Nostalgia di luoghi mai visti, immaginati e desiderati,
visitati con la memoria di sogni giovanili, mai esauditi.
Una
Rimini ipostatizzata, immaginaria, fatta di tutto ciò che
non è durante l’estate. Quasi deserta,
crepuscolare, dismessa, con la spiaggia grigia, su cui ogni tanto
sporge qualcosa portato dal mare, residui naturali: piante, conchiglie,
rami, spugne; o artificiali: relitti di polistirolo, lattine, palloni
ormai flaccidi e screpolati. Le strutture degli stabilimenti balneari
smontate e coperte, a svernare, in attesa della nuova stagione. Niente
di tutto ciò che è associato alle vacanze e ai
miti degli anni Sessanta: il boom, le turiste tedesche, la musica beat,
gli amarcord successivi… La
Rimini descritta da Fabrizio De André è un posto
che fa pensare alle descrizioni di James G. Ballard, una Vermilion
Sands italiana – ma di un’Italia parallela, non
quella postbellica del boom e delle “seicento”,
quanto un paese più “fra la Via Emilia e il
West”, quella immaginaria cantata qualche anno dopo da
Francesco Guccini, contemporaneo di De André, ma emiliano di
nascita (1984). De André (non Faber,
questo nomignolo lo lasciamo agli estimatori di retrovia e ai cercatori
di glorie riflesse: meglio De André!), genovese, riesce a
scrivere e suonare come se fosse stato sempre lì, fra la Via
Emilia Ponente e quella Levante, con quel lungo lamento,
Riminiiiii,
che ogni tanto risuona, e che sembra risucchiare verso un
vuoto infinito, seducente, ipnotico – ma triste, malinconico,
definitivo. Tanto da riceverne uno struggente omaggio postumo
“in lingua” dai Bevano Est, una formazione
“folk” romagnola (1995).
Un
richiamo di sirene, che cantano nel mare di cui si dice nella canzone,
un oceano che sembra quello di Herman Melville, o di Edgar Allan Poe:
un mare terminale, che nel suo mælstrom risucchia lentamente
tutto ciò che si avvicina alla spiaggia: entusiasmi,
illusioni, progetti.
L’idea che possa esistere
– che esista – una vita altrove (Kundera,
2005), in un universo potenziale contiguo al nostro, ma
irraggiungibile, se non potendo tornare nel proprio passato e scegliere
un’altra strada ad uno dei bivi in quel “giardino
dei sentieri che si biforcano” (Borges, 1955) che
è il labirinto in cui ci aggiriamo, ectoplasmi presuntuosi,
navigando “a vista”…
Un
“castello dei destini incrociati” (Calvino, 1973)
che però non si incrociano mai, come separati da lastre
invisibili, da campi di forze, da membrane che isolano una vita
dall’altra, a sottolineare percorsi biografici separati da
linee temporali – e non solo geografiche –
differenti.
Così appare, a seguire le strofe di Rimini,
dai successivi “quadri” in cui viene descritta una
donna (bambina, ragazza?), Teresa, nelle varie fasi – meglio,
incarnazioni – successive che De André le
attribuisce.
Una nostalgia di territori dell’anima
mai potuti esplorare, di cui ci si può ricordare solo di
esservisi affacciati ai limiti della consapevolezza e del desiderio.
Luoghi di avventure possibili solo intuite, come i contenuti di quei
sogni che vengono subito dimenticati.
Quasi a
richiamare un altro verso, sempre di De André, di
esattamente dieci anni prima, dal Cantico dei drogati (De
André, 1968a):
Quando riascolterò/
il vento fra le foglie/
sussurrare i silenzi/
che la sera raccoglie.
O, ancora, la melodia e alcuni versi di Amore che vieni amore che vai (1968b) che sembrano rimandare a un tempo circolare, in cui tutto ritorna, ma senza la memoria della ripetizione, della reiterazione degli eventi, delle emozioni, dei lutti.
Quei giorni perduti a rincorrere il vento/
…
Un giorno qualunque/
Li ricorderai/
Amore che vieni/ amore che vai/
…
Venuto dal sole o da spiagge gelate/
Perduto in novembre o col vento d’estate/
Fra un mese fra un anno scordate le avrai/
amore che vieni da me fuggirai.
A descrivere pianure sconfinate, fra canne e piante acquatiche
agitate mollemente dal vento sulle sponde di uno stagno artificiale, le
cui acque sono dorate da un crepuscolo infinito.
Perché
la Rimini del cantautore genovese sembra collocarsi fuori dello spazio,
su un mare che è sì l’Adriatico, ma non
quello delle spezie d’oriente, dei traffici, degli
esploratori, ma una distesa d’acqua terminale, grigia, opaca,
ferma. Con Teresa che guarda a un orizzonte sconfinato, plumbeo, come
il cielo emiliano d’agosto, sotto un’afa
incandescente, sotto un’aria immobile da cui non
c’è scampo, a modulare un’attesa
infinita, e senza scopo, dove al termine di un periodo di illusioni,
è arrivato solo un epilogo fulmineo, deludente, irridente.
