Vaga nei meandri sotterranei dell’inconscio, spazia
in territori mortiferi, sonda gli abissi dell’angoscia,
raccontando una solitudine sorda, tremenda, eppure sopportabile,
è in questo il carattere essenziale della peculiare
sensibilità incarnata da Edgar Allan Poe. Un sentire
tenebroso, perverso, inquietante, incuneato nelle infinite trame di
questa strana faccenda che è la vita, trova così
il suo specifico compimento nella narrazione immaginifica di Poe. Lui,
il bostoniano, la cui esistenza, turbolenta e
tormentata, fu sempre ossessionata, avvelenata, dal peggiore degli
incubi: cadere in catalessi e risvegliarsi vivo, solo,
sepolto in una tomba. L’universo letterario di Poe
è uno spazio inquieto di morte e amore, paura e delirio,
supplizi e tormenti; i suoi personaggi, contenitori dei più
disparati “ruoli” – il pescatore,
l’esule, l’amante, il figlio – proiettano
di volta in volta una silhouette,
un’ombra esile, eppure riconoscibile, nel “vuoto
cosmico”, mistico e doloroso del mondo. La
cifra distintiva dell’opera di Poe è la violazione
sistematica dei confini, non solo logici, perché anche i
limiti fisici sono, in molti casi, del tutto immaginari: il sogno si
confonde con la veglia, la notte con il giorno, la gioia col dolore,
“sì, perché il piano inclinato dei
fatti diviene sempre più indeterminato,
l’inconscio si unisce con l’apparente reale, fino a
fagocitarlo completamente” (La Porta, 2007).
Leggendo
i racconti, ci si immedesima nelle inquietudini dei suoi protagonisti,
gli incubi e le visioni dilatano la percezione dello spazio, sensazioni
fisiche e psicologiche agghiaccianti si propagano nella mente e nel
corpo, un terrore cieco e ancestrale ci invade e ci pervade. Leggere
Poe comporta accettare di collocarsi su un crinale della percezione,
porsi dal lato della finzione, assumere le ragioni del fantastico, come
se si stesse sognando di vivere, o si stesse vivendo un sogno. Eppure,
è proprio in quello spazio di archetipica paura che
riemerge, in tutta la sua forza, la concretezza
dell’esistenza. Nel respiro bloccato da una tomba chiusa, o
nel corpo inerme, impotente, preda della furia degli elementi, travolto
dalle acque impetuose del tremendo Maelström, dal quale,
miracolosamente, ci si salva.
In tal senso, il
dispositivo narrativo del “sopravvissuto”
(Caramiello, 1987), lucidamente adottato anche da Poe, rappresenta,
metaforicamente, una possibile via d’uscita riguardo allo
strapotere del non-sense. E il grado di
simbolizzazione praticabile, la possibilità di conferire un
“senso” allo spazio caotico
dell’universo, si realizza grazie agli stilemi della sua
scrittura, potente mezzo che egli usa per ricostruirne una
configurazione, spiegabile, in qualche modo, anche se mai del tutto
comprensibile. “D’altronde”
come scrive Gianfranco Pecchinenda sul suo blog, “ogni ordine
costruito è uno spazio di significatività
«estratto» in un mucchio di non-senso” (http://pecchinenda.blogspot.it/2007/10/lezioni-iii-e-iv-aa-2007-08.html).
In tal guisa, evidentemente, la “lettura”
delle opere di Poe richiede l’adozione di un approccio
fortemente interdisciplinare.
Nei racconti Una
discesa nel Maelström, Il messaggio nella
bottiglia ed Eureka, in modo
particolare, Poe, pur esplorando alcune delle sue tematiche ricorrenti,
si dedica, in maniera più strutturata, alla speculazione
scientifica ed all’ispezione cosmogonica.
