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di Raffaella Monia Calia

 

Vaga nei meandri sotterranei dell’inconscio, spazia in territori mortiferi, sonda gli abissi dell’angoscia, raccontando una solitudine sorda, tremenda, eppure sopportabile, è in questo il carattere essenziale della peculiare sensibilità incarnata da Edgar Allan Poe. Un sentire tenebroso, perverso, inquietante, incuneato nelle infinite trame di questa strana faccenda che è la vita, trova così il suo specifico compimento nella narrazione immaginifica di Poe. Lui, il bostoniano, la cui esistenza, turbolenta e tormentata, fu sempre ossessionata, avvelenata, dal peggiore degli incubi: cadere in catalessi e risvegliarsi  vivo, solo, sepolto in una tomba. L’universo letterario di Poe è uno spazio inquieto di morte e amore, paura e delirio, supplizi e tormenti; i suoi personaggi, contenitori dei più disparati “ruoli” – il pescatore, l’esule, l’amante, il figlio – proiettano di volta in volta una silhouette, un’ombra esile, eppure riconoscibile, nel “vuoto cosmico”, mistico e doloroso del mondo. La cifra distintiva dell’opera di Poe è la violazione sistematica dei confini, non solo logici, perché anche i limiti fisici sono, in molti casi, del tutto immaginari: il sogno si confonde con la veglia, la notte con il giorno, la gioia col dolore, “sì, perché il piano inclinato dei fatti diviene sempre più indeterminato, l’inconscio si unisce con l’apparente reale, fino a fagocitarlo completamente” (La Porta, 2007). 
Leggendo i racconti, ci si immedesima nelle inquietudini dei suoi protagonisti, gli incubi e le visioni dilatano la percezione dello spazio, sensazioni fisiche e psicologiche agghiaccianti si propagano nella mente e nel corpo, un terrore cieco e ancestrale ci invade e ci pervade. Leggere Poe comporta accettare di collocarsi su un crinale della percezione, porsi dal lato della finzione, assumere le ragioni del fantastico, come se si stesse sognando di vivere, o si stesse vivendo un sogno. Eppure, è proprio in quello spazio di archetipica paura che riemerge, in tutta la sua forza, la concretezza dell’esistenza. Nel respiro bloccato da una tomba chiusa, o nel corpo inerme, impotente, preda della furia degli elementi, travolto dalle acque impetuose del tremendo Maelström, dal quale, miracolosamente, ci si salva. 
In tal senso, il dispositivo narrativo del “sopravvissuto” (Caramiello, 1987), lucidamente adottato anche da Poe, rappresenta, metaforicamente, una possibile via d’uscita riguardo allo strapotere del non-sense. E il grado di simbolizzazione praticabile, la possibilità di conferire un “senso” allo spazio caotico dell’universo, si realizza grazie agli stilemi della sua scrittura, potente mezzo che egli usa per ricostruirne una configurazione, spiegabile, in qualche modo, anche se mai del tutto comprensibile. “D’altronde” come scrive Gianfranco Pecchinenda sul suo blog, “ogni ordine costruito è uno spazio di significatività «estratto» in un mucchio di non-senso” (http://pecchinenda.blogspot.it/2007/10/lezioni-iii-e-iv-aa-2007-08.html).

 

