Ormai si sa, la letteratura fantastica non è una
letteratura d’evasione, almeno non nel senso di letteratura
ludica o disimpegnata (lo è forse soltanto per il lettore
superficiale, un tipo dal quale, in ogni caso, è meglio non
accettare consigli di lettura); l’unica evasione che gli si
addice è quella da certi confini angusti del reale e della
sua rappresentazione. Si potrebbe parlare piuttosto di letteratura
d’invasione: dell’inaudito,
dell’indicibile, dell’illogico, in una parola,
delle forze oscure dell’irrazionale che si insediano al
centro del testo e della realtà che esso tenta di
raccontare, fino a provocarne l’irreversibile e catastrofico
mutamento.
L’invasione, per contrasto,
è avvertita con più efficacia nei testi che
postulano un mondo chiuso, retto dalla ripetizione, falsamente
rassicurante, rigidamente ordinato: la costruzione di un
ordine, la sua progressiva - talvolta segreta - infrazione e
conseguente distruzione ad opera degli invasori è quasi uno
schema invariato in molti racconti di uno dei maestri del fantastico
contemporaneo, Julio Cortázar, conterraneo di altri autori
raffinati del brivido quali Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis
Borges.
La realtà subisce, nei racconti
di Cortázar, un implacabile processo d’erosione a
partire da quelle che ne sono le categorie fondanti e che rendono
pensabile e conoscibile l’esistente, ovvero lo spazio e il
tempo. Ormai flessibili e permeabili, nella letteratura dello scrittore
argentino essi sono oggetto di inversioni, alterazioni, passaggi dagli
esiti terrorizzanti. Un esempio su tutti, il magistrale “La
notte supina”, pubblicato nel volume Fine del gioco
(1954). Un uomo ha un incidente in moto. Viene portato in
ospedale. Lì, ancora tra i fumi dell’anestesia,
sogna di essere braccato, in fuga tra non meglio identificate paludi,
incalzato da una minaccia letale. Il racconto procede
nell’alternanza di veglia e sonno, precisando la visione
onirica, sulla quale la narrazione si sofferma poco a poco sempre
più a lungo, sino a culminare nella sconcertante rivelazione
del finale: ciò che sembrava la realtà
(ciò che il testo presenta come la realtà
referenziale) si rivela come il sogno di un prigioniero degli aztechi
nel momento in cui sta per essere sacrificato sull’altare in
un tempio. L’incidente era un sogno, l’ospedale era
un sogno “un sogno assurdo come tutti i sogni”; la
realtà è le gradinate brillanti di sangue, lui
steso supino con gli occhi chiusi, tra i roghi, mentre qualcuno gli si
avvicina con un coltello in mano.
Cortàzar
però non si limita a far vacillare il qui ed ora (qui,
dove?; ora, quando?) ma attenta all’identità
stessa del soggetto. Il tema della metamorfosi presuppone, infatti, una
nuova e finale invasione, quella dell’io, prima assediato,
poi posseduto, spossessato, infine annullato.
Forse
uno dei più spaventosi racconti sul tema della metamorfosi
è Axolotl, parte anch’esso di Fine
del gioco. La storia in sé, come in altri
racconti di Cortàzar, è esile e peraltro
già riassunta tutta nell’incipit:
Ci fu un’epoca in cui pensavo molto agli axolotl. Andavo a vederli nell’acquario del Jardin des Plantes, e mi fermavo ore intere a guardarli, osservando la loro immobilità, i loro oscuri movimenti. Ora sono un axolotl.
La frase precipita verso il finale e consegna immediatamente
al lettore almeno un paio di interrogativi inquietanti: chi parla
è diventato un axolotl, è un axolotl a parlare.
Due impossibilità ammesse dalla finzione che tuttavia
implicano, come vedremo, scenari tutt’altro che rassicuranti.
L’incontro con l’axolotl
è il destino del narratore, e come si sa, in
Cortázar il destino è tracciato dal
caso:
Il caso mi condusse da loro un mattino di primavera in cui Parigi apriva la sua coda di pavone dopo il lento inverno. Scesi lungo il Boulevard de Port-Royal, svoltai per Saint-Marcel e l’Hôpital, vidi il verde fra tanto grigio e mi ricordai dei leoni. Ero amico dei leoni e delle pantere, ma non ero mai entrato nell’umido e oscuro edificio degli acquari.
Che cosa, se non un richiamo ineluttabile può spingere a rinchiudersi in un edificio umido e oscuro in una radiosa mattina di primavera, al termine di un inverno che sembrava non voler finire? Il destino, o il caso, assume le forme dell’attrazione fatidica e dell’ossessione (la cronaca insegna): “Rimasi un’ora a osservarli, poi uscii incapace di pensare ad altro”. Incapace di pensare ad altro. La metamorfosi, tramite una sorta di primordiale connessione psichica inizia ora, con l’invasione da parte di un pensiero ossessivo. Poiché, come si è detto, l’azione narrativa è scarna, è l’ossessione del protagonista a occupare gran parte della narrazione, che prevedibilmente è in prima persona, così da registrare accenