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Black Dada Nihilismus
New York Art Quartet
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Mina
Black Dada Nihilismus
New York Art Quartet
di Erika Dagnino

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…ma alla  fine di ogni perorazione
si sentiva stridere la rabbia 
e rombare il tuono della dannazione.

Alan Lomax


La prima sensazione ascoltando la traccia Black Dada Nihilismus in New York Art Quartet –  Roswell Rudd trombone; John Tchicai sax alto; Lewis Worrell contrabbasso; Milford Graves percussioni; Amiri Baraka poesia, voce – è l’evidenza di una intonazione come qualcosa che si ricollega alla rivendicazione politica razziale, con il senso di un richiamo alla fratellanza della negritudine. Alla rivendicazione anche intesa come assonanza verbale, fenomeno di percussione-parola-voce oltre agli strumenti musicali chiamati in causa; richiamo all’unione, alla solidarietà, al risveglio. Questo si percepisce come puro ascolto, interpretazione di voce, ritmo percussivo, quasi un appello per esortare al compimento di atti. Intonazione che sembra mirare al raggiungimento di una trasformazione dell’oggetto del discorso, in questo caso dello stesso interlocutore in qualcosa di attivo. Lo stesso richiamo sembra configurarsi come un auspicio verso il trapasso da un’epoca a un’altra, sottolineato ulteriormente dalle linee incalzanti e dalla concisione degli elementi fonici, dalla secca brevità dei richiami in quanto tali. (Dagnino, 2010).

È già il 1964. NYC, 26 novembre.

Nella sua oralità trascinatrice la voce del predicatore, pur collocata storicamente, per sua stessa natura travalica tutti i tempi: la sua stessa fonetica è radice della conoscenza come rapporto di sé di fronte al proprio potenziale ed effettuale operato. Mette di fronte a una esponenziale radicalità di sentire se stessi, non solo come atto meccanico in relazione a tutto quello con cui si può essere chiamati a misurarsi per venire incontro alle proprie radici della persona e del modo di stare nel mondo. E per quanto esplicitazione netta rispetto alle situazioni epocali, la voce, le parole, il tono contengono in sé tutta la forza dell’evocazione, vera riconoscibilità di se stessi, un tutto sanguinoso sia fisico che dell’anima. Il senso della chiamata, anche dal punto di vista fonetico dunque, si manifesta come atavico, delle paure e degli effetti indotti a livello ancestrale. Chiamata ineludibile – certe cose si sclerotizzano, certi comportamenti si radicano. Alla fine l’umanità è necessariamente condotta dalla luce dell’importante.
E dove non si manifesta una luce, si può scorgere la luminescenza; se è vero che questa comporta la distanza piuttosto che un avvicinamento più concreto, resta però percepita come sorta di verità. In cui sembra di vedere l’anima della cosa addirittura contraddistinta da quella che può coincidere con la visibilità chiara e netta. Il punto di riferimento è legato anche al presentire, come esperienza legata alla verità luminescente come recupero di essenzialità. Anche l’immaginazione è tale, ma non perché impedisce di vedere – la  nebbia e la foschia non sono obbligatoriamente un limite ma, al contrario, qualcosa che evidenzia, la distanza stessa è una sorta di corridoio ottico: tragitto. 
Un’esperienza analoga a quella dell’oratore può essere quella dei mistici: vivevano come erano, erano come vivevano. In più attestano, sono testimoni. È un accedere, un superamento di un diaframma anche interiore. 
Ed è lo stesso attivismo che smentisce il bruto della materia. Il loro esperire non è obbligata distinzione tra materia e spirito, né pura opera di ragione, ma una totalità. Tanto che a volte hanno descritto con una minuziosità da referto un’esperienza totalmente altra – Santa Teresa d’Avila,  nel Libro della mia vita trasmette una trascrizione quasi stenografica della sua esperienza mistica, è quasi sconcertante come l’alterità sia descritta come se fosse realismo puro.
È un’esperienza analoga a quella del poeta: mai reale, ma anche nel reale. Si spezza la barriera tra visibile e invisibile, tra ombra che si luce e ombra che luce. E anche gli astanti ne sono inesorabilmente implicati.
La prova di tutto questo sta proprio nelle risposte di fede attraverso il corpo tutto da parte dei partecipanti, sfuggendo, come il mistico, a qualunque teoria del concetto: “Si fermò. Una donna anziana, curva e grinzosa come la radice secca di un albero, piangeva. La chiesa era piena di voci, in risposta alla cruda sofferenza che egli aveva esposto e al ritmo che aveva stabilito, giacché il tempo era nuovamente raddoppiato. Ora l’avrebbe raddoppiato ancora, perché si approssimava alla terza e ultima parte del sermone […]. Si rivolse alle teste canute presenti nell’assemblea, la cui situazione era la più precaria. Si aspettavano di vedere presto il Signore, di guardarlo in volto, di essere posseduti dallo Spirito Santo come lo erano stati i loro antenati africani. Li preparava al tocco del fuoco sacro, che ne avrebbe scagliati alcuni contorcersi sul pavimento, altri a piangere e a gridare tra le file di panche, altri a danzare la sacra danza. D’ora in avanti avrebbe cantato quasi ininterrottamente e gli anziani avrebbero risposto, seguendo un ritmo preciso, a ogni suo verso” (Lomax A., 2005). Perdita soltanto apparente di sostanza corporea per l’acquisizione di una sostanza nuova.
Di fronte alla forza dell’appello e dell’imminenza persino la disperazione può essere davvero un traghetto e non necessariamente un baratro, se mai un ponte sull’abisso, finanche su l’abisso di un’epoca.
Il senso del verbo, del richiamo, del moto tutto del predicatore la cui voce arrivava ad essere “un ruggito basso capace di salire di tre ottave” mentre “i versi si facevano sempre più brevi, il ritmo, più rapido, il battito più forte.” (A. Lomax, ibidem).