libro16_poeIn tal guisa, evidentemente, la “lettura” delle opere di Poe richiede l’adozione di un approccio fortemente interdisciplinare.  
Nei racconti Una discesa nel Maelström, Il messaggio nella bottiglia ed Eureka, in modo particolare, Poe, pur esplorando alcune delle sue tematiche ricorrenti, si dedica, in maniera più strutturata, alla speculazione scientifica ed all’ispezione cosmogonica. 
Certamente, però, Una discesa nel Maelström è il racconto che meglio si presta ad una analisi dalle forti implicazioni sociologiche. Si tratta di una storia che potremmo definire di impianto “cibernetico”, che narra di modelli retroattivi, anticipando, di molto, alcune tendenze, non solo della letteratura moderna e contemporanea, ma anche della scienza. Amato da Marshall McLuhan (1994), citato da molti altri critici e studiosi, tra cui Norbert Elias (1988), Una discesa nel Maelström è un moderno racconto della complessità sistemica, ossia del modo con cui si attivano connessioni e relazioni tra accadimenti umani e strutture “emergenti”, tra azioni e processi di feed-back, innestati in un contesto contingente: il “mondo sociale” di pescatori del XIX secolo, pronti al rischio “totale”, la vita, pur di guadagnarsi di che vivere, portando a casa più pescato. Sullo sfondo, una natura possente e indomabile, che scatena spirali di energia distruttiva, in cielo e in mare, avvolgendo ogni cosa.
Metafora del caos sociale e paradigma della turbolenza che agita la nuova scienza, lo strom di Poe, però, contiene anche una distorsione temporale al suo interno, tant’è che il marinaio sopravvissuto, stanco testimone di cotanta furia, si ritrova improvvisamente vecchio. Non si tratta solo dell’estremizzazione grottesca di quell’idea, tipica del “common sense”, (e anche non del tutto priva di fondatezza), per cui le esperienze terribili, laceranti, di grande sofferenza e dispiacere, ci fanno invecchiare di colpo. La sensibilità di Poe si proietta oltre la pura immediatezza sociologica, per evocare i territori del fantastico, dell’immaginario, fino a lambire le frontiere più avveniristiche della science fiction. In tal senso, l’uso dell’alterazione spazio-tempo anticipa i racconti di  viaggiatori cosmici, risucchiati dal turbine di un buco nero. Quando il pescatore si approssima, per effetto della forza centripeta, al vortice di quella immane spirale liquida, si ritrova a combattere con la morte, tipica ossessione dell’opera “poeiana”, e in un periodo di sole sei ore, egli invecchia di molti anni (Grantz, 2006, http://www.poedecoder.com/essays/eureka/); come se la gamma di emozioni a disposizione di ognuno di noi avesse la prerogativa di poter essere “normalmente” vissuta in un lungo intervallo di vita, e che se consumata, invece, a una assai più grande velocità, in un breve lasso, incida inesorabilmente anche su caratteri di manifesta fisicità, tracimi, insomma, in una brutale somatizzazione.
Ma vediamo bene cosa accade. Una discesa nel Maelström, scritto da Poe nel 1833, ma pubblicato solo otto anni dopo, narra la storia di tre fratelli pescatori della “grande provincia di Nordland, nel desolato distretto di Lofoden dei Mari del Nord” vittime del Maelström, un gorgo enorme e profondo, un vortice immane che si forma, per effetto di flussi e riflussi, nelle acque norvegesi attraversate da isole contingenti e taglienti faraglioni. A raccontare è il marinaio superstite, mostrando, al suo ascoltatore, “un panorama così desolato” inconcepibile da qualsiasi mente umana.

 

A destra e sinistra, a perdita d’occhio, sorgevano, come fossero i contrafforti del mondo, schiere di scogli aguzzi e neri, il cui aspetto tenebroso era ancor più evidenziato dalla schiuma che con  la cresta bianca e spettrale gli si avventava senza posa contro, ululando e gemendo.

 