Certamente,
però, Una discesa nel Maelström
è il racconto che meglio si presta ad una analisi dalle
forti implicazioni sociologiche. Si tratta di una storia che potremmo
definire di impianto “cibernetico”, che narra di
modelli retroattivi, anticipando, di molto, alcune tendenze, non solo
della letteratura moderna e contemporanea, ma anche della
scienza. Amato da Marshall McLuhan (1994), citato da
molti altri critici e studiosi, tra cui Norbert Elias (1988), Una
discesa nel Maelström è un moderno
racconto della complessità sistemica, ossia del modo con cui
si attivano connessioni e relazioni tra accadimenti umani e strutture
“emergenti”, tra azioni e processi di feed-back,
innestati in un contesto contingente: il
“mondo sociale” di pescatori del XIX secolo, pronti
al rischio “totale”, la vita,
pur di guadagnarsi di che vivere, portando a casa
più pescato. Sullo sfondo, una natura possente e indomabile,
che scatena spirali di energia distruttiva, in cielo e in mare,
avvolgendo ogni cosa.
Metafora del caos
sociale e paradigma della turbolenza che agita la nuova scienza, lo strom
di Poe, però, contiene anche una distorsione temporale al
suo interno, tant’è che il marinaio sopravvissuto,
stanco testimone di cotanta furia, si ritrova improvvisamente vecchio.
Non si tratta solo dell’estremizzazione grottesca di
quell’idea, tipica del “common sense”, (e
anche non del tutto priva di fondatezza), per cui le esperienze
terribili, laceranti, di grande sofferenza e dispiacere, ci fanno
invecchiare di colpo. La sensibilità di Poe si proietta
oltre la pura immediatezza sociologica, per evocare i territori del
fantastico, dell’immaginario, fino a lambire le frontiere
più avveniristiche della science fiction. In tal
senso, l’uso dell’alterazione spazio-tempo anticipa
i racconti di viaggiatori cosmici, risucchiati dal turbine di
un buco nero. Quando il pescatore si approssima, per effetto della
forza centripeta, al vortice di quella immane spirale liquida, si
ritrova a combattere con la morte, tipica ossessione
dell’opera “poeiana”, e in un periodo di
sole sei ore, egli invecchia di molti anni (Grantz, 2006,
http://www.poedecoder.com/essays/eureka/); come se la gamma di emozioni
a disposizione di ognuno di noi avesse la prerogativa di poter essere
“normalmente” vissuta in un lungo intervallo di
vita, e che se consumata, invece, a una assai più grande
velocità, in un breve lasso, incida inesorabilmente anche su
caratteri di manifesta fisicità, tracimi, insomma, in una
brutale somatizzazione.
Ma vediamo bene cosa accade.
Una discesa nel Maelström, scritto da Poe
nel 1833, ma pubblicato solo otto anni dopo, narra la storia di tre
fratelli pescatori della “grande provincia di Nordland, nel
desolato distretto di Lofoden dei Mari del Nord” vittime del
Maelström, un gorgo enorme e profondo, un vortice immane che
si forma, per effetto di flussi e riflussi, nelle acque norvegesi
attraversate da isole contingenti e taglienti faraglioni. A
raccontare è il marinaio superstite, mostrando, al suo
ascoltatore, “un panorama così desolato”
inconcepibile da qualsiasi mente umana.
A destra e sinistra, a perdita d’occhio, sorgevano, come fossero i contrafforti del mondo, schiere di scogli aguzzi e neri, il cui aspetto tenebroso era ancor più evidenziato dalla schiuma che con la cresta bianca e spettrale gli si avventava senza posa contro, ululando e gemendo.
Di sotto, a strapiombo, un oceano di inchiostro, intento in
vorticosi movimenti.
I tre fratelli, proprietari di
un peschereccio di settanta tonnellate, attrezzato come una goletta, si
dedicavano alla pesca nei dintorni di Vurrgh, zona poco battuta dagli
altri equipaggi, proprio per la frequente presenza di terribili e
violente correnti, che i nostri protagonisti affrontavano con audacia,
in cambio di pescate abbondanti e di migliore qualità,
investendo il loro coraggio in “conto
capitale”.
Tra mille
difficoltà, riuscivano solitamente a vincere la sfida del
Moskoe-strom, senza particolari incidenti, finché, un giorno
di luglio, si “scatenò il più terribile
uragano che sia mai venuto dal cielo”.
Erano le
sette di sera, la barca era colma di ottimo pesce, era stata una
battuta più ricca del solito. Ma un vento fresco a favore si
trasformò presto nel più acerrimo nemico del
naviglio, prima soffiando contro, poi “cadendo”.
