Nel suggestivo The House Carpenter’s
Daughter (2003), Natalie Merchant, talentuosa cantautrice
canadese, reinterpreta brillantemente una serie di ballate popolari,
per lo più di origine statunitense, a forte connotazione
sociale e politica. Solo per inquadrare il tenore militante di
quest’ottimo esempio di recupero della tradizione, basta dire
che alla seconda traccia corrisponde la versione di un brano
fondamentale: Which side are you on?, celebre canto
dei minatori del Kentucky contro i soprusi dei loro padroni, scritto
nel 1932 da Florence Reece, e innestato sulla melodia di un vecchio
inno battista. Un pezzo inciso da molti grandi della canzone di
protesta, da Woody Guthrie a Billy Bragg, passando naturalmente per
Pete Seeger.
A spezzare il ritmo, si fa per dire, di
tanta densità emotiva, immediatamente dopo Which
Side segue una versione di Crazy Man Michael,
famosa composizione del 1969 ad opera di Richard Thompson e Dave
Swarbrick quando ancora facevano parte dei Fairport Convention:
probabilmente il più importante gruppo nella storia del
folk-rock inglese. Il brano in questione è un esempio
perfetto di come si possa reinventare una tradizione a partire da una
nuova composizione dai forti tratti formulaici: forse è per
questo che Natalie Merchant ha scelto di riproporlo proprio in questo
suo album così intriso di slancio ideale e
sensibilità storica. L’unico modo, infatti, di
opporsi alla melmosa gelatina del presente a-storico in cui siamo
immersi è lavorare sulla memoria, ritrovare
profondità, se non multidimensionalità. Una
maniera per tentare di ricostituire una prospettiva in
“questi anni che non stiamo vivendo”, per dirla prendendo a prestito il titolo dell’ultimo libro di Antonio Scurati.
Crazy
Man Michael si configura come una magica, onirica ballata,
dalla melodia incantata, che in pochi chorus tratteggia una sorta di
breve racconto del mistero. Una piccola storia dalle venature poeiane e
dall’irrequieto andamento favolistico, capace di infondere un
romantico, profondo senso di evasione ed abbandono.
La
vicenda narrata è più o meno quella che segue.
Michael, il protagonista, mentre cammina si imbatte in una cornacchia
parlante che gli predice il futuro. Gli toccherà in sorte di
uccidere la propria amata, l’amore della sua vita. Michael
rabbioso e sconfortato, dopo aver urlato ai quattro venti,
d’impeto pugnala il corvo al cuore, che si
rivelerà essere la sua bella ormai a terra irrimediabilmente
priva di sensi. Dopo un primo momento di assoluta disperazione, Michael
si consola con il fatto che lei continuerà a vivere nei
fiori e nell’ambiente circostante che da lì in
avanti lui custodirà. Una breve novella in linea con la
mitologia nordica e anglosassone affidata ad un testo elegante,
metricamente elaborato, dalla lirica classicità.
Nel
disco della Merchant questo brano è una piccola parentesi
fantasmatica e surreale che fa da contrasto alla lieve e
però “materica” profondità
dell’intero lavoro. La Merchant canta con voce bassa,
flemmatica e partecipe, discostandosi dalla dolcezza ancestrale della
mitica voce di Sandy Denny, l’allora cantante dei Fairport,
vocalist dall’anima intrisa di soul, espressione di un canto
atavico e dallo spettro anamnestico.
