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Mi ritorni in mente
Crescent
John Coltrane

Sweet Black Angel
Rolling Stones

Ballad Of The Soldier's Wife
PJ Harvey

Sir Duke
Stevie Wonder

May I?
Kevin Ayers

Time Warp
AA.VV. from The Rocky Horror Picture Show soundtrack
Evening Star
Robert Fripp/Brian Eno

Crazy Man Michael
Fairport Convention

Black Is Black
Los Bravos

Rimini
Fabrizio De Andrè

Mademoiselle Mabry (Miss Mabry)
Miles Davis

You'd Be So Nice To Come Home To
Nina Simone

Sinfonia Patetica
Čajkovskij

Black Dada Nihilismus
New York Art Quartet

Energy Vampires
Peter Hammill

Se telefonando
Mina
Time Warp
AA.VV. from The Rocky Horror Picture Show soundtrack
di Daniela Fabro

spazio Un disco per l’estate è l’apoteosi, per dirla con Gillo Dorfles, del Kitsch, e l’intenzione iconoclasta di assumerlo come tema è evidente. Dal concorso degli anni Sessanta condotto da Pippo Baudo, che doveva incoronare il motivo da cantare, e il 45 giri da suonare nei jukeboxes sulle spiagge, ai tormentoni dei decenni successivi, tutto concorre a farne quel “luogo dell’anima” dove proprio l’anima c’entra poco. Nel periodo del boom economico, quando gli italiani iniziavano a salire sulla prime automobili per raggiungere agognate mete vacanziere come l’Adriatico o la Versilia, anche i discografici cominciano a cercare il loro posto al sole. Dietro una simile operazione, tutta commerciale, si nasconde quel tipo di “umanizzazione”, come direbbe Slavoj Žižek, della vendita di musica e di mitizzazione dei suoi interpreti, che mette in ombra la questione fondamentale: perché mai avremmo bisogno di un “disco per l’estate”? L’ideologia, sempre per parafrasare Žižek, non si vede, ma c’è. Noi siamo lì, al mare, con la nostra canzone preferita, e ci identifichiamo con le frasi melense, e la melodia orecchiabile, del suo ritornello, invece di domandarci perché siamo arrivati fino al punto di farci dettare dall’industria culturale la nostra colonna sonora estiva e, con essa, i modelli di vita cui adeguarci. E anche se fu l’intera cultura pop degli anni Sessanta – Settanta, con l’irrompere sulla scena di un nuovo tipo di acquirente, il giovane, a fare della musica un genere di consumo come un altro, la massificazione indotta dall’industria discografica assume un carattere particolare in Italia, con il suo provincialismo e perbenismo a tutti i livelli. Non dimentichiamo per esempio che al Disco per l’Estate del 1974, la sovversiva Alice di Francesco De Gregori arrivò ultima. Certo, si dirà, adesso che il gusto delle persone perbene ha digerito anche i versi criptici e scomodi del Principe, è ancora peggio. Ed è vero. Trovare una canzone che resista all’omologazione imperante è difficile. Ecco invece una canzone che non è stata, almeno nelle intenzioni originarie, al servizio dei grandi interessi industriali. Anche se alla fine ha reso il film, di cui è parte della colonna sonora, la quarta pellicola più redditizia di tutti i tempi: ma l’industria cinematografica statunitense, inutile dirlo, domina il mercato mondiale in modo sproporzionato alla qualità effettiva dei suoi prodotti, anche se non è questo il caso, perché il musical in questione è diventato un cult motu proprio.
“It’s astounding, Time is fleeting, Madness takes its toll…”. Inutile andare avanti. I non convenzionali convenuti avranno già capito. Qui non siamo precisamente sdraiati sotto l’ombrellone. Anzi, fuori ci vorrebbe piuttosto un ombrello, perché Over at the Frankenstein Place infuria il temporale che ha condotto due fidanzatini della contea di Denton a bussare a una porta alquanto sinistra ignorando la scritta “Enter at your own risk”. Tutto il resto è storia degli annali delle pellicole musicali di culto, sebbene alla sua uscita, nel 1975, fosse stata quasi ignorata (in Italia proprio del tutto); e anche dal momento del suo successo (di pubblico, di critica molto meno), nel 1978, si dovesse ancora continuare a cercarla nei cinema periferici di terza visione (do you remember il Messico di via Savona a Milano?). 
“Ma ascolta bene, non ancora per moltissimo, devo mantenere il controllo”. Controllo di che cosa? Gli spettatori, ma anche gli interpreti (in platea pubblico e altri attori ripetono una per una le scene del film con continui rimandi uno dentro l’altro alla proiezione sullo schermo in un gioco a incastro simile alle Matrioske russe), del Rocky Horror Picture Show, lo sanno bene. Ma il tempo stravolto (Time Warp) ballato nella canzone centrale del film che porterà alla fine (dopo che nel “Doppio programma di fantascienza, Frank ha costruito la sua creatura e poi l’ha persa, L’oscurità ha conquistato Brad e Janet, I servitori sono partiti alla volta di un lontano pianeta, Tutto questo nel doppio spettacolo di mezzanotte”) alla parola d’ordine Don’t dream it, be it, non è tale solo perché è così seducente (“It’s just a jump to the left, And then step to the right, With your hands on your hips, You bring your knees in tight, But it’s the pelvic thrust, That really drives you insane”). 
