Music is a world within itself
Di questa canzone celeberrima di Stevie Wonder (da Songs
in the Key of Life, 1976) avrei voluto parlare come di solito
si parla delle canzoni preferite, come forse è giusto
parlarne: assecondando le associazioni del ricordo, indulgendo
all'autobiografia. Del resto è luogo comune un po’
da letterati che la musica pop, leggera, non colta, come vuoi tu, abbia
proprio in questo un pregio involontario, nell'essere sprovvista di
valori estetici troppo ingombranti e nel lasciare per questo motivo
spazio al deposito della memoria personale e sentimentale; che il
destino di questa musica, se non il suo compito, sia insomma di
amplificare il brusìo della vita.
Mi sarebbe
piaciuto scrivere così, abusando della licenza di dire io,
ma vedo che non posso. Con tutto che conosco e canticchio Sir
Duke e, con frequenza meno ossessiva, altre canzoni di quel
disco dall’anno in cui uscì o al massimo da quello
dopo, non riesco a ricordarmi dove e quando l’abbia sentita
la prima volta; non ricordo dove comperai il disco, che pure possedevo;
quando ne rivedo la caratteristica copertina arancione, non ne risento
il minimo effetto madeleine. Non vi associo luoghi, persone, sentimenti
determinati o circostanze, come magari associo a certe musicacce
entratemi nelle orecchie a forza e che mi sono rimaste addosso come
lappole nei capelli.
Per me Sir Duke
è uno di quei rari pezzi di musica che, sentiti una volta,
non solo è impossibile dimenticare, ma sembra di conoscere
da sempre. A rendermela così intemporale saranno forse i
materiali musicali di cui si compone.
La canzone si
apre con una progressione (vi)-ii-v-i con la sostituzione
cromatica di vib a ii. Un gesto musicale semplicissimo ma
inconfondibile per il modo in cui viene pronunciato e in cui sfocia
nella canzone, che ha la forma strofica AABCC inframmezzata da sedici
battute d’interludio che ne sono musicalmente la cosa
più indimenticabile: un unisono di fiati e basso (il
magnifico Nathan Watts) su e giù per la pentatonica di La.
Ma dove la canzone vuole arrivare è nella release dionisiaca
della sezione C ripetuta ad libitum e potenzialmente ad infinitum
(invece, si chiude genialmente sul ritorno dell’interludio),
dove la voce di Stevie s’increspa appena in un sospetto di
growl, i riff dei fiati s’infilano nelle orecchie come ganci
e Nathan Watts, senza parere, si appropria del pezzo.
Songs
in the Key of Life è stato definito un monumento
alla musica afroamericana e senz’altro lo è. Sir
Duke riflette questa qualità in maniera frattale,
anche senza considerare la menzione che nei versi viene fatta di
Satchmo, Count Basie, Glenn Miller (!), Ella Fitzgerald e naturalmente
del Duca. Lo fa con purezza di mezzi assoluta (Music is a world within
itself, / It’s a language we all understand) e forse per
questo a me, che da più di trent’anni la canto
ogni giorno, non evoca mai null’altro che se stessa e la
voglia di ascoltarla ancora: musica dallo swing demente, senza tempo,
senza bisogno di niente al di fuori di sé.
× ASCOLTI
× Wonder S., Songs in the Key of Life, Motown, 1976, ristampa cd Motown, 2000.