C’era una volta un complesso che si chiamava Los
Bravos. La Decca Records pubblicò il loro primo 45
giri nel 1966.
In edizione italiana uscì
su etichetta Tiffany, il numero di catalogo era TIF 504 e sul lato B si
ascoltava I Want A Name.
La side
A era Black Is Black, tre minuti scarsi la durata,
canzone irresistibile dall’inizio alla fine, impossibile
opporgli resistenza, o restarsene seduti ad ascoltarla, a non ballarla,
a stare fermi, a non agitarsi seguendo il ritmo, battendo il tempo, un
tempo semplice, pura energia. Bastava prenderlo quel 45 giri, una
spinta nel mangiadischi e via, Black Is Black
è gioventù, forza, volontà di potenza,
stupidità, eroismo, speranza, indifferenza, urlo,
banalità commuovente, sogni ammirevoli, spasso,
divertimento, anche violenza, presunzione, sesso, incoscienza,
genialità. Trascinante, arrivano i primi scricchiolii,
è il vinile masticato, ma che importa, quello che rimane
indelebile è il riff iniziale su tre note (prima in Mi
minore poi in Re) della ritmica e dell'organo all'unisono.
Come
fai a non ballare Black Is Black, a stare fermo, a
non battere il tempo, a non agitarti seguendo il ritmo, un tempo
semplice, energia pura, si può fare anche oggi, aggiunto
alla playlist di un qualsiasi lettore Mp3 esplode come allora, in un
attimo ti ritrovi colpito da una scarica elettrica, good vibrations
autentiche. Musica beat farcita di soul and R&B alla Motown,
l’etichetta dei Four Tops, di Martha & The Vandellas,
delle Supremes (& Diana Ross), di Marvin Gaye, di Michael e i
suoi fratelli, i Jackson Five e tanti altri. Tre note e ti avviti, ti
snodi, ti liberi, tre minuti circa e quando finisce, ti lanci
all’inseguimento di quel motivetto facile,
irresistibile; c’era una pubblicità dove si
canticchiava “Voglio la caramella che mi piace tanto e che fa
du-du-du-du-du-du- du-du-du- D…” tempi di
Carosello, Marisa del Frate e Toni Ucci duettavano nei minisketch per
la réclame di famose caramelle, prendendo a prestito quel
motivetto scritto nel 1932 da Michele Galdieri, che concepì
l’hit Munasterio 'e Santa Chiara di
Giacomo Rondinella, e da Caslar, esotico d’importazione e
dunque finto. Era napoletano, si chiamava Donato Casolare, emigrato in
America se ne tornò a casa, anzi se ne scappò nel
1929, l’anno della Grande Crisi. Aveva studiato swing, si
sente e come in Canto quel motivetto che mi piace tanto,
un piacere inestinguibile, che continua a fare du-du-du-du-du-du-
du-du-du, può andare avanti all’infinito questa
strofa visionaria che annuncia il mondo nuovo che verrà dopo
la catastrofe, la belle époque del secondo dopoguerra: la
beat era, canzoni facili eppure autentici inni, testi con peso
specifico zero, du-du-du-du-du-du- du-du-du, che
anche può essere
Black is black
I want my baby back
Una favola sonora che brilla per dei motivetti memorabili, che
danzano nella mente, sopravvivono al ricordo di un epoca, pile di 45
giri, eccentrici abbigliamenti, una fiaba dai mille colori, oggetti di
plastica, linee avveniristiche, il bianco e nero vertiginoso
dell’optical. Inizia come tutte le fiabe. C’era una
volta un mondo incantato, sfacciato, ingenuamente ribelle.
Beat
era capelli lunghi e minigonne, complessi e fan, musica e moda e il top
of the pops si trovava a Londra, la Swinging London, capitale di questo
paese delle meraviglie. Abiti e accessori mai visti, in vetrina a Kings
Road, nel quartiere di Chelsea, dove Mary Quant aprì la sua
prima boutique già nel 1955, a Carnaby Street, dalle parti
di Regent Street vicino a Oxford Circus, dove c’erano negozi
come Male West One, Mod Male e
His Clothes, oppure Lord John e Lady
Jane.