All’orizzonte una nube color rame, velocissima avanzava, e
sotto si agitavano correnti, finché di colpo
arrivò la tragica e roboante tempesta. E il gorgo divenne
violentissimo e immenso.
In pochi minuti, la barca viene
attratta dal vortice e sommersa dalle ondate. Il fratello maggiore
improvvisamente scompare, e il nostro superstite, di istinto, si
avvinghia ad un anello a prua, “alla base
dell’albero di trinchetto”.
All’improvviso
qualcuno gli afferra le braccia, è il maggiore, che con il
viso contratto dal terrore, gli mormora all’orecchio: Moskoe-ström!
La furia del vento innalzava “onde alte come
montagne”, il vortice era a un quarto di miglio, il mare
urlava impazzito. In due soli minuti la barca e i suoi sfortunati
ospiti furono nel gorgo. Una muraglia di mare, tra loro e
l’orizzonte, li proteggeva dagli spruzzi assordanti e
soffocanti causati dai venti. Di sotto un circuito liquido li
risucchiava, approssimandoli gradualmente “al terrificante
orlo interno”.
“Può sembrare
strano, ma ora che eravamo in mezzo al gorgo, mi sentivo più
calmo di quando ci stavamo avvicinando ad esso”, la
disperazione distendeva il nervosismo, lasciando lo spazio ad una forte
curiosità per il vortice, a una sorta di desiderio
masochistico di andare a vedere il fondo dell’abisso.
La
scena era più o meno questa: il nostro testimone
è ancora aggrappato all’anello, mentre il fratello
è a poppa, avvinghiato ad un barile vuoto. Ma
improvvisamente quest’ultimo molla la botte, man mano che ci
si accosta al vortice, strappando le mani del consanguineo dal tondo
appiglio.
Senza opporre resistenza e a corto di speranze, il
pescatore, costretto dal fratello a cedere l’anello, si
ritrovò istintivamente stretto al barilotto con gli occhi
chiusi, strattonato a capofitto nell’abisso, insieme
all’imbarcazione. Pian piano venne meno la sensazione di una
caduta senza fine, ebbe dunque il coraggio di riaprire gli occhi e
vide, con sommo stupore, che
l’imbarcazione sembrava sospesa, come per magia, a metà della superficie interna di un enorme imbuto, di spettacolosa profondità, e talmente levigato che si sarebbe potuto scambiare per ebano se non fosse stato per la prodigiosa velocità di rotazione e per il riflesso lucente e fantasmagorico della luna piena che […] riversava un torrente glorioso di luce dorata sulle nere pareti e fino al fondo, nei recessi dell’ultimo abisso.
La discesa, seppur lenta, era inesorabile, verso il
“cuore del profondo” baratro, stranamente,
però, quanto più ci si avvicinava alla fine tanto
più il pescatore osservava, curioso, ciò che lo
circondava. La sua imbarcazione, sulla vasta “superficie di
ebano liquida” era in compagnia di altri relitti, diversi
oggetti fluttuavano sul gorgo, egli studiava i movimenti e prediva in
quale ordine avrebbero raggiunto il fondo, con continui errori di
calcolo.
Allora studiò ancora, facendo appello alla
sua memoria, ricordandosi del gran numero di residui disseminati lungo
la costa di Lofoden, restituiti dal potente Maelström, e
ricordò di come alcuni oggetti fossero stati completamente
rovinati e restituiti irti di schegge ed altri, invece,
straordinariamente intatti. Ovviamente tale considerazione faceva
supporre che i frammenti ruvidi appartenevano agli oggetti
“completamente risucchiati”, mentre gli altri, si
supponeva, fossero discesi tardi. A quel punto, come un dotto
scienziato, il pescatore formula tre importanti considerazioni, che gli
salveranno la vita.