È ancora il 1941. 

Il 22 agosto Alan Lomax “… al crocevia tra l’America democratica di Roosevelt e il feudalesimo brutale del Sud razzista” (A. Portelli in Prefazione a Lomax A., 2005) porta ancora una volta testimonianza, ancora una volta testimone lui stesso  - Can you hear me brother Lomax? -  segnando e consegnando un ulteriore documento della musica del popolo, del popolo del Blues.

L’Inferno esiste! Non solo esiste ma 
L’Inferno è un posto e non una condizione!
(Mi hai sentito fratello Lomax?)
L’Inferno è un posto, non una condizione!
Be’ sapete, negli ultimi tempi da queste parti,
Si riesce a malapena a sopravvivere,
Sapete di essere in una situazione infernale.
La situazione nelle vostre case: niente soldi in banca,
Non vi potete permettere un vestito elegante né un vestito da sera.
Né calze a rete e sandali col tacco!
Vivete in una condizione d’Inferno…
La vostra situazione è brutta, ma questo non è l’Inferno!
Condizioni e circostanze sono esponenti dell’Inferno, non l’Inferno.
L’Inferno è molto più in giù, lungo la strada delle condizioni e circostanze.
Condizioni e circostanze sono soltanto fermate, in cui le persone infernali
Salgono a bordo del treno che porta all’Inferno!
Sapete, c’è chi crede che l’Inferno sia soltanto una condizione esteriore,
È là fuori, da qualche parte:
Quando ne siete stufi lo prendete e lo spostate;
Se vi stufate di nuovo lo prendete e lo spostate di nuovo.
Ma l’Inferno esiste!
Proprio come il Paradiso è un posto, l’Inferno è un posto!
Proprio come il Paradiso è in alto, l’Inferno è in basso!
Proprio come Dio regna lassù, il Diavolo regna di sotto!

La voce registrata è quella del Reverendo Ribbins, giunto da Memphis, chiamato dai partecipanti per celebrare la funzione, il raduno si svolge a Maple Springs, nel Mississippi. Si scatena in un urlo che cattura il canto che ripercorre la parabola del ricco e del povero contenuta nel Vangelo di Luca. Fisicità del corpo, della vocalità, nonché della parola stessa con tutto il suo peso letteralmente fisico di tono, gravità come grave. 