Abiti e accessori mai visti prima,
altro negozio faro era Cecil Gee in Shaftesbury
Avenue, bazzicato, impreziosito dalle top model dell’epoca,
Jean “The Shrimp” Shrimpton and Lesley
“Twiggy” Hornby, vere icone dell’epoca, The
Face and The Image of the Sixties, come vennero definite. Non
erano sole, altre modelle che interpretavano quei tempi alla
perfezione, erano Patti Boyd che poi sposò George Harrison,
Penelope Tree, Paulene Stone, Peggy Moffitt e, su tutte,
l’aliena Veruschka.
Beat era comportamenti
scandalosi, il New York Times nel maggio del 1966
definì l’area compresa tra Kings Road e Soho come
la nuova Sodoma e Gomorra.
Beat era quasi blasfemo,
accadde in un'intervista all'Evening Standard, John
Lennon parla dei Beatles e dichiara: “Siamo più
popolari di Gesù Cristo”.
Beat era
musica, un affare colossale, big bang di un universo ancora in
espansione, un business che esplode con Love Me Do,
ottobre 1962, inizia da Liverpool, è storia nota, e diventa
un boom planetario, trascinando uno sciame di formazioni, quartetti e
quintetti per lo più, che allora si chiamavano
“complessi”. Dura fino al 1966 poi scivola nel pop.
Quell’anno, al cinema davano L’armata
Brancaleone, Blow Up, La
battaglia di Algeri, Fahrenheit 451, Un
homme et une femme, Uccellaci e uccellini,
Fumo di Londra, Il buono, il brutto, il
cattivo. In televisione partiva in missione
l’Enterprise e iniziava la saga di Star Trek.
Beat
era una stagione intermedia tra la preistoria del rock & roll e
la storia del pop, un limbo, una fiaba, si spiega così la
fantasia di The Boat That Rocked, qui in Italia
ribattezzato I Love Radio Rock, film di Richard
Curtis, dedicato alle radio pirata inglesi, storia autenticamente falsa
di Radio Caroline, che iniziò le
operazioni al largo delle coste inglesi nel 1964. “This is
Radio Caroline on 199, your all day music station”, recitava
l’inizio delle trasmissioni e il film ha toni da favola. Una
favola moderna, certo, condita di parolacce, rincorsa al sesso, piccoli
drammi di sempre e una colonna sonora strepitosa: “Ricordate
se Dio fosse un Dj sarebbe su questa stazione”, annuncia uno
dei personaggi… un 33 giri sul piatto, il braccio del
giradischi atterra sul vinile …
“Una
canzone, sono stufo del silenzio” conclude il Dj e parte il
riff micidiale di Friday On My Mind degli
Easybeats, quintetto australiano che la storia annovera tra i
protagonisti di quella che venne chiamata la British Invasion,
l’assalto al mercato mondiale e soprattutto americano da
parte del beat inglese. Cifre da capogiro, un hit dietro
l’altro; nel 1966, per cercare un rimedio, i professionisti
del marketing s’inventarono i Monkees, un quartetto di facce
beat, quelle giuste per contrastare il quartetto dei quartetti.
Cinicamente chiamati le scimmie, sulle prime scimmiottavano i complessi
beat, non suonavano, cantavano in playback e avevano un staff di
professionisti al loro servizio. Nacque anche una serie televisiva e il
tema dei Monkees arrivò anche in Italia. Alla fine del 1966
mandarono in orbita I’m A Believer (la Io
sono bugiarda di Caterina Caselli) e andarono avanti un paio
d’anni sempre in cima alle classifiche dei 45 giri
più venduti. A quel punto, però, la beat era non
c’era più, la British Invasion era terminata, i
tempi stavano ricambiando, non erano più quelli della favola
di Radio Rock, l’emittente che trasmetteva gli australiani
Easybeats tra i primi a imporsi sul piano internazionale senza essere
inglesi o americani. Poco dopo arriveranno altri australiani, i Bee
Gees a mietere successi, ma quelli che stupirono, che si fecero largo
tra Hollies, Troggs, Small Faces, Kinks, Dave Clark Five e ovviamente
gli Stones e i Quattro, furono loro, i Los Bravos: Miguel Luis Vinces
Danus (basso), Emanuel Fernández Aparicio, detto Manolo
(organo), Juan Pablo Sanllehí (batteria) e Antonio
‘Tony’ Martinez (chitarra) quattro spagnoli e il
loro cantante, il tedesco Michael Koegel. Il complesso nasceva dalla
fusione di due oscuri complessini: Mike & the Runaways da cui
proveniva Koegel e i Los Sonors.