Di sotto, a strapiombo, un oceano di inchiostro, intento in vorticosi movimenti. 
I tre fratelli, proprietari di un peschereccio di settanta tonnellate, attrezzato come una goletta, si dedicavano alla pesca nei dintorni di Vurrgh, zona poco battuta dagli altri equipaggi, proprio per la frequente presenza di terribili e violente correnti, che i nostri protagonisti affrontavano con audacia, in cambio di pescate abbondanti e di migliore qualità, investendo il loro coraggio in “conto capitale”. 
Tra mille difficoltà, riuscivano solitamente a vincere la sfida del Moskoe-strom, senza particolari incidenti, finché, un giorno di luglio, si “scatenò il più terribile uragano che sia mai venuto dal cielo”.
Erano le sette di sera, la barca era colma di ottimo pesce, era stata una battuta più ricca del solito. Ma un vento fresco a favore si trasformò presto nel più acerrimo nemico del naviglio, prima soffiando contro, poi “cadendo”. All’orizzonte una nube color rame, velocissima avanzava, e sotto si agitavano correnti, finché di colpo arrivò la tragica e roboante tempesta. E il gorgo divenne violentissimo e immenso.
In pochi minuti, la barca viene attratta dal vortice e sommersa dalle ondate. Il fratello maggiore improvvisamente scompare, e il nostro superstite, di istinto, si avvinghia ad un anello a prua, “alla base dell’albero di trinchetto”.
All’improvviso qualcuno gli afferra le braccia, è il maggiore, che con il viso contratto dal terrore, gli mormora all’orecchio: Moskoe-ström!  La furia del vento innalzava “onde alte come montagne”, il vortice era a un quarto di miglio, il mare urlava impazzito. In due soli minuti la barca e i suoi sfortunati ospiti furono nel gorgo. Una muraglia di mare, tra loro e l’orizzonte, li proteggeva dagli spruzzi assordanti e soffocanti causati dai venti. Di sotto un circuito liquido li risucchiava, approssimandoli gradualmente “al terrificante orlo interno”.
“Può sembrare strano, ma ora che eravamo in mezzo al gorgo, mi sentivo più calmo di quando ci stavamo avvicinando ad esso”, la disperazione distendeva il nervosismo, lasciando lo spazio ad una forte curiosità per il vortice, a una sorta di desiderio masochistico di andare a vedere il fondo dell’abisso.
La scena era più o meno questa: il nostro testimone è ancora aggrappato all’anello, mentre il fratello è a poppa, avvinghiato ad un barile vuoto. Ma improvvisamente quest’ultimo molla la botte, man mano che ci si accosta al vortice, strappando le mani del consanguineo dal tondo appiglio.
Senza opporre resistenza e a corto di speranze, il pescatore, costretto dal fratello a cedere l’anello, si ritrovò istintivamente stretto al barilotto con gli occhi chiusi, strattonato a capofitto nell’abisso, insieme all’imbarcazione. Pian piano venne meno la sensazione di una caduta senza fine, ebbe dunque il coraggio di riaprire gli occhi e vide, con sommo stupore, che

 

l’imbarcazione sembrava sospesa, come per magia, a metà della superficie interna di un enorme imbuto, di spettacolosa profondità, e talmente levigato che si sarebbe potuto scambiare per ebano se non fosse stato per la prodigiosa velocità di rotazione e per il riflesso lucente e fantasmagorico della luna piena che […] riversava un torrente glorioso di luce dorata sulle nere pareti e fino al fondo, nei recessi dell’ultimo abisso.

 