La prima, era che i corpi grossi
scendevano più rapidamente, la seconda, che tra due masse
uguali, quella di forma sferica scendeva più velocemente
“di quelle di qualsiasi altra forma”,
la terza era che la forma cilindrica era inghiottita più
lentamente di qualsiasi altra. Decise, dunque, senza alcun dubbio, di
legarsi alla botte vuota e di tuffarsi in mare, indicando al fratello,
la salvifica soluzione, che scuotendo disperatamente la testa, con
occhi increduli e terrorizzati, si approssimò, oramai, alla
inesorabile fine. Dopo circa un’ora la barca, oramai discesa
tanto di sotto al pescatore superstite, naufragò
repentinamente, nel caos del più nero abisso. Il barile
continuava a scendere, era quasi a metà tra il bordo del
gorgo ed il suo centro, quando, improvvisamente, le pareti del grosso
imbuto oceanico divennero sempre meno ripide, la velocità di
rotazione del risucchio sempre più contenuta, il fondo della
voragine risalì lentamente, ed il mare si
appiattì, finalmente. Trascinato ancora dagli avanzi delle
onde, il pescatore raggiunse il canale dello Strom, dove fu tratto in
salvo: “Raccontai loro la mia storia – ma non mi
credettero. Ora l’ho raccontata a lei
– ma non mi aspetto che le dia più credito di
quanto non gliene abbiano dato gli allegri pescatori di
Lofoden”.
Il marinaio di Poe si era
salvato osservando, studiando l’azione del gorgo e
collaborando con esso, cooperando in qualche modo con la sua logica
immanente. Conflitto e cooperazione avevano agito come strumenti di
riduzione della complessità (Caramiello, 2010; Luhmann,
1990). Egli aveva steso sul caos “una rete di
significati” che lo avevano trasformato “in un
nuovo ordine” (Escobar, 2009).
Una
discesa nel Maelström, racconto cibernetico che
connette gli “accadimenti” sociali della
modernità con i processi di fenomeni
“naturali”, evidenzia una particolare tendenza
dell’agire umano, una “proprietà
emergente” (Kauffman, 2005) ossia il comportamento creativo,
l’innovazione e l’autoregolazione che si manifesta
“al margine del caos”.
Proviamo a
esplicitare l’assetto metaforico della narrazione. Il vortice
c’è, nessuno può sfuggirvi, ed
è legato soprattutto allo sviluppo della modernizzazione,
che ha portato con sé novità senza precedenti,
una tra tutte l’incedere
dell’individualità, a scapito della dimensione
collettiva, la cognizione di una situazione di crisi generalizzata ed
immanente. Se da un lato “la modernità, la
«complessità sociale» […]
costituiscono anche la dimensione dell’anomia,
dell’alienazione, dello spaesamento”,
dall’altro “nel loro ambito, si apre anche lo
spazio in cui l’individuo realizza la sua massima
libertà, in virtù dei legami plurali che
può intessere, all’interno di gruppi differenti,
non più normativamente vincolanti” (Caramiello,
2010); ne consegue la possibilità di poter operare delle
scelte, di essere Kybernetes,
“governatore”, “timoniere” e
pilota della propria modalità di essere al mondo.
Il
caos, oltre a circondarci, è dentro di
noi. “Non a caso la società metropolitana con i
suoi stimoli plurali e i suoi ritmi potenzialmente asincroni porta in
sé un’anima angosciata e malinconica (Abruzzese,
Borrelli, 2000) ed è contemporaneamente produttrice di
un’ideologia della felicità (Abruzzese, 1973), di
un desiderio che si appaga, e si rinnova in modo lacerante,
nell’attesa di altro da
desiderare” (Sedda, 2003).
Il maelström
è il simbolo per antonomasia della modernità, che
riflette il caos, la complessità
sociale, in cui siamo immersi.
Allo stesso modo, gli
aspetti trascendentali della vita sono resi manifesti dalla scelta
dello strom come simbolo del destino, soprattutto
nel vertiginoso pattern che esso assume. La sua
forma corrisponde esattamente a ciò che Poe aveva in mente
per un’allegoria del cosmo (Grantz, 2006). Evidente
è la somiglianza tra la “tendenza” della
materia di avvolgersi a spirale, pensiamo alle galassie, ugualmente ai
processi di formazione dei viventi (Bateson, 1999), e il movimento
vorticoso del gorgo. Nella sua narrazione, Poe “mette in
scena”, in modo assai efficace, i timori dell’uomo
contemporaneo, mettendo in luce l’affinità tra il
comportamento autodistruttivo dell’uomo e le caratteristiche
della materia, che contiene in sé anche i principi per la
sua dissoluzione, prima della trasformazione.