È il 21 luglio 1966, al primo posto in Uk, balza Get
Away di Georgie Fame and The Blue Flames (lui
trovò gloria anche in Italia nel 1968 con The
Ballad of Bonny and Clyde), ma al settimo posto irrompono i
Los Bravos con Black Is Black. Si fanno largo tra
Hollies, Troggs, Elvis Presley e Petula Clark, si fermano dietro Nobody
Needs Your Love di Gene Pitney. Curioso, perché
quando Michael canta ricorda proprio Gene, al punto che ci fu anche chi
pensò che quella fosse una cover di un brano poco noto di
Pitney. La settimana dopo i Los Bravos sono secondi, solo Chris Farlowe
fa meglio di loro con un pezzo degli Stones, Out Of Time
che, chissà perché, ebbe una versione italiana
interpretata da un cantante francese, Richard Antony (quello di Cin
Cin). Il pezzo divenne: Che sbaglio fai.
Emblematico, andrebbe bene per le decine e decine di pezzi che venivano
ripresi in Italia con titoli “creativi” e non era
solo questione di metrica, basti l’esempio di Light
My Fire, che divenne Prendi un fiammifero
(by Gli Innominati).
I Los Bravos rimasero ancora in
classifica, ma il primo posto non riuscirono ad afferrarlo,
conquistarono un quarto posto in Usa, il primo in Canada, vendettero un
po’ ovunque, il loro fu un 45 giri million seller,
un hit internazionale e loro uno di quei complessi one hit
wonders, ovvero un solo grande successo e poi via, spariti
nel nulla. Loro fecero anche una capatina a Sanremo in coppia con Milva
(Uno come noi, al Festival del 1967, quello dove
morì Luigi Tenco), girarono un paio di film musicali
come si usava all’epoca e poi l’oblio, non senza il
dramma di Manolo Fernández, suicida nel 1967 dopo che sua
moglie morì in un incidente automobilistico in cui lui
rimase illeso.
Resta quel motivetto che mi piace
tanto, una sequenza di accordi tipicamente sixties, Em-D-Em-A che
sfocia in D-Em-A-D; la forma strofica ABAB è poi
inframmezzata da otto battute d’interludio che hanno una
funzione di stacco e ripresa: Em-Fdm-G a scendere cromaticamente fino a
M seguito dalla 5a A. L'ultima inaspettata sequenza Fdm-B a pieni
accordi riporta a Em dell’inizio. Ti rimane in mente, easy,
così successe che Black Is Black venne
ripresa in pieno 1968 virata lounge, cover d’intrattenimento
a cura di tale Lord Sitar noto anche come Big Jim Sullivan, ovvero
James George Thompkins, sessionmen di professione che rifece a modo suo
(inutile precisare lo strumento solista) brani degli Who, dei Monkees e
dei Beatles, tra gli altri.
Black Is Black
fu riarrangiata da formazioni orchestrali come i Sounds Orchestral di
Johnny Pearson (1970) e dalla John Schroeder Orchestra (1966). Cocktail
gustosi. Ne conservò il mood Motown-ish il ruvido Johnny
Hallyday (1966), che conservò anche il titolo (Noir
c’est noir). Tornò ancora più
ballabile nella cover di fine anni Settanta, nella versione disco del
trio Belle Epoque, e in quella danzabile e tanti sospiri di Cerrone
nell’album Love in C Minor (1975). La
riprese anche Giorgio Moroder nel medley I Wanna Funk With
You Tonight, eccetera, eccetera, è ancora in pista
oggi grazie a Giuliano Palma & The Bluebeaters in una versione
aromatizzata al reggae (2005). Si possono sorseggiare tutte, ma poi si
torna all’originale, inarrivabile.
Il
disco riparte, è quel motivetto che mi piace tanto,
e che fa
Black is black
I want my baby back
C’era una volta un complesso che si chiamava Los Bravos.
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× Los Bravos, Black Is Black, antologia con inediti, Magic Records, 2004.