Ci sono dischi da cui pare luccicare una strana bellezza.
Altri paiono suggerire una calma minacciosa. Evening Star (1975)
è uno dei rari casi capaci di evocare entrambe.
Soprattutto
la title track è un vero e proprio
enigma sonoro: levigato e contraddittorio, evanescente e cristallino.
Su tutto emerge il suono (apparentemente) morbido di Fripp, raggiunto
(paradossalmente) tramite saturazioni eccessive, tradite in apertura
del primo assolo e di nuovo più avanti dai paurosi glissati
ottenuti scordando e riaccordando la quinta corda della chitarra,
simili al rombo di un aereo destinato a schiantarsi, proprio come nel
finale di The Heavenly Music Corporation, lato A di
No Pussyfooting, estemporaneo atto di nascita del
duo Fripp & Eno del 1972. Distorsione, wha-wha in posizione
fissa, legato impeccabile e tipici bending di
Fripp sono gli ingredienti di quel suono e di quel fraseggio
indefinibile e irraggiungibile. Purtroppo non basta conoscere la
ricetta, servono anche le dosi; ricordo solo altri due casi di
preziosità altrettanto indecifrabile: il solo di Prince
Rupert’s Lament, in coda a Lizard,
e il tema di Starless nella versione
studio di Red. L’aspetto che
più colpisce – e che colpì me, imberbe
chitarrista neppure sedicenne – era come un lirismo perfino
esasperato potesse convivere con l’algida
impassibilità della struttura e dell’incedere del
brano, per di più con tale ineffabile naturalezza.
Quando
acquistai Evening Star ero consumatore abituale di
Led Zeppelin, Genesis, Deep Purple, King Crimson, Jimi Hendrix
(nonostante fossimo in pieni anni Ottanta – e non ero affatto
il solo). Ma quando misi sul piatto questo disco, i miei amici mi
guardarono in modo alquanto strano: fino a qualche minuto prima avevamo
tormentato i vicini con Heartbreaker e 21st
Schizoid Man, e ora… Prima un tappeto ambient,
privo di alcuna pulsazione ritmica (inconcepibile!), per di
più su un unico accordo (Wind on Water,
che apriva l’album), poi la title track,
un arpeggio interminabile e inesorabilmente avvitato su se stesso
(anche questo su un unico, estenuante accordo di re maggiore)
punteggiato qua e là di brevi assoli di chitarra, deboli
cenni di pianoforte, lontani ululati di synth e lunghe note di chitarra
stratificate. Per me fu una folgorazione. Per i miei amici un chiaro
segno che, probabilmente, non ci stessi troppo con la testa.
Negli
anni successivi favoleggiai dei pochissimi concerti tenuti da Fripp e
Eno nel 1975, due dei quali all’Olympia di Parigi. Non esiste
una registrazione ufficiale di quelle serate. Mi chiedevo come potesse
“suonare” dal vivo una simile architettura,
così tenue e al tempo stesso totalizzante, pervasiva, dove
il tactus ritmico di basso, cassa e rullante viene
del tutto negato e superato dall’inesorabile ampiezza del
respiro. Rintracciai un bootleg su cd alla fine degli anni Novanta, e
oggi (sì, ovviamente su YouTube) si possono ascoltare alcuni
estratti di quelle esibizioni. Sul sito dgmlive.com è anche
possibile leggere un’interessante intervista
dell’epoca ai due Dioscuri d’Albione (eterozigoti e
sinistramente diversi), e scoprire come il pubblico reagì a
un concerto che di “rock” non aveva
(apparentemente) pressoché nulla, ma che anzi negava la
natura stessa – scontatamente viscerale, scimmiesca o, come
avrebbe sentenziato Fripp, “vampiresca” nel
rapporto col pubblico – dell’intrattenimento pop
più casereccio, muscoloso e sessualmente allusivo.