In tal senso,
come afferma Hoffmann (1972), egli “anticipa
l’inferno speciale dell’uomo moderno”,
quell’orrore di smarrire la propria individualità,
di perdere di vista l’altro, assorbito dal dis-ordine che
circonda e invade.
“Il desiderio
inappagabile della presenza dell’altro”, o anche,
del proprio homunculus (Pecchinenda,
2008), rielaborato culturalmente attraverso “le immagini, i
simulacri, i fantasmi” (Sedda, 2003) ci riporta al sottofondo
malinconico della modernità.
In tal senso,
è “elemento forte della complessità
sociologica, nel senso di Morin, quello che condanna l’essere
sociale alla «doppia vita», perché lo
sdoppiamento è a fondamento
dell’identità, quando ci si
«riflette» allo specchio, e quando si incrocia lo
sguardo dell’altro, entrambe possibilità
esclusivamente umane. Prerogative sublimi e tragiche”
(Caramiello, 2010).
Il vortice rappresenta la forma
“universale” dell’angoscia che, per
effetto di feed-back, innesca identici meccanismi
“formali” di riproduzione, alla maniera degli oggetti
frattali (Mandelbrot, 1987), riproducendosi
incessantemente, sino alla sua ultima componente, il malessere
interiore di ogni singolo essere umano.
Se
è la ridondanza delle componenti, una delle caratteristiche
dei sistemi complessi che permette la loro resilienza,
è proprio il processo di riduzione della
complessità a restituire, forse, “la condizione
ontologica dell’esperienza stessa”
(Caramiello, 2010), ossia quella di essere
“mediata” (Caramiello, 1987).
Allo stesso
modo il vortice di Poe riprende la forma a spirale degli elementi del
cosmo e delle forme viventi (Bateson, 1999) e si riflette nel suo alter,
il buco nero, il simbolo per antonomasia della dissoluzione totale ed
inesorabile. Il potere si concentra in un vortice che attrae ed
espelle, laddove entropia e disordine, sintropia e reintegrazione
sistemica governano il caos e la
complessità. È la “logica” di
una natura potente, “umana” e in quanto tale
contaminata da scorie infinite, come i relitti che il pescatore scorge
nel gorgo, il vorticoso incedere di un’identità
sofferta e attraversata da mille forme di disagio (Freud,
2010), vissuta appieno da chi la abita, ma irrimediabilmente
attraversata dal rischio.
In questo senso il caos
palesa uno scenario di rischi e opportunità, in esso il sistema
esprime una contingenza che presuppone livelli di
azione e di scelta da esercitare consapevolmente.
Sfruttando
la legge del dis-ordine e cooperando con la crisi, possiamo cercare e
forse trovare nuove soluzioni, che abbandonino vecchie concezioni,
improduttive e sterili, che sostituiscano desuete e logore bandiere.
Siamo al limite della “tempesta perfetta” del
mondo, questo è chiaro a tutti, ma non sarà
aggrappandoci all’albero maestro di presunte solide barche
che potremo salvarci. Se l’allegoria ha un senso, allora sono
proprio le strategie innovative e creative, quali proprietà
emergenti al margine del caos, che possono
rappresentare dei validi strumenti di sperimentazione identitaria, di
allenamento cognitivo e sistemico. Sono questi i dispositivi euristici
più utili a governare processi di transizione difficili, i
meccanismi concettuali necessari ad affrontare, con la possibile e
necessaria serenità, una complessità sociale
crescente. Si tratta, evidentemente, di una situazione non priva di
dimensioni “critiche”, ma che dobbiamo imparare a
interpretare non solo in quanto “limiti”, ma anche
quali possibili “risorse”.
È
così che, irrimediabilmente attratti, entriamo nel
Maelström e fluttuiamo nel vortice, senza farci immobilizzare
dalla paura, senza farci atterrire da un pericolo che certo incombe. Ma
è solo conservando la lucidità, senza perdere il
respiro, che potremmo trovare, da qualche parte, le idee e la forza per
agire e per andare avanti.
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