La discesa, seppur lenta, era inesorabile, verso il “cuore del profondo” baratro, stranamente, però, quanto più ci si avvicinava alla fine tanto più il pescatore osservava, curioso, ciò che lo circondava. La sua imbarcazione, sulla vasta “superficie di ebano liquida” era in compagnia di altri relitti, diversi oggetti fluttuavano sul gorgo, egli studiava i movimenti e prediva in quale ordine avrebbero raggiunto il fondo, con continui errori di calcolo.
Allora studiò ancora, facendo appello alla sua memoria, ricordandosi del gran numero di residui disseminati lungo la costa di Lofoden, restituiti dal potente Maelström, e ricordò di come alcuni oggetti fossero stati completamente rovinati e restituiti irti di schegge ed altri, invece, straordinariamente intatti. Ovviamente tale considerazione faceva supporre che i frammenti ruvidi appartenevano agli oggetti “completamente risucchiati”, mentre gli altri, si supponeva, fossero discesi tardi. A quel punto, come un dotto scienziato, il pescatore formula tre importanti considerazioni, che gli salveranno la vita. 
La prima, era che i corpi grossi scendevano più rapidamente, la seconda, che tra due masse uguali, quella di forma sferica scendeva più velocemente “di quelle di qualsiasi altra forma”, la terza era che la forma cilindrica era inghiottita più lentamente di qualsiasi altra. Decise, dunque, senza alcun dubbio, di legarsi alla botte vuota e di tuffarsi in mare, indicando al fratello, la salvifica soluzione, che scuotendo disperatamente la testa, con occhi increduli e terrorizzati, si approssimò, oramai, alla inesorabile fine. Dopo circa un’ora la barca, oramai discesa tanto di sotto al pescatore superstite, naufragò repentinamente, nel caos del più nero abisso. Il barile continuava a scendere, era quasi a metà tra il bordo del gorgo ed il suo centro, quando, improvvisamente, le pareti del grosso imbuto oceanico divennero sempre meno ripide, la velocità di rotazione del risucchio sempre più contenuta, il fondo della voragine risalì lentamente, ed il mare si appiattì, finalmente. Trascinato ancora dagli avanzi delle onde, il pescatore raggiunse il canale dello Strom, dove fu tratto in salvo: “Raccontai loro la mia storia – ma non mi credettero. Ora l’ho raccontata a lei – ma non mi aspetto che le dia più credito di quanto non gliene abbiano dato gli allegri pescatori di Lofoden”. 
Il marinaio di Poe si era salvato osservando, studiando l’azione del gorgo e collaborando con esso, cooperando in qualche modo con la sua logica immanente. Conflitto e cooperazione avevano agito come strumenti di riduzione della complessità (Caramiello, 2010; Luhmann, 1990). Egli aveva steso sul caos  “una rete di significati” che lo avevano trasformato “in un nuovo ordine” (Escobar, 2009).    
Una discesa nel Maelström, racconto cibernetico che connette gli “accadimenti” sociali della modernità con i processi di fenomeni “naturali”, evidenzia una particolare tendenza dell’agire umano, una “proprietà emergente” (Kauffman, 2005) ossia il comportamento creativo, l’innovazione e l’autoregolazione che si manifesta “al margine del caos”.

