Voglio
essere una forza che
agisce veramente per il bene
John
Coltrane
Mi piace sempre Crescent, mi
diverte.
Credo che in quell’album ci
sia
una grande varietà di cose
Elvin
Jones
“Me ne sto seduto
a provare progressioni di accordi e sequenze e, alla fine, ricavo un
brano – o più brani – da ciascun piccolo
problema musicale” (Coltrane, Giant Steps,
note di copertina). Si potrebbe partire da qui. Da quella natura
curiosa e indagatrice che spinge John Coltrane a smontare e rimontare
infinitesimali brandelli di un linguaggio – quello della
musica afro-americana – che dopo di lui non sarà
mai più lo stesso. Né la sua meravigliosa
avventura musicale – durata una dozzina d’anni da
quando fece il suo primo ingresso nel quintetto di Davis, nel 1955,
alla morte prematura avvenuta nel luglio 1967 – conobbe alcun
momento di stasi, fatto questo molto significativo su cui torneremo a
riflettere. In questo breve arco di tempo la musica del saxofonista di
Hamlet compie trasformazioni sbalorditive, in un quadro evolutivo
capace di sintetizzare magistralmente tutta la storia del jazz
(compreso quello a venire).
Alcuni elementi
stilistici per chiarire meglio il concetto.
In primo
luogo una caratteristica costante, quasi ereditaria, lungo tutta la sua
carriera: il blues permea tutta la sua musica, da
quando suona in gruppi R&B a quando, tardivamente (altro
elemento interessante) esplode la sua vena free.
Una fortissima componente arcaica quindi non tramonterà mai
in Coltrane.
Secondo: La tradizione swing
e bop coltivata durante gli anni giovanili, sino
alla collaborazione con Miles, in modo ostinato. Interessante a tal
proposito la vicenda del provino che fece a NY con Davis. Il
trombettista, pur riconoscendone il talento, non fu entusiasta della
prova e l’occasione sembrò inizialmente sfumare:
“Trane continuava a fare domande su quello che doveva o non
doveva suonare. Cazzate. Era un musicista professionista, e io avevo
sempre preteso che chiunque suonasse con me fosse in grado di trovare
il suo posto nella musica che eseguivamo” (Davis in Kahn,
2004).
Ciò che lasciò perplesso Davis
era in realtà una delle doti più grandi del
tenorista: l’indomito desiderio di migliorarsi, di carpire
ogni segreto di ogni musica. Desiderio che si manifestava, assumendo un
atteggiamento persino eccessivamente preoccupato, ma che fu il motore
di quella sua capacità di smontare e rimontare la materia
musicale di cui sopra. Trane tornò a casa deluso ma subito
dopo Davis lo chiamò proprio per la sua caparbia
capacità di padroneggiare il repertorio standard:
“Trane era l’unico che conoscesse tutti i pezzi,
non potevo rischiare di avere nel gruppo uno che non sapeva cosa
suonare” (Ibidem).
Terzo
elemento: la capacità di creare interpolazioni infinite,
armoniche e melodiche. Un’abilità affinata con
Thelonious Monk (fondamentale l’incontro con il pianista) e
sfociata in composizioni come Giant Steps.
Un’abilità altresì determinata dalla
sua natura ossessiva, che lo rese il più puntiglioso
interprete della difficile musica monkiana: “E si mette a
percorrere furiosamente la musica del pianista (...) Suona cose
impossibili al saxofono, scritte apposta per il pianoforte”
(De Wilde, 1999). Così si esprime
senza mezzi termini De Wilde ma basta ascoltare il solo
di Trane in Epistrophy per capire che
“Lui, suona tutto, per tutto il tempo, a tutta
velocità” (Ibidem).
Insolitamente, virtuosisticamente.
Quarto:
l’esplorazione profonda del modalismo, già
sperimentato e appreso alla corte di Davis, che con Trane diviene
qualcosa di trascendente. In particolare vi si nota la potente
astrazione dal sistema tonale attraverso la disposizione degli accordi
per quarte (non così nei lavori modali di Miles) che conduce
a sonorità arcaiche ed esotiche. Qui si innesta il quinto
elemento stilistico, quello dell’indagine sulle altre culture
e, in particolare, il suo interesse per le musiche africane e
indiana.
Infine l’affrancamento totale da
ogni costrizione, quella dimensione free che, se
non è stata la prima storicamente (si veda Ornette Coleman
ad esempio), è certamente unica da un punto di vista
estetico. Il suo è un free-jazz pregno
di lirismo mistico e di fuoco virtuosistico rigorosamente improntato a
meccanismi intervallari dalla logica ferrea. Ecco perché
riteniamo rilevante la tardività della sua manifestazione free.