L’Emilia,
Bologna, la Via Emilia e la costa adriatica per qualche tempo negli
anni Settanta sono state per molti il sogno californiano a portata di
mano: luogo di immaginario, di libertà, di tolleranza, di
accoglienza, di nottate passate fuori casa scarrozzando in auto. Sogno
interrotto, con un brusco risveglio. Una California da sognare, dietro
l’angolo però, una dozzina d’anni dopo
di quella cantata dai The Mamas & Papas – e in
Italia, più prosaicamente dai Dik Dik…
Ma
è già una celebrazione al passato – in
memoriam – quella del cantautore genovese:
l’intero disco, composto dopo la fine del
“movimento del ’77”, si dice ne sarebbe
una celebrazione, un requiem forse, dove Rimini rimanderebbe
al congresso di scioglimento di Lotta Continua, una delle formazioni
nate dal “Sessantotto”.
Un colpo di coda,
ormai crepuscolare, di quegli anni di proteste e di agitazioni, venuto
dopo le elezioni per i “progressisti” entusiasmanti
del 1975, e quelle simmetricamente deprimenti del 1976.
Si
apre una stagione triste: gli “anni di piombo”:
oggi amplificati e mitizzati in negativo da stampa e divulgazione
politica a totale ed esclusivo beneficio di chi era troppo piccolo o
non ancora nato; e il “riflusso”: la versione
nostrana del movimento New Age con tanto di tentazioni orientali
e orsacchiotti di pezza…
Un “De
profundis”, insomma, alle velleità di
trasformazione e cambiamento che avevano abitato l’Italia per
una decina d’anni, equivocando, forse, sui fenomeni profondi
che avevano illuso molti sulla possibilità che
l’immaginazione andasse davvero al potere (Cfr.
Quaderni d’Altri Tempi n. 14), interpretato dai
fratelli minori dei “sessantottini”, di cui ancora
De André, sempre nello stesso ellepì canta in Coda
di lupo la sortita:
Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn/
capelli corti generale ci parlò all’università/
dei fratelli tutte blu che seppellirono le asce/
ma non fumammo con lui non era venuto in pace…
Per poi cantarne la sconfitta, insieme, di una generazione e di un’epoca:
E adesso […] che ho scaricato la mia rabbia in un teatro di posa/
[…]
con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia/
ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria.
Dove la perdita della memoria apre a qualcosa di altrettanto
definitivo e letale: la perdita di un’innocenza ereditata e
trattenuta con fatica e tenacia, sostituita per alcuni dal
disorientamento e da traiettorie di vita tangenziali ed eccentriche
– o in alternativa routinarie e banali. In ambedue i casi,
previste e banali.
La Bologna di quegli anni, uno degli
epicentri del Settantasette – che nel ricordo mitizzato
generatosi nell’immaginario si confonde e diventa
l’intera Emilia Romagna – era davvero, per chi ci
si trovò a passare, un polo di attrazione che non
significava solo una meta possibile per una emigrazione volontaria e
invidiabile, ma anche un paese seducente e
“differente”. E in effetti era
così. Le serate in osteria, le scarrozzate notturne in
macchina – e le passeggiate sempre di notte a piedi
– le partite di pallone ai giardini pubblici, rimandavano ad
una dimensione sospesa, in cui era ancora possibile altalenare fra
responsabilità del presente e attese del futuro. Di un
futuro che però era già arrivato, e si era
fermato dietro le spalle dei suoi abitanti, trasformandosi in un
presente eterno – e mutandosi in un viaggio immobile: la
corsa all’oro nascosto sotto il suolo di una California
inconsapevole e sonnacchiosa, ormai in leggero, lento, costante
ripiegamento su se stessa…
Per un gioco di
coincidenze forse necessarie – forse quindi non di
coincidenze, si è trattato, ma di conseguenze naturali degli
eventi – per molti la parola fine sul “regno a
venire” dell’immaginazione al potere
coincise con il termine delle proprie illusioni e con
l’ingresso nel regno prosaico e ripetitivo della
“fatica di vivere”.
Le prime avvisaglie
del fatto, puro e semplice, che l’onda lunga delle ideologie
del progresso e del benessere si stava esaurendo insieme ai fenomeni
che le avevano create e nutrite, e che c’era ben poco da
sperare per il futuro. E con lei, svanivano anche quei sogni
– vere e proprie sceneggiature oniriche – di
avventure ed esplorazioni dell’anima che ne sembravano
l’attributo più diretto. Il film della
modernità che ci aveva accompagnato per più di un
secolo e ci aveva illuso sul futuro aveva smarrito per strada il suo
finale. Con le parole di Fabrizio De
André,
E a un dio a lieto fine non credere mai…
× ASCOLTI
× Bevano Est, Rimini, in AA. VV. Canti randagi, Ricordi, 1995.× LETTURE
× Borges J. L., El jardín de senderos que se bifurcan, in Ficciones, 1944,