Un disco per l’estate è
l’apoteosi, per dirla con Gillo Dorfles, del Kitsch, e
l’intenzione iconoclasta di assumerlo come tema è
evidente. Dal concorso degli anni Sessanta condotto da Pippo Baudo, che
doveva incoronare il motivo da cantare, e il 45 giri da suonare nei
jukeboxes sulle spiagge, ai tormentoni dei decenni successivi, tutto
concorre a farne quel “luogo dell’anima”
dove proprio l’anima c’entra poco. Nel periodo del
boom economico, quando gli italiani iniziavano a salire sulla prime
automobili per raggiungere agognate mete vacanziere come
l’Adriatico o la Versilia, anche i discografici cominciano a
cercare il loro posto al sole. Dietro una simile operazione, tutta
commerciale, si nasconde quel tipo di
“umanizzazione”, come direbbe Slavoj Žižek, della
vendita di musica e di mitizzazione dei suoi interpreti, che mette in
ombra la questione fondamentale: perché mai avremmo bisogno
di un “disco per l’estate”?
L’ideologia, sempre per parafrasare Žižek, non si vede, ma
c’è. Noi siamo lì, al mare, con la
nostra canzone preferita, e ci identifichiamo con le frasi melense, e
la melodia orecchiabile, del suo ritornello, invece di domandarci
perché siamo arrivati fino al punto di farci dettare
dall’industria culturale la nostra colonna sonora estiva e,
con essa, i modelli di vita cui adeguarci. E anche se fu
l’intera cultura pop degli anni Sessanta –
Settanta, con l’irrompere sulla scena di un nuovo tipo di
acquirente, il giovane, a fare della musica un genere di consumo come
un altro, la massificazione indotta dall’industria
discografica assume un carattere particolare in Italia, con il suo
provincialismo e perbenismo a tutti i livelli. Non dimentichiamo per
esempio che al Disco per l’Estate del 1974, la sovversiva Alice
di Francesco De Gregori arrivò ultima. Certo, si
dirà, adesso che il gusto delle persone perbene ha digerito
anche i versi criptici e scomodi del Principe, è ancora
peggio. Ed è vero. Trovare una canzone che resista
all’omologazione imperante è difficile. Ecco
invece una canzone che non è stata, almeno nelle intenzioni
originarie, al servizio dei grandi interessi industriali. Anche se alla
fine ha reso il film, di cui è parte della colonna sonora,
la quarta pellicola più redditizia di tutti i tempi: ma
l’industria cinematografica statunitense, inutile dirlo,
domina il mercato mondiale in modo sproporzionato alla
qualità effettiva dei suoi prodotti, anche se non
è questo il caso, perché il musical in questione
è diventato un cult motu proprio.
“It’s
astounding, Time is fleeting, Madness takes its
toll…”. Inutile andare avanti. I non convenzionali
convenuti avranno già capito. Qui non siamo precisamente
sdraiati sotto l’ombrellone. Anzi, fuori ci vorrebbe
piuttosto un ombrello, perché Over at the
Frankenstein Place infuria il temporale che ha condotto due
fidanzatini della contea di Denton a bussare a una porta alquanto
sinistra ignorando la scritta “Enter at your own
risk”. Tutto il resto è storia degli annali delle
pellicole musicali di culto, sebbene alla sua uscita, nel 1975, fosse
stata quasi ignorata (in Italia proprio del tutto); e anche dal momento
del suo successo (di pubblico, di critica molto meno), nel 1978, si
dovesse ancora continuare a cercarla nei cinema periferici di terza
visione (do you remember il Messico di via Savona a Milano?).
“Ma
ascolta bene, non ancora per moltissimo, devo mantenere il
controllo”. Controllo di che cosa? Gli spettatori, ma anche
gli interpreti (in platea pubblico e altri attori ripetono una per una
le scene del film con continui rimandi uno dentro l’altro
alla proiezione sullo schermo in un gioco a incastro simile alle
Matrioske russe), del Rocky Horror Picture Show, lo
sanno bene. Ma il tempo stravolto (Time Warp)
ballato nella canzone centrale del film che porterà alla
fine (dopo che nel “Doppio programma di fantascienza, Frank
ha costruito la sua creatura e poi l’ha persa,
L’oscurità ha conquistato Brad e Janet, I
servitori sono partiti alla volta di un lontano pianeta, Tutto questo
nel doppio spettacolo di mezzanotte”) alla parola
d’ordine Don’t dream it, be it,
non è tale solo perché è
così seducente (“It’s just a jump to the
left, And then step to the right, With your hands on your hips, You
bring your knees in tight, But it’s the pelvic thrust, That
really drives you insane”).
La questione
è più complessa, come ha provato a spiegare Aldo
Fresia nei suoi testi commentati di questo Erotic Nightmare. Intanto
l’autore del fortunatissimo musical poi diventato film di
culto, nome d’arte, Richard O’ Brien, è
un personaggio ad un tempo del tutto conforme ma anche singolare nel
panorama del rock di inizio anni Settanta. Inglese ma cresciuto tra
pastori neozelandesi, torna a Londra per recitare in opere teatrali
diventate poi dei classici come Hair. È
qui che incontrerà i suoi compagni di strada, Tim Curry,
mirabile interprete di Frank’n Furter, e Jim Sharman, il
regista sia del Rocky Horror Show sia
dell’adattamento cinematografico. L’autore di Time
Warp muove così i primi passi
nell’ambito del teatro sperimentale e d’avanguardia
londinese, ereditandone la carica anarchica. Ottimo viatico per quella
che sarà poi la sua cifra stilistica, e che farà
di questa canzone, e di tutto il musical, un mezzo non solo di
diffusione del verbo dell’emancipazione sessuale (degli
omosessuali e delle donne) ma anche e soprattutto uno strumento di
critica al potere. Critica tanto più potente in quanto
esercitata attraverso quel cotè altamente dissacrante della
satira che è il camp: l’arte di rendere serio,
facendone un gioco ma senza prendersene gioco, ciò che
è umoristico. Il rovesciamento avviene tramite
un’operazione di make up, grazie alla quale anche la
posizione più estrema diventa elegante
(“It’s so dreamy, Oh, fantasy free me, So you
can’t see me, no, not at all, In another dimension, With
voyeuristic intention, Well secluded, I see all, With a bit of a mind
flip, You’re in for a time slip, And nothing can’t
ever be the same, You’are spaced out on sensation, Like
you’re under sedation /…/: oplà, poche
parole e il gioco è fatto, l’abisso in cui
è precipitata una generazione è davanti ai nostri
occhi ma non fa paura perché si trasforma, appunto, in un
gioco del tipo “la vita è un sogno e la
realtà un’illusione”, anche se
è meglio non continuare, perché andando troppo a
fondo si può toccare il fondo). Dando ragione a Susan Sontag
che in Notes on camp (1964) diceva che il camp
“è una particolare forma di estetismo
/…/ basato sull’artificio e la
stilizzazione”.
Il manifesto di questo
atteggiamento irriverente e trasgressivo, Time Warp,
contiene non solo in modo esplicito, ma anche sottotesto, tutte le
questioni più delicate che animavano la vita delle giovani
generazioni post Sessantotto. Una cesura nella storia contemporanea
dalla quale, comunque la si voglia giudicare, non si torna indietro.
Più importante è piuttosto capire come ignorare
le istanze del movimento, dal punto di vista culturale (che
è quanto si faceva in Italia, con la musica, riproponendo,
per esempio, manifestazioni che non avevano più ragione di
esistere quali il Festival della canzone italiana di Sanremo, anche se
in una di quelle edizioni Ivano Fossati intonava Jesahel,
o per i film, con gli erotici pecorecci di Edwige Fenech), fosse molto
più controproducente e immorale che far entrare in scena un
uomo truccato in calze a rete e tacchi a spillo che intona:
“I’m a sweet transvestite…”
Infatti, “if you stay for the
night”, è fin troppo ovvio ciò che
accadrà, anche contro la propria volontà. Ma,
anche senza scomodare il buon Sigmund, sarà proprio quello
che si desidera, pur se sconvolge la vita, come succederà a
“Brad and Janet”, lo stereotipo della classica
coppia americana anni Cinquanta. Importante è
però capire che il lato oscuro è dentro, e non
fuori, di noi. E riconoscerlo può avere significati diversi
a seconda della personalità di ciascuno, come si
scoprirà seguendo la trama; significati accomunati
però da un’unica terribile verità
(“And crawling on the planet’s face, Some insects
called the human race, Lost in time, lost in space and
meaning”): la razza umana, paragonata non a caso agli
insetti, non è affatto superiore, come vantato nei film di
fantascienza di serie B del doppio spettacolo di mezzanotte americano
del loro periodo d’oro, e deve cercare dentro di
sé la ragione della sua esistenza, senza barare come fa
creandosi un nemico esterno da battere ad ogni costo (gli alieni o gli
extracomunitari o l’influenza A).
Ecco
perché accettare l’invito di Frank’n
Furter, che ha appena realizzato una creatura artificiale per
sciogliere la sua tensione (o anche la sua passione), ha effetti
dirompenti ad ogni livello, e non solo sessuale. Come si intuisce fin
dall’inizio dalla scatenata fantasia ballata nel Time
Warp. “Be’, stavo camminando per strada
un po’ soprappensiero, Quando un diavolo di ragazzo mi ha
fatto un occhiolino fichissimo, Mi ha scossa, mi ha presa alla
sprovvista, Guidava un pickup e aveva gli occhi del
Diavolo, Mi ha fissata e ho sentito un cambiamento, Il tempo non
significava nulla e nulla sarebbe stato più, Facciamo di
nuovo il Time Warp”, canta Columbia riferendosi a Meat Loaf,
e centrando, forse un po’ inconsapevolmente (in fondo
è “solo” una groupie),
un paio di questioni chiave. Primo, cos’ è il
tempo: è lui che passa, e nulla sarà
più, come prima oppure “non è il tempo
che passa e va ma siamo noi che ce ne andiamo” (De
Andrè)? Oppure, ancora, il tempo non è una
progressione lineare verso il domani (e la fine dei nostri giorni), ma
piuttosto invece un movimento circolare che ritorna costantemente sui
propri passi (rifacciamolo, quindi, questo Tempo Stravolto)? E poi,
quelli che fanno “l’occhiolino
fichissimo”, hanno tutti gli occhi del Diavolo oppure
soltanto ce lo immaginiamo? (“People are strange when you are
a stranger” cantava Re Lucertola nel 1967, ma anche qui
è meglio non andare troppo a fondo).