Perché fu evidentemente necessario un percorso di
emancipazione e di affinamento che lo portasse a suonare una musica che
non imponeva prescrizioni. Musica semplice proprio per questo si
potrebbe dire, e invece la più difficile, in quanto non
dà appigli a strutture. Solo forza immaginativa pura. Un
traguardo meditato da tempo e raggiunto faticosamente se si pensa alla
relativa inadeguatezza dell’azione di Trane nel disco The
Avant-gard, pubblicato nel 1966 ma registrato nel 1960. Un
disco sulla musica di Ornette Coleman, eseguito insieme ad alcuni degli
storici collaboratori del padre del free. Si
trattò di un esperimento non totalmente riuscito
così come ebbe a dire, tra gli altri, Roberto Valentino:
“Ascoltando tutt’oggi il disco, Coltrane risulta
infatti sostanzialmente estraneo alle complesse concezioni compositive
del musicista texano” (Valentino, 2002). Un esperimento
quindi che testimonia ed enfatizza la lunga rincorsa di Coltrane per
approdare al proprio ultimo stile musicale.
Al centro di
questa vertiginosa indagine a trecentosessanta gradi si pone un disco, Crescent
(1964), che ha avuto il solo torto di essere immediatamente precedente,
e quindi oscurato, da quel capolavoro celeberrimo che è A
Love Supreme (stesso anno) ma che con quest’ultimo
condivide concezioni musicali, clima espressivo, formazione,
produttore, etichetta, ingegnere del suono. Non a caso è
considerato il preferito, tra i dischi di Coltrane, da una nutrita
serie di musicisti, da Elvin Jones, a Frank Lowe, da Dave Liebman a
Jimmy Garrison, secondo la testimonianza della moglie Roberta, solo per
citarne alcuni. La title-track resta un esempio
splendido di ciò che è stato il complesso mondo
di Coltrane; una sintesi magnifica – lirica e drammatica, dai
contorni mirabilmente misurati – della sua poetica.
È il momento di tornare brevemente all’immagine
iniziale di Coltrane che spiega come le composizioni di Giant
Steps prendano l’avvio da una serie di elaborazioni
armoniche che il saxofonista ostinatamente ricerca. Piuttosto ovvio
pensare a questo processo in relazione alle rapide modulazioni per
terze maggiori di molti brani di quell’album, ma
l’idea che Coltrane partisse da assorte, personali ricerche
armoniche per le proprie composizioni non deve limitarsi a quel
periodo. Persino nella sua manifestazione free
troviamo elementi che sono chiaramente frutto di elaborazioni di
strutture melodico-armoniche rigorose. Così ci piace
immaginare Trane che se ne sta seduto a esplorare,
solitario, un mondo armonico, anzi un microcosmo: il modo locrio di una
scala qualunque, poniamo la scala maggiore di MI bemolle maggiore.
Pensando all’accordo di settimo grado (RE, FA, LAb) comincia
forse a immaginare una nota estranea allo stesso che possa conferire un
elemento di interessante sospensione (ricordate le poliarmonie di Naima?);
suona SOL, scende per gradi congiunti a RE, toccando quindi FA e sale a
LAb. Forse ripete più volte questo incipit per farlo
risuonare nella sua mente. Le note dell’accordo di settimo
grado di MIb più la nota estranea SOL. Forse è
lì che immagina il suo quartetto suonare Crescent e
pensa al basso che sì, deve suonare SOL come il sax. Bisogna
chiudere la triade diminuita così conchiusa tra due note che
ne aprano il sound. Forse è a quel punto che scrive il primo
accordo: SOL7sus(b9) il quale altro non è che
l’accordo di settimo grado di MIb con il SOL al basso. La
meditativa enunciazione tematica, senza tempo (sospensione armonica e
ritmica quindi, nonché melodica per l’esposizione
cadenzante) sembra esplorare ogni segreta essenza di questo semplice
accordo, di questo microcosmo appunto. Poche note piene di meraviglia
per un’esplorazione così circoscritta cui solo gli
occhi di un bambino possono dare profondità. Poi la stessa
cosa, una quinta sopra, in risposta al primo accordo. Introduzione
magistrale. Il tema, intriso di un doloroso sapore blues
si ripete due volte risolvendo infine a DO minore, breve ponte che
conduce al magnifico solo costruito su pochi semplici accordi
prolungati che ne fanno un brano modale. Del solo va detto subito che
si tratta di una delle più belle e coerenti costruzioni
coltraniane. Sin dall’inizio si impone la determinazione a
entrare immediatamente nel vivo con quella breve frase pentatonica,
subito sostituita da inquieti fraseggi in terzine con il settimo grado
alterato a creare tensione: è solo l’inizio in DO
minore, un nuovo microcosmo esplorato magicamente. E poi la
progressione di tonalità minori in cui tutti gli elementi
elencati poc’anzi si dispiegano splendidamente, anticipando
persino il suo stile più tardo con frasi cromatiche che
utilizzano ampiamente note estranee agli accordi, in un crescendo di
intensità ritmica swingante e di senso
drammatico. Inutile dire che tutto il quartetto suona in modo
incredibile, come sempre. Si arriva così al momento in cui
il piano si fa da parte e Trane mette in mostra un ossessivo disegno in
terzine su elementi di due note, creando un mirabile gioco di
spostamento di accenti che alterna a frasi torrenziali e decisamente
cromatiche per introdurre un nuovo elemento ossessivo, questa volta in
quartine, alternando una nota fissa a una linea spezzata in movimento.