Evening
Star è una assorta meditazione sul silenzio e sui
limiti del suono. Come chiudersi in una stanza e lasciar fuori anche
l’ultimo ronzio del mondo. Il rischio del solipsismo
è dietro l’angolo (avete mai dato
un’occhiata alla copertina di No Pussyfooting?
No? Fatelo, basta cercarla su Google, e capirete cosa intendo). Il
placido chiarore che sale dall’isola (deserta?) sulla cover
di Evening Star sembra solo confermare questa
possibilità (per non parlare dall’allucinata
fissità di An Index of Metals, tremendo
affresco che nulla ha di psichedelico, né tantomeno di
rassicurante. A margine, suggerisco l’ascolto di
un’altra Index of Metals ben
più recente, quella di Fausto Romitelli, che oserei definire
“opera rock da camera” e che molti appassionati
“intelligenti” di rock apprezzeranno sicuramente).
Accomunare Evening Star a uno dei tanti
esperimenti dei primi anni Settanta sarebbe senza dubbio fuorviante. Di
fatto non è possibile paragonare la ciclicità
imposta dai loop con l’evanescenza e la free form
di tanta psichedelia di quegli anni, Pink Floyd in testa: a titolo
d’esempio, ogni brano del monumentale Ummagumma
(1969) prevede una “sceneggiatura” ben precisa, con
un inizio, uno sviluppo e un climax, struttura palesemente rifiutata da
Eno e Fripp, che invece negano qualunque
“drammatizzazione”. Neppure ha a che fare,
nonostante la parentela comune con la tecnologia dei loop a nastro
inaugurata da Terry Riley, con il minimalismo e le sue derive
più pop (ad esempio di Mike Oldfield o di certa kosmische
musik teutonica, Tangerine Dream, Klaus Schulze). Da questo
punto di vista, è Brian Eno la “mente”
del duo, ideatore di un’estetica inconfondibile, mentre Fripp
è il “braccio”, ben disposto a lasciare
che la sua chitarra venga filtrata e loopata dal compagno, facendo
peraltro tesoro di un’esperienza che sfocerà pochi
anni dopo nelle Frippertronics e, in era digitale, nei Soundscapes.
Il
tentativo di Fripp e Eno era quello di negare la tracotanza sonora del
rock pur utilizzandone gli strumenti e gli inevitabili devices.
Malgrado il nome di Eno sia indelebilmente associato all’ambient,
gli esperimenti con il collega cremisi non sono di per sé
riconducibili a questa direzione (diversissimi sono, ad esempio, la
futura Music for Airports o la Discreet
Music citata pure in Evening Star).
Senza dubbio va escluso qualunque ritorno al “pre-”
o “protoindustriale”, all’unplugged
a tutti i costi (che, peraltro, tale mai non è),
al folk o neofolk. Né si tratta di un’improbabile
“musica da meditazione” (va detto che, stando
all’articolo del 1974 che abbiamo ricordato sopra, apparso
originariamente su Hit Parader, il chitarrista
aveva pensato di intitolare il brano d’apertura The
Transcendental Music Corporation, ma il collega
“glielo impedì temendo che il pubblico li avrebbe
presi sul serio”). Di fatto, Fripp e Eno non si trasferiscono
in India da qualche guru, né chiudono chitarre e
sintetizzatori nelle custodie per imbracciare, che so, un sitar. In
seguito, Fripp si ritirerà per anni dalla scena dedicandosi
alla meditazione e allo studio delle dottrine orientali, ma senza mai
abbandonare la sua ostentata englishness
né tantomeno la sua occidentalissima sei corde, e,
soprattutto, senza mai sbandierarlo come altre ben più
famose popstar erano solite fare. Non fuggono dallo show business, di
cui avvertono i limiti e, soprattutto, da cui si sentono fagocitati,
come potrebbe far pensare l’improvvisa e sconcertante
dichiarazione di Fripp del 1974 secondo cui i King Crimson
“hanno cessato di esistere”. Evening Star
e No Pussyfooting portano alle estreme
conseguenze quanto entrambi stavano sperimentando rispettivamente con
