Ogni guerra ha le sue storie da raccontare, le sue
innumerevoli storie. Tante quante sono le persone e le cose in essa
coinvolte. Si prenda la Seconda Guerra Mondiale, quella che tutti
immaginiamo quando si deve immaginare una guerra, e si faccia qualche
esempio. C’è la tracotanza di un’intera
nazione che per un motivo o per un altro aveva bisogno di
più spazio di quanto già non ne avesse, e
c’è la tracotanza un po’ più
piccola di un’altra nazione leggermente più timida
e forse leggermente più misera. Poi ci sono decine e decine
di città finite in macerie, alcune altre assediate, ed
ancora, di queste ultime, alcune salvatesi grazie alla morsa
dell’inverno. D’altronde le storie delle guerre
sono sempre le stesse, in un modo o nell’altro. E ancora ci
sono gli esseri umani, i piccoli denti degli ingranaggi di ogni grande
meccanismo, esseri umani come quegli storpi, quei bambini e quei vecchi
macilenti richiamati dalla Wermacht negli ultimi giorni di un Aquila
oramai agonizzante, oppure altri esseri umani raggrinziti che
probabilmente avrebbero preferito guadagnarsi il cielo, come quei
penitenti a recitare in processioni fatte di fantasmi senza un filo di
carne a coprirne le costole, con la grottesca figura troppo larga delle
ossa del bacino in evidenza. Così ci sono le storie degli
eserciti, e le centinaia di migliaia di storie più piccole
dei soldati, che vivevano al fronte, che mangiavano scatolette quando
erano fortunati, che scrivevano dal fronte, e che talvolta riuscivano a
vedere posti che, se non avessero avuto l’ombra della guerra,
sarebbero stati i più belli di una vita intera, o forse
comunque riuscirono ad esserlo, questo non possiamo saperlo adesso.
Ecco,
si prenda una di queste storie, si prenda la storia di un soldato
intento col suo esercito a fagocitare chilometri e chilometri quadrati
di spazio, in una corsa frenetica alla conquista del mondo. Si prenda
questo soldato, viaggiatore sprovveduto della disgrazia, pellegrino di
un dio violento, a visitare una città dopo
l’altra, a soggiogare una città dopo
l’altra, seguendo e provando a placare la sete di conquista
dei suoi leader lontani. Come ogni turista che si rispetti, e come ogni
buon marito, questo soldato conserva di ogni posto visitato non solo
una memoria malinconica, ma anche un piccolo souvenir da inviare alla
sua donna, per rinsaldare il suo matrimonio felice. Come ogni buon
marito, come ogni uomo innamorato.
Un soldato, protagonista contumace della storia della Guerra
vista dalla prospettiva del guardaroba della moglie, dal punto di vista
di una donna fiera del suo uomo, in giro per il mondo ad espandere il
buon nome della patria. Questo è, grossomodo, quanto
nell’anno Millenovecentoquarantadue, a guerra ancora in
corso, un certo Bertolt Brecht scrisse in otto strofe di cinque versi.
Ognuna di queste strofe, cominciando con un punto di domanda, si chiede
Che cosa venne alla moglie del soldato? Da Praga,
da Varsavia, da Oslo e da Rotterdam? E ancora da Bruxelles, da Parigi,
e da Tripoli? E, infine, dalla lontana Russia?
Scarpe, una
camicetta di lino, un collo di pelliccia e un bel cappello. E ancora
dei merletti, una vestaglia di seta ed una catenella di rame per il
collo. Infine, come ultimo regalo, un velo nero come quello delle
vedove.
Questo ha portato la guerra alla donna del soldato:
una cosa semplicissima, la morte. Ad essere sinceri un regalo non
troppo originale, nemmeno a dirlo. Ma quelle otto strofe di un
parossismo che si risolve nella sua stessa banalità, nella
sua stessa assenza di originalità che si crogiola nel
patetismo, hanno dentro il concentrato di un’epoca. Un amico
di quel Bertolt Brecht, ovvero un tale che di nome faceva Kurt Weill,
prese questa storia e ne fece una canzone. A dir la verità
moltissimi dei versi di Brecht sono finiti in musica grazie a Weill, a
suggellare un meraviglioso sodalizio tra un amico scrittore ed un altro
musicista. E tanti dei frammenti di questo sodalizio, nonostante forse
non ce ne rendiamo immediatamente conto, hanno continuato a serpeggiare
nella musica di tutto il Novecento, in tutto il mondo.
Basta
qualche esempio: quelli che amano Frank Sinatra hanno certamente
accompagnato col ritmo del piede Make the knife;
gli amanti lisergici dei Doors hanno certamente amato Alabama
Song; gli adolescenti italiani degli anni Ottanta e Novanta
hanno senza dubbio saltato impazziti quando i Litfiba offrivano nei
loro concerti Cannon Song.
Forse per
insistere sulla memoria di tutto questo, nel
Millenovecentonovantaquattro, il regista Larry Weinstein ha richiamato
un bel po’ di artisti contemporanei per riproporre, in un
lungo film-documentario, tanto di quello che Weill con
l’aiuto di Brecht (ma non solo) ha lasciato alla sua musica. Tra
gli artisti che hanno risposto all’appello ci sono Elvis
Costello, Nick Cave, Lou Reed, Charlie Haden, Teresa Stratas ed
un’altra decina. La Ballata della moglie del soldato,
la storia di un guardaroba e di una morte, è toccata a P.J.
Harvey, ed una cosa è certa, quel parossismo, qui, diventa
perfezione, tanto che è facile provare disprezzo per la
vanitosa moglie di un soldato al fronte per le tutte le prime strofe,
fino ad interrompere l’amarezza con un’altra
amarezza nell’ultima strofa, quando oramai è tutto
concluso.
× ASCOLTI
× Harvey P.J., Ballad of the soldier’s wife, in AA. VV., September Song. The music of Kurt Weill