La questione è più complessa, come ha provato a spiegare Aldo Fresia nei suoi testi commentati di questo Erotic Nightmare. Intanto l’autore del fortunatissimo musical poi diventato film di culto, nome d’arte, Richard O’ Brien, è un personaggio ad un tempo del tutto conforme ma anche singolare nel panorama del rock di inizio anni Settanta. Inglese ma cresciuto tra pastori neozelandesi, torna a Londra per recitare in opere teatrali diventate poi dei classici come Hair. È qui che incontrerà i suoi compagni di strada, Tim Curry, mirabile interprete di Frank’n Furter, e Jim Sharman, il regista sia del Rocky Horror Show sia dell’adattamento cinematografico. L’autore di Time Warp muove così i primi passi nell’ambito del teatro sperimentale e d’avanguardia londinese, ereditandone la carica anarchica. Ottimo viatico per quella che sarà poi la sua cifra stilistica, e che farà di questa canzone, e di tutto il musical, un mezzo non solo di diffusione del verbo dell’emancipazione sessuale (degli omosessuali e delle donne) ma anche e soprattutto uno strumento di critica al potere. Critica tanto più potente in quanto esercitata attraverso quel cotè altamente dissacrante della satira che è il camp: l’arte di rendere serio, facendone un gioco ma senza prendersene gioco, ciò che è umoristico. Il rovesciamento avviene tramite un’operazione di make up, grazie alla quale anche la posizione più estrema diventa elegante (“It’s so dreamy, Oh, fantasy free me, So you can’t see me, no, not at all, In another dimension, With voyeuristic intention, Well secluded, I see all, With a bit of a mind flip, You’re in for a time slip, And nothing can’t ever be the same, You’are spaced out on sensation, Like you’re under sedation /…/: oplà, poche parole e il gioco è fatto, l’abisso in cui è precipitata una generazione è davanti ai nostri occhi ma non fa paura perché si trasforma, appunto, in un gioco del tipo “la vita è un sogno e la realtà un’illusione”, anche se è meglio non continuare, perché andando troppo a fondo si può toccare il fondo). Dando ragione a Susan Sontag che in Notes on camp (1964) diceva che il camp “è una particolare forma di estetismo /…/ basato sull’artificio e la stilizzazione”. 
Il manifesto di questo atteggiamento irriverente e trasgressivo, Time Warp, contiene non solo in modo esplicito, ma anche sottotesto, tutte le questioni più delicate che animavano la vita delle giovani generazioni post Sessantotto. Una cesura nella storia contemporanea dalla quale, comunque la si voglia giudicare, non si torna indietro. Più importante è piuttosto capire come ignorare le istanze del movimento, dal punto di vista culturale (che è quanto si faceva in Italia, con la musica, riproponendo, per esempio, manifestazioni che non avevano più ragione di esistere quali il Festival della canzone italiana di Sanremo, anche se in una di quelle edizioni Ivano Fossati intonava Jesahel, o per i film, con gli erotici pecorecci di Edwige Fenech), fosse molto più controproducente e immorale che far entrare in scena un uomo truccato in calze a rete e tacchi a spillo che intona: “I’m a sweet transvestite…”  
Infatti, “if you stay for the night”, è fin troppo ovvio ciò che accadrà, anche contro la propria volontà. Ma, anche senza scomodare il buon Sigmund, sarà proprio quello che si desidera, pur se sconvolge la vita, come succederà a “Brad and Janet”, lo stereotipo della classica coppia americana anni Cinquanta. Importante è però capire che il lato oscuro è dentro, e non fuori, di noi. E riconoscerlo può avere significati diversi a seconda della personalità di ciascuno, come si scoprirà seguendo la trama; significati accomunati però da un’unica terribile verità (“And crawling on the planet’s face, Some insects called the human race, Lost in time, lost in space and meaning”): la razza umana, paragonata non a caso agli insetti, non è affatto superiore, come vantato nei film di fantascienza di serie B del doppio spettacolo di mezzanotte americano del loro periodo d’oro, e deve cercare dentro di sé la ragione della sua esistenza, senza barare come fa creandosi un nemico esterno da battere ad ogni costo (gli alieni o gli extracomunitari o l’influenza A).