Ed è qui che avviene un’altro miracolo: le linee
non sono affatto audaci armonicamente ma è il suono del suo
tenore a creare una tensione sconvolgente. Si sfibra, si fa rauco,
manca addirittura le note, le lascia a tratti intuire. Ed è
un suono unico, impossibile da immaginare. Altri elementi poliritmici e
sheets of sound fino alla ripresa del tema,
sommessamente serena come se tutto quello sconvolgimento non avesse
intaccato la sua fede.
“Durante l’anno 1957 sperimentai, per
grazia di Dio, un risveglio spirituale che doveva condurmi a una vita
più ricca, più piena, più produttiva.
A quel tempo, per gratitudine, chiesi umilmente che mi venissero
concessi i mezzi e il privilegio di rendere felici gli altri attraverso
la musica. Sento che ciò mi è stato accordato per
Sua grazia. OGNI LODE A DIO” (Coltrane, A Love
Supreme, note di copertina). Finora ci eravamo limitati a
elencare una serie di elementi tecnici che hanno fatto
dell’arte di Coltrane qualcosa di inarrivabile. Non
è certo poca cosa ma non è tutto. Ciò
che aleggia nella musica di Coltrane, che la rende così
emozionante e persino sconvolgente è quello spessore
spirituale che ne pervade ogni frammento. Avvicinarsi alla musica di
Coltrane è sempre un’esperienza anche
extra-musicale. La sua musica si fa arte nel senso più alto,
parla di misteri indicibili e terribili, è pura poesia. A
questo fondamentale aspetto possiamo solo accostarci umilmente,
sperando che tale forza ci possa sfiorare poiché in essa,
dopo tutto, risiede l’arte di John Coltrane: “Il
jazz, se si vuole chiamarlo così, è
un’espressione musicale; e questa musica per me è
espressione degli ideali più alti” (Coltrane, in
Kofsky, 1970).
La vicenda artistica di Coltrane non conobbe
stasi. L’inquieta natura che lo animava lo condusse verso una
ricerca infinita, sia in campo musicale e sia in campo spirituale.
È proprio questo elemento che ci consegna oggi un altro
fondamentale messaggio, quello cioè secondo cui
l’arte deve avere radici nel passato ma guardare
obbligatoriamente al futuro, essere quindi innovativa.
Innovativa e densa di contenuti elevati, del senso della morte che
aleggia drammaticamente nella sua musica. Racconta McCoy Tyner
riferendosi all’illuminazione che permise a Coltrane di
uscire dalla schiavitù della droga: “Ricordo che
mi spiegò di aver sognato Charlie Parker. E Bird gli aveva
detto che era sulla via giusta” (Kahn, cit.). Bird, il cui
spirito apparse durante una seduta spiritica cui parteciparono
musicisti vicini a Lennie Tristano. Seduta in cui lo Spirito di Cristo
espresse il messaggio “Pray”, quello di Bird
“Play”*.
La comunità americana del jazz
sembra saper credere ancora nell’aldilà.
Charley Parker, forgive me – |
“Charley Parker, perdonami - |
* Come ci ha riferito confidenzialmente un musicista molto vicino a Lennie Tristano.
× ASCOLTI
× Coltrane J., Giant Steps, Atlantic, 1960, ristampa cd Atlantic/Wea, 1998.× LETTURE
× De Wilde L., Thelonious Monk Himself, Roma, Minimum Fax, 1999.