un ristorante, gli procura il colera che a San Pietroburgo in quel mese
– nonostante sia ottobre – fa sentire gli ultimi
strascichi. La morte sopravviene pochi giorni dopo, inesorabile. Il
compimento del programma segreto della sua sinfonia.
Forse
Čajkovskij non sarebbe rimasto poi tanto infastidito
dall’estrema popolarità di cui ha goduto anche la
sua più intima opera, appunto la Patetica,
negli anni successivi. Per un compositore il cui
“più estremo desiderio era che aumentasse il
numero di persone che conoscevano la sua musica e che trovavano in essa
conforto” (Plini, 2009), l’enorme riscontro della Patetica
nella cultura popolare odierna rappresenterebbe forse per lui
il massimo riconoscimento. La rielaborazione del primo movimento nella
popolare The Story of a Starry Night degli anni
Quaranta, resa celebre dalle interpretazioni di voci come quelle di
Glenn Miller e José Carreras, è proseguita negli
anni (In Time di Steve Lawrence, 1961, ancora una
cover del primo movimento; Pathetique una versione
del terzo movimento, eseguita nel 1969 da The Nice, gruppo del primo
progressive rock inglese, capitanato da un giovane Keith Emerson) fino
a oggi. Persino la fantascienza l’ha recuperata inserendone
degli spezzoni in Soylent Green (in Italia 2022:
i sopravvissuti, 1973, dove la musica accompagna
l’eutanasia del protagonista) e in Minority Report (2002).
E sempre la fantascienza ha rilanciato la popolarità di una
delle più note composizioni di Čajkovskij, l’Overture
1812, che domina la scena-cult di V for Vendetta
(2005) in cui il Parlamento inglese salta per aria. Prima ci aveva
pensato del resto Walt Disney che aveva reso ancora più
celebre nell’immaginario popolare il balletto Lo
Schiaccianoci utilizzandone diversi pezzi nel suo Fantasia
(1940), e poi recuperando alcuni brani del balletto La bella
addormentata nel bosco (segnatamente il valzer e il Pas
de caractère) nella colonna sonora
dell’omonimo film d’animazione del 1959. E se
proprio volessimo ribadire il rapporto tra Čajkovskij e
l’immaginario mediatico, basterebbe ricordare che il
più celebre tema del Romeo e Giulietta è
diventato universalmente noto come “tema
d’amore” grazie al suo utilizzo nella serie di
videogames The Sims per accompagnare il momento in
cui i personaggi del gioco si baciano per la prima volta. Ironicamente,
un amore finto, virtuale, artificiale, come quello che Čajkovskij aveva
costruito con l’odiata moglie; un ideale d’amore
che lo perseguitò fino alla morte, fino agli ultimi battiti
di quel cuore che si spegne che si può udire nelle ultime
note della Patetica, affidate
all’ineluttabile suono dei contrabbassi; la morte messa in
musica.
× ASCOLTI
× Pëtr Il'ič Čajkovskij, Sinfonia n.6, opera 74, Patetica, in Karajan conducts Tchaikovsky, Orchestra: Berlin Philharmonic Orchestra, Vienna Symphony Orchestra, box set 8 cd, Deutsche Grammophon, 2001.× LETTURE
× Adorno T., Einleitung in die Musiksoziologie, 1962; tr. it. Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi, Torino, 1971.