 

Proviamo a esplicitare l’assetto metaforico della narrazione. Il vortice c’è, nessuno può sfuggirvi, ed è legato soprattutto allo sviluppo della modernizzazione, che ha portato con sé novità senza precedenti, una tra tutte l’incedere dell’individualità, a scapito della dimensione collettiva, la cognizione di una situazione di crisi generalizzata ed immanente. Se da un lato “la modernità, la «complessità sociale» […] costituiscono anche la dimensione dell’anomia, dell’alienazione, dello spaesamento”, dall’altro “nel loro ambito, si apre anche lo spazio in cui l’individuo realizza la sua massima libertà, in virtù dei legami plurali che può intessere, all’interno di gruppi differenti, non più normativamente vincolanti” (Caramiello, 2010); ne consegue la possibilità di poter operare delle scelte, di essere Kybernetes, “governatore”, “timoniere” e pilota della propria modalità di essere al mondo.
Il caos, oltre a circondarci, è dentro di noi. “Non a caso la società metropolitana con i suoi stimoli plurali e i suoi ritmi potenzialmente asincroni porta in sé un’anima angosciata e malinconica (Abruzzese, Borrelli, 2000) ed è contemporaneamente produttrice di un’ideologia della felicità (Abruzzese, 1973), di un desiderio che si appaga, e si rinnova in modo lacerante, nell’attesa di altro da desiderare” (Sedda, 2003).
Il maelström è il simbolo per antonomasia della modernità, che riflette il caos, la complessità sociale, in cui siamo immersi. 
Allo stesso modo, gli aspetti trascendentali della vita sono resi manifesti dalla scelta dello strom come simbolo del destino, soprattutto nel vertiginoso pattern che esso assume. La sua forma corrisponde esattamente a ciò che Poe aveva in mente per un’allegoria del cosmo (Grantz, 2006). Evidente è la somiglianza tra la “tendenza” della materia di avvolgersi a spirale, pensiamo alle galassie, ugualmente ai processi di formazione dei viventi (Bateson, 1999), e il movimento vorticoso del gorgo. Nella sua narrazione, Poe “mette in scena”, in modo assai efficace, i timori dell’uomo contemporaneo, mettendo in luce l’affinità tra il comportamento autodistruttivo dell’uomo e le caratteristiche della materia, che contiene in sé anche i principi per la sua dissoluzione, prima della trasformazione.
In tal senso, come afferma Hoffmann (1972), egli “anticipa l’inferno speciale dell’uomo moderno”, quell’orrore di smarrire la propria individualità, di perdere di vista l’altro, assorbito dal dis-ordine che circonda e invade.  
“Il desiderio inappagabile della presenza dell’altro”, o anche, del proprio homunculus  (Pecchinenda, 2008), rielaborato culturalmente attraverso “le immagini, i simulacri, i fantasmi” (Sedda, 2003) ci riporta al sottofondo malinconico della modernità.
In tal senso, è “elemento forte della complessità sociologica, nel senso di Morin, quello che condanna l’essere sociale alla «doppia vita», perché lo sdoppiamento è a fondamento dell’identità, quando ci si «riflette» allo specchio, e quando si incrocia lo sguardo dell’altro, entrambe possibilità esclusivamente umane. Prerogative sublimi e tragiche” (Caramiello, 2010). 
Il vortice rappresenta la forma “universale” dell’angoscia che, per effetto di feed-back, innesca identici meccanismi “formali” di riproduzione, alla maniera degli oggetti frattali (Mandelbrot, 1987), riproducendosi incessantemente, sino alla sua ultima componente, il malessere interiore di ogni singolo essere umano. 
Se è la ridondanza delle componenti, una delle caratteristiche dei sistemi complessi che permette la loro resilienza, è proprio il processo di riduzione della complessità a restituire, forse, “la condizione ontologica dell’esperienza stessa” (Caramiello, 2010), ossia quella di essere “mediata” (Caramiello, 1987).
Allo stesso modo il vortice di Poe riprende la forma a spirale degli elementi del cosmo e delle forme viventi (Bateson, 1999) e si riflette nel suo alter, il buco nero, il simbolo per antonomasia della dissoluzione totale ed inesorabile. Il potere si concentra in un vortice che attrae ed espelle, laddove entropia e disordine, sintropia e reintegrazione sistemica governano il caos e la complessità. È la “logica” di una natura potente, “umana” e in quanto tale contaminata da scorie infinite, come i relitti che il pescatore scorge nel gorgo, il vorticoso incedere di un’identità sofferta e attraversata da mille forme di  disagio (Freud, 2010), vissuta appieno da chi la abita, ma irrimediabilmente attraversata dal rischio.
In questo senso il caos palesa uno scenario di rischi e opportunità, in esso il sistema esprime una contingenza che presuppone livelli di azione e di scelta da esercitare consapevolmente.  
Sfruttando la legge del dis-ordine e cooperando con la crisi, possiamo cercare e forse trovare nuove soluzioni, che abbandonino vecchie concezioni, improduttive e sterili, che sostituiscano desuete e logore bandiere. Siamo al limite della “tempesta perfetta” del mondo, questo è chiaro a tutti, ma non sarà aggrappandoci all’albero maestro di presunte solide barche che potremo salvarci. Se l’allegoria ha un senso, allora sono proprio le strategie innovative e creative, quali proprietà emergenti al margine del caos, che possono rappresentare dei validi strumenti di sperimentazione identitaria, di allenamento cognitivo e sistemico. Sono questi i dispositivi euristici più utili a governare processi di transizione difficili, i meccanismi concettuali necessari ad affrontare, con la possibile e necessaria serenità, una complessità sociale crescente. Si tratta, evidentemente, di una situazione non priva di dimensioni “critiche”, ma che dobbiamo imparare a interpretare non solo in quanto “limiti”, ma anche quali possibili “risorse”. 
È così che, irrimediabilmente attratti, entriamo nel Maelström e fluttuiamo nel vortice, senza farci immobilizzare dalla paura, senza farci atterrire da un pericolo che certo incombe. Ma è solo conservando la lucidità, senza perdere il respiro, che potremmo trovare, da qualche parte, le idee e la forza per agire e per andare avanti.

 


 

LETTURE

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Caramiello Luigi, Ripensare il mondo. Per una geopolitica della complessità, in Mezzogiorno Europa,
n. 1, anno IV, febbraio 2003(b).

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di Georg Simmel
, in Cotesta Vittorio, Bontempi Marco, Nocenzi Mariella (a cura di), Simmel e la cultura moderna.
Volume I. La teoria sociologica di Georg Simmel
, Morlacchi Editore, Perugia, 2010.

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