Lo sento chiamare:
“Oh-oo, Abra-aamo!
Abbi pietà di me!
Ooo-oo-oo-oooh!
Manda quaggiù Lazzaro,
Fagli intingere un dito nell’acqua,
Perché soffro la sete in questa valle”.
Sento Abramo che dice:
“C’è troppa malvagità là sotto,
Non posso mandarlo”.
E il ricco: “Sai cosa vorrei che facessi?
Manda Lazzaro a casa di mio padre,
Dove vivono i miei cinque fratelli,
Per dirgli di dare ascolto a Mosè e ai profeti”.
                                                            AMEN!

Il sermone non risulta breve, ma ogni verso, ogni parola, ha la brevità di ciò che incide, cattura, seduce ed esorta. Fino ad immettere in una sorta di tangibile visualizzazione di quel luogo abissale e che, seppure nella sua ipotetica, possibile o certa natura di luogo, contiene in sé tutto il dramma della caduta.
La caduta è un qualcosa di ancestrale già collegato con l’umano stesso in quanto tale. Una situazione costante dello stato umano. Intesa come stato abituale di ogni istante in tutti i campi, intesa come discesa traumatica. Significa spostarsi da un livello più alto a uno più basso però traumaticamente. E se cadere significa scendere e farsi male, dover affrontare un trauma, sia fisicamente che spiritualmente – dell’elemento umano in quanto tale – la caduta è anche nel senso proprio di violento trauma – ascendente o discendente – tutto ciò che è umano è in un certo senso sempre e comunque un non riuscire mai a permanere fino in fondo e di conseguenza cadere. Come se l’essere umano fosse sempre in continua e perpetua caduta in e da una ipotetica età dell’oro, sorta di tensione, spinta eterna, caduta che allontana sempre più (?). Non mai caduta assoluta, quindi non precipitazione, ma continuo cadere, c’è una caduta che qualche altra volta può avere una sorta di reazione. Un continuo cadere e contraddire la stessa caduta in nome di una risalita contraddetta a sua volta. Una scala. Passaggio/urto di gradini. Il senso di caduta, mai neutra, è sempre sofferenza, perdita di stabilità quindi trauma sia di caduta in quanto tale sia in quanto perdita di una conquista, e l’Abisso già contiene la caduta etimologica, cioè racchiusa nella parola.

Io posso capire Abramo…
Sapete che c’è un grande abisso!
Grande abisso!
Grande abisso!
Grande abisso!   
                                                                              PAROLA DI DIO!


È ora il 2009. 