La
musica del Time Warp è abbastanza
sofisticata, anche se orecchiabile perché ovviamente va
coreografata, come vuole il musical: chi ne apprezza le
sonorità lineari da canzone rock classica
(strofa-ritornello-intervallo-ritornello) non è certo
l’ascoltatore tipico del progressive, che affascinava con le
sue pretenziosità negli anni Settanta tanti giovani in
Italia; e il suo autore sa mettersi nel film nei panni del servant,
Riff Raff, è perché è sufficientemente
smaliziato, a differenza di certi musicisti narcisisti, da capire che
il servo non esiste senza padrone, ma nemmeno il padrone senza il
servo. In una tensione dialettica che ne ribadisce
l’importanza: “proletari di tutto il mondo unitevi
e spezzate le vostre catene”, diceva qualcuno. Cosa che
O’Brian farà, uccidendo nel finale, dopo essersi
scatenato anche lui nel Time Warp, il suo master
(“I’m your new commander, la tua missione
è fallita”, gli dirà), per tornare su
Transylvania, il pianeta da cui la combriccola scombinata
– oltre a Frank’n Furter, Columbia e Riff Raff, la
sorella incestuosa di questi, Magenta – è
partita. Il potenziale sovversivo contenuto nel Time
Warp parrebbe a questo punto evidente. A prima vista,
sorriderne con sufficienza non servirà, ma farne un gioco
invece sì, proprio per prendere le distanze dal perbenismo
borghese che si vuole così al di sopra di certe tentazioni.
Le scelte autonome di cui saranno capaci “Brad and
Janet” dopo aver perso la loro ingenuità li
riporteranno sulla retta via, dando ragione a chi vede nella morte di
Frank’n Furter il ristabilimento dello status quo dopo la
rivoluzione? Il finale non lo dà per scontato, anzi forse
suggerisce al contrario che una buona strada su cui tornare non
c’è proprio più: e meno male,
finalmente un film che non ha come scopo la costituzione di una coppia,
come previsto dalla filosofia cinematografica hollywoodiana secondo cui
l’amore è la soluzione di ogni problema. Ma poi
tutti ci consoliamo sapendo che “c’è
amore un po’ per tutti, e tutti quanti hanno un amore, sulla
cattiva strada” (De Andrè, De Gregori). E lo
farà piangendo anche lo sconsolato Frank’n Furter
del finale, quando, credendo di dover tornare a casa intona la
melanconica I’m going home, in un
sussulto di romanticismo che non deve però indurre
ottimismo. “Quanto sentimento” esclamerà
Magenta, e a ragione, e quanto Super Io che riaffiora. Riff Raff in
quanto agente sovvertitore che tramava nell’ombra (con il
forcone nel famoso quadro dei coniugi americani di campagna della prima
scena e con il laser dell’ultima) ristabilisce invece, da
bravo poliziotto dell’anima, un ordine in cui ci si deve
pentire degli eccessi del godimento. Qui non serve neppure
più l’happy end del diventarono marito e moglie e
vissero felici e contenti. Il sentimento mostrato da un solo
personaggio, un alieno convertito, basta e avanza per opporre
“umanizzazione” a disumanità. Peccato
però che la capacità umana di sentire non
dispensi gli uomini dal commettere gli atti più disumani, e
troppe volte proprio in nome di una pretesa superiorità
morale. Sarebbe sufficiente questo a far rimpiangere il
Frank’n Furter che si rivolgeva ironicamente a Rocky Horror:
“In just seven days, I can make you a
man…”. E, seppur nell’incertezza del
destino dei protagonisti resta, purtroppo, un’unica certezza:
quando ci libereremo mai dai sensi di colpa, invece di trasferirli
anche su alieni carini e disinibiti?
× ASCOLTI
× AA.VV.,The Rocky Horror Picture Show – Original Soundtrack, Ode Records,1975, ristampa cd Rhino/Wea, 2000.× LETTURE
× Dorfles G., Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, Mazzotta, Milano, 2000.× VISIONI
× O’Brien R., The Rocky Horror Picture Show, Uk/Usa, 1975, Twentieth Century Fox, 2006.