Nella versione
originale, invece, Crazy Man Michael è
il brano di chiusura di un Lp leggendario, quel Liege and Lief
(1969) tutt’oggi considerato il capolavoro insuperato e
insuperabile del folk-rock inglese, con buona pace dei raffinatissimi
Bellowhead e del loro sorprendente Burlesque
(Proper Records, 2006); lavoro, d’altro canto, incentrato su
una sorta di folk-progressivo più aperto al jazz e al
camerismo acustico. La via inglese all’elettrificazione del
folk, ha scritto Riccardo Bertoncelli, nella sua enciclopedia del rock
a proposito di “fedele e caro”, possibile
traduzione dell’arcaica locuzione liege and lief,
di probabile derivazione vassallatica. Un gioco di parole, comunque,
utile ad indicare il proseguimento sulla strada maestra della
rivisitazione del folk. Perché, in effetti, il solco era
già stato tracciato dal precedente e superbo Unhalfbricking
(1969), soprattutto nella intensa riproposizione del traditional A
Sailor's Life; un album, però, ancora pervaso
dall’influsso della nuova canzone d’autore
americana, con la produzione di Bob Dylan in testa. In Liege
and Lief, invece, i Fairport Convention, guidati dal bassista
Ashley Hutchings, attingono a piene mani alla tradizione musicale
inglese per vivificarla e ritonificarla, sia attraverso la sua
riattualizzazione, sia attraverso l’elaborazione di un nuovo
repertorio dalla forte componente formulaica e però capace
di proiettarsi nel futuro e rappresentare il presente. Una
paradigmatica reinvenzione della tradizione in una composita miscela di
antico e moderno; l’ardito accostamento di un secolare
repertorio popolare e di consolidati stilemi alla dirompente
elettricità e agli ultimi scampoli di psichedelia, che
proprio in quel momento sfumava in una baluginosa dissolvenza a favore
di un rock più maturo e dalle molteplici declinazioni,
lontano da un ormai esaurito art-pop di matrice pepperiana. Liege
and Lief è un disco sulla memoria in termini di
noesi, conoscenza, un modo per fare il punto e poi ricominciare, a
partire da una maggior consapevolezza della propria storia e dei
processi di acculturazione che hanno contribuito a determinarla.
Perché, se la memoria individuale è simile ad una
tela di ragno rabberciata e scaturisce da un personale punto di
osservazione, quella collettiva, opportunamente coltivata,
può davvero fornire le coordinate comuni per
un’armonica convivenza civile. Per questo, e non solo
ovviamente, Liege and Lief è
un lavoro fondativo, dalla statura monumentale, dalle
profondità abissali. Un album capace al contempo di essere
leggiadro, solare, divertente, grazie all’opera di un gruppo
di ventenni ispirati da una sorprendente maturità
intellettuale, e nel pieno di un irripetibile stato di grazia creativo.
Un Lp costruito musicalmente sul fitto intreccio, vero e proprio
luminoso ordito, tra le chitarre elettriche di Thompson e Simon Nicol e
il violino amplificato di Swarbrick ad accompagnare le ammalianti
evoluzioni vocali di Sandy Denny, sulla scorta di una propulsiva e
dinamica sezione ritmica costituita da Hutchings al basso elettrico e
Dave Mattacks alla batteria. Un susseguirsi di ballate avvincenti,
scintillanti progressioni accordali, e iperbolici avvitamenti su danze,
jigs e reels. Così sul finire degli illuminati anni
Sessanta, mentre i Beatles si avviavano alla conclusione del loro
sodalizio artistico, pubblicando Abbey Road e Let
It Be, lavori letteralmente profetici, almeno da un punto di
vista strettamente “linguistico”; i Pink Floyd si
dibattevano per uscire dal trauma barrettiano, riuscendo infine ad
approdare ad una sorta di definitivo pietrangolare canone estetico;
Genesis, King Krimson e Van Der Graaf Generator impostavano le
coordinate del rock progressivo; gruppi come Soft Machine e Traffic
davano il via al filone del jazz-rock; Led Zeppelin e Deep Purple
imbastivano il loro cattedratico rock-blues; i Fairport Convention,
anche loro prodotto di quel magmatico, effervescente, multiforme,
caleidoscopico, movimento della swingin’ London,
così ben fotografato dall’astrazione che
Michelangelo Antonioni ne offre in Blow Up,
decisero di votarsi definitivamente ad un maturo, appassionante e
consapevole folk-rock. Una forte soluzione identitaria dalle
lungimiranti intenzioni umaniste. Un modo per costruire un ideale
futuro attraverso un corroborante tuffo nel passato. Crazy
Man Michael resta ancora oggi, insieme a tutto
l’album, a partire dalla gioiosa Come All Ye
di apertura – manifesto di un epoca che sognava
l’edificazione di una comunità unita, egualitaria,
solidale e dal sentire condiviso –, un esempio perfetto di
questo modo di pensare e procedere. Una ricetta da tenere ancora
presente, soprattutto nella società odierna, che sta
viaggiando verso una sorta di sovra-umanità o
sub-umanità o ancora sur-umanità, come potrebbe
definirla l’antropologo Marc Augè. E questo senza
lanciare strali contro il progresso tecnologico e soprattutto
scientifico: è ovviamente una questione di equilibrio e
responsabilità.
× ASCOLTI
× Fairport Convention, Liege and Lief, Island Records, 1969, ristampa cd Universal Island Records, 2007.× VISIONI
× Antonioni M., Blow up, 1966, Gran Bretagna/Italia, Warner Home Video, 2004.