Roxy Music e King Crimson. Azzardo un paragone che farà
rizzare i capelli a molti, ma che spero compiacerà o
incuriosirà molti altri: proprio come Anton Webern, ultimo
esponente della Scuola di Vienna e allievo di Schönberg, negli
anni Trenta del Novecento si spingeva all’asintoto del
silenzio pur ritrovandosi nel solco della grande tradizione tedesca e
romantica (senza affatto sentirsi “precursore” o
“pioniere” delle successive avanguardie,
tutt’altro), Fripp e Eno “saturano”
(metaforicamente e concretamente: basti ascoltare i suoni
“materici” di An Index of Metals)
il linguaggio del rock, fatto di ripetizione, staticità,
estrema semplificazione armonica, ma senza negarlo e trasfigurando
l’onnipresente pulsazione ritmica in respiro,
circolarità, verticalità. Sono, per certi versi,
i canoni della cosiddetta “indifferenza estetica” o
“estetica dell’indifferenza sonora” di
Brian Eno, vicino alle avanguardie colte britanniche degli anni
Sessanta e Settanta (Gavin Bryars, il primo Michael Nyman, John White),
infaticabile sperimentatore e mentore dello stesso Fripp, come abbiamo
visto, nell’introdurlo alla tecnologia dei tape loop.
In
quanto neofita della chitarra, allora scoprii che si poteva
“costruire” un assolo di chitarra smentendo
numerosi cliché: innanzitutto la “retorica
dell’assolo”, come puro sfoggio di tecnica, o
più semplicemente come modalità per toccare un
climax emotivo; in secondo luogo, capii che in un brano strumentale
l’assolo poteva cessare di essere tale, e diventare il
“tema”, dando senso al pezzo e senza limitarsi a
esserne il coronamento o, peggio, il momento di gloria del guitar
hero. Dal punto di vista tecnico, scoprii che il feedback e
la saturazione estrema di Hendrix potevano essere
controllati: il wall of sound poteva essere
letteralmente “composto” pezzo per pezzo e trattato
minuziosamente, il feedback modulato e piegato alle esigenze melodiche
o, al contrario, improvvisative e più francamente
“rumorose”, ma pur sempre in senso strutturale e
mai vagamente dionisiaco o (superficialmente) hendrixiano. Ancora a
margine: per tutti questi motivi trovo assai deludenti le
insopportabili farneticazioni di un Thurston Moore (il termine tecnico
che meglio descrive i suoi ingiustamente celebrati walls of
sound è, nella migliore delle ipotesi, noise,
nella peggiore un adolescenziale “casino”) o, su un
fronte del tutto diverso, i triti e ritriti giochetti
dell’ultimo Fred Frith, indubbiamente interessanti dal punto
di vista strettamente chitarristico ma, a mio avviso, ben poco
interessanti da quello “strettamente” musicale (le
virgolette nel secondo caso sono d’obbligo, perché
non vedo cosa ci possa essere al di fuori dello “strettamente
musicale”, se di musica stiamo parlando).
Come Roxy
Music (in parte) e King Crimson (assai di più, soprattutto
col quintetto del 1972), No Pussyfooting e Evening
Star costituiscono uno sguardo intelligente sul caos, sulla
brulicante ma disorganica ondata elettrica che aveva investito la
musica pop a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, depurata da ogni
necessità “sballona” e lisergica
(beatlesiana, morrisoniana, pinkfloydiana). Due documenti, insieme ai
bootleg delle serate parigine, imprescindibili. Ma come molte musiche
marginali o “di confine” (e che in quanto tali, sul
piano musicologico, richiedono un uso smodato delle virgolette per
essere, appunto, “descritte”) si trattò
purtroppo di un episodio, di un ennesimo sentiero interrotto, o forse
così poco battuto da rimanere sommerso dalla soffocante
boscaglia della music industry.
× ASCOLTI
× Robert Fripp/Brian Eno, Evening Star, EG, 1975, ristampa cd Opal, 2008.