Il 4 ottobre al Marjorie Eliot’s apartment in West Harlem, NYC. Come ogni domenica nella sua casa scaturisce l’evento: la musica: il concerto nel suo farsi: nella condivisione spaziale corporea, di uno spazio come contenitore, che si fa anche apertura verso l’oltre, risuonano le note di All The Things You Are e le improvvisazioni di musicisti contemporanei chi from the corner chi from Italy come annuncia energicamente la stessa Marjorie Eliot, elemento magnetico nel gesto e nel verbo, – anche in questo caso la comunità si intreccia al carisma di una guida – e diversi corpi individualmente intesi sono legati tra loro seppur nell’individuale, venendosi a sostanziare la dialettica tra individualità e ulteriorità nello spazio non inteso come limitato confine entro cui essere, ma anche come luogo che oltrepassa e si fa oltrepassare, mentre l’ulteriorizzazione di tutto questo ha proprio la musica come vettore, anche e soprattutto geografico, anche e soprattutto temporale. Un allargamento che ha come base queste pareti. 
La stratificazione, la storia di queste persone, viene inoltre a ribadire il continuo manifestarsi di una sorta di circolarità, conferma di contenimento come atto del contenere, del circoscrivere come spazialità dell’individuo, quindi lo spazio come contenitore, nel senso che la comunità si fa circoscrizione individuale e all’interno e dall’interno di questo gruppo dispiega l’apertura verso il volo. Dove l’individuale è anche specularmene rispecchiato dall’individuo nei confronti dell’individuo stesso; ideale ma anche fisico passaggio di comunicazione e condivisione che sfocia poi nell’altro, che si fa anche spazio aperto, senza perdersi poiché dominante è appunto la circolarità. 
La musica consegnando anche la misura del travalicamento sembra essere uno sciame che poi vola in cielo. Sul piano fisico la musica si pone come una sorta di fase nello spazio, persino come superspazio inteso oltre la casa.
Quello a cui si partecipa è un vero e proprio evento mobile. Partecipare che è segmentato senza essere frammentato, figura geometrica composta da persone, con emissione immissione di altri, figura sufficientemente elastica, composita che sembra ricomporsi. Individualità come memoria, di tutto quello che si rivendica come individuale, al momento il senso della memoria come ritorno di qualcuno a se stesso, condivisione nel senso che in questa situazione la memoria è segno di individualità e anche di coralità. La memoria per definizione è qualcosa che è successo o qualcuno che c’è stato, quindi sì il contenuto di ciascuno come rivendicazione di individualità ma condivisione di tutti i partecipanti dello stato memoriale tout court, effetto di partecipazione e di individuazione. Nel senso di fatto, cioè che ciascuno nella sua individualità può avere un fenomeno analogo, nel senso di quello che viene innescato, un’emozione non limitatamente né necessariamente conoscitiva, ma partecipativa. Nella relazione di questa partecipazione memoriale innescata indotta anche dalla musica, induzione e sviluppo di un elemento memoriale, come innescamento della memoria intesa come fatto individuale e stato partecipativo. Una collettività ma anche un insieme come insieme di individualità. In questo senso partecipazione, collettivo nel senso di tutti, individualizzato perchè tutti partecipano alla stessa situazione.
La musica si configura anche come evocazione e religione
Elemento evocativo traducibile in movimento nelle varie posizioni e gestualità dei singoli. 
Elemento religioso nel senso di re-ligio, che lega e spinge a una partecipazione unitaria, tra l’uno e l'altro. La musica dunque come funzione anche unitiva della situazione in quanto tale. La musica in quanto sciame che esce rendendosi portatrice di un oltre che sembra poi ritornare nel singolo individuo e nel luogo tutto. L’opposto della spersonalizzazione, anzi un ritorno alla propria individualità, dove la partecipazione dando un’ulteriore partecipazione all’individuo stesso, non è perdita dell’individualità, ma ritorno all’individuo. Fenomeno opposto dell’alienazione, non espropriazione dell’individuo ma riconduzione all’individuo – e alla comunità. Con la musica che è il tratto di collegamento.
Se si materializza, il silenzio è un silenzio attivo – il silenzio dell’ascolto è comunque sempre forma di silenzio attivo – ed è verso il silenzio altrui. La partecipazione a più gradi e a misure diverse si manifesta sia a livello di suono che di gesto. Un linguaggio completo: voce, gesto, silenzio, respiro. Tutta l’integralità del corpo. 
Si pone anche il discorso della sonorità intesa come interpretazione dell’interiorità dell’individuo – di cui in qualche modo si fa carico. Dimensione che passa appunto dall’elemento evocativo da un lato, ma anche come sottolineatura dall’altro, come se l’individuo stesso vi riconoscesse – e riconosce – qualcosa di suo. La musica pur provenendo dall’esterno interpreta qui qualcosa di individuale diventando – già tessuta da lui/lei –  produzione dell’individuo stesso. 
Viene così ribadita la realtà nel senso globale. Il senso reale molto concreto.
Collettivo, corale anzi – corale dà un senso di maggiore sintonia, è una convergenza. 
La coralità data dal vivere in comune qualcosa. 

Time and again I’ve longed for adventure
Something to make my heart beat much faster
What did I long for, I never really knew.



× ASCOLTI

× Alan Lomax, , The Alan Lomax Collection: The Land Where the Blues Began, Rounder Records, 2002.
× New York Art Quartet, New York Art Quartet, ESP Disk, 1964, ristampa cd ESP Disk 2008.


× LETTURE

× AA.VV., Nuova Poesia Americana, New York, a cura di L. Ballerini, G. Rizzo, P. Vangelisti, Mondadori, Milano, 2009.
× Dagnino E., New York Art Quartet: Rivendicazione e Assonanza Verbale, www.musicboom.it, 15-01-2010.
× Lomax A., The Land Where the Blues Began, Paperback Edition, Usa, New York, 2002; trad. it. La Terra del Blues. Delta del Mississippi. Viaggio all’origine della musica nera, Il Saggiatore, Milano, 2005.
× La Bibbia, Vangelo secondo Luca, Elle Di Ci, Leumann, Torino, United Bible Societies, 1985.
× Teresa d’Avila (santa), Libro della mia vita, Ed. Paoline, Milano, 2008.