Ecco perché accettare l’invito di Frank’n Furter, che ha appena realizzato una creatura artificiale per sciogliere la sua tensione (o anche la sua passione), ha effetti dirompenti ad ogni livello, e non solo sessuale. Come si intuisce fin dall’inizio dalla scatenata fantasia ballata nel Time Warp. “Be’, stavo camminando per strada un po’ soprappensiero, Quando un diavolo di ragazzo mi ha fatto un occhiolino fichissimo, Mi ha scossa, mi ha presa alla sprovvista, Guidava un pickup e aveva gli occhi del Diavolo, Mi ha fissata e ho sentito un cambiamento, Il tempo non significava nulla e nulla sarebbe stato più, Facciamo di nuovo il Time Warp”, canta Columbia riferendosi a Meat Loaf, e centrando, forse un po’ inconsapevolmente (in fondo è “solo” una groupie), un paio di questioni chiave. Primo, cos’ è il tempo: è lui che passa, e nulla sarà più, come prima oppure “non è il tempo che passa e va ma siamo noi che ce ne andiamo” (De Andrè)? Oppure, ancora, il tempo non è una progressione lineare verso il domani (e la fine dei nostri giorni), ma piuttosto invece un movimento circolare che ritorna costantemente sui propri passi (rifacciamolo, quindi, questo Tempo Stravolto)? E poi, quelli che fanno “l’occhiolino fichissimo”, hanno tutti gli occhi del Diavolo oppure soltanto ce lo immaginiamo? (“People are strange when you are a stranger” cantava Re Lucertola nel 1967, ma anche qui è meglio non andare troppo a fondo). 
La musica del Time Warp è abbastanza sofisticata, anche se orecchiabile perché ovviamente va coreografata, come vuole il musical: chi ne apprezza le sonorità lineari da canzone rock classica (strofa-ritornello-intervallo-ritornello) non è certo l’ascoltatore tipico del progressive, che affascinava con le sue pretenziosità negli anni Settanta tanti giovani in Italia; e il suo autore sa mettersi nel film nei panni del servant, Riff Raff, è perché è sufficientemente smaliziato, a differenza di certi musicisti narcisisti, da capire che il servo non esiste senza padrone, ma nemmeno il padrone senza il servo. In una tensione dialettica che ne ribadisce l’importanza: “proletari di tutto il mondo unitevi e spezzate le vostre catene”, diceva qualcuno. Cosa che O’Brian farà, uccidendo nel finale, dopo essersi scatenato anche lui nel Time Warp, il suo master (“I’m your new commander, la tua missione è fallita”, gli dirà), per tornare su Transylvania, il  pianeta da cui la combriccola scombinata – oltre a Frank’n Furter, Columbia e Riff Raff, la sorella incestuosa di questi, Magenta – è partita. Il potenziale sovversivo contenuto nel Time Warp parrebbe a questo punto evidente. A prima vista, sorriderne con sufficienza non servirà, ma farne un gioco invece sì, proprio per prendere le distanze dal perbenismo borghese che si vuole così al di sopra di certe tentazioni. Le scelte autonome di cui saranno capaci “Brad and Janet” dopo aver perso la loro ingenuità li riporteranno sulla retta via, dando ragione a chi vede nella morte di Frank’n Furter il ristabilimento dello status quo dopo la rivoluzione? Il finale non lo dà per scontato, anzi forse suggerisce al contrario che una buona strada su cui tornare non c’è proprio più: e meno male, finalmente un film che non ha come scopo la costituzione di una coppia, come previsto dalla filosofia cinematografica hollywoodiana secondo cui l’amore è la soluzione di ogni problema. Ma poi tutti ci consoliamo sapendo che “c’è amore un po’ per tutti, e tutti quanti hanno un amore, sulla cattiva strada” (De Andrè, De Gregori). E lo farà piangendo anche lo sconsolato Frank’n Furter del finale, quando, credendo di dover tornare a casa intona la melanconica I’m going home, in un sussulto di romanticismo che non deve però indurre ottimismo. “Quanto sentimento” esclamerà Magenta, e a ragione, e quanto Super Io che riaffiora. Riff Raff in quanto agente sovvertitore che tramava nell’ombra (con il forcone nel famoso quadro dei coniugi americani di campagna della prima scena e con il laser dell’ultima) ristabilisce invece, da bravo poliziotto dell’anima, un ordine in cui ci si deve pentire degli eccessi del godimento. Qui non serve neppure più l’happy end del diventarono marito e moglie e vissero felici e contenti. Il sentimento mostrato da un solo personaggio, un alieno convertito, basta e avanza per opporre “umanizzazione” a disumanità. Peccato però che la capacità umana di sentire non dispensi gli uomini dal commettere gli atti più disumani, e troppe volte proprio in nome di una pretesa superiorità morale. Sarebbe sufficiente questo a far rimpiangere il Frank’n Furter che si rivolgeva ironicamente a Rocky Horror: “In just seven days, I can make you a man…”. E, seppur nell’incertezza del destino dei protagonisti resta, purtroppo, un’unica certezza: quando ci libereremo mai dai sensi di colpa, invece di trasferirli anche su alieni carini e disinibiti?



× ASCOLTI

× AA.VV.,The Rocky Horror Picture Show – Original Soundtrack, Ode Records,1975, ristampa cd Rhino/Wea, 2000.
× De Andrè F., Volume 8, Produttori Associati, 1975, ristampa cd Sony BMG, 2009.
× De Andrè F., Canzoni, Produttori Associati, 1974, ristampa cd Sony BMG, 2009.
× De Gregori F., Alice non lo sa, It, 1973, ristampa cd Rca, 1996.
× The Doors, Strange Days, Elektra Records, 1967, ristampa cd Rhino/Elektra, 2006.


× LETTURE

× Dorfles G., Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, Mazzotta, Milano, 2000.
× Fresia A., The Rocky Horror Picture Show. Erotic Nightmare. Testi commentati, Arcana Edizioni, Roma, 2009.
× Freud S., L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.
× La Torre G., Conversazioni sull’economia contemporanea, Editori Riuniti, Milano, 2009.
× Marx K./Engels F., Das Manifest der Kommunistischen Partei, Londra 1848,
trad. it. Manifesto del partito comunista, Meltemi, Roma, 1998.
× Massarini C., Dear Mister Fantasy, Rizzoli, Milano, 2009.
× Sontag S., Notes on camp, in Against Interpretation and Other Essays, 1966, Picador, Uk, 2001.
× Žižek S., First As Tragedy, Then As Farce, Verso, Uk, 2009,
trad. it. Dalla tragedia alla farsa, Ponte alle Grazie, Milano, 2010.


× VISIONI

× O’Brien R., The Rocky Horror Picture Show, Uk/Usa, 1975, Twentieth Century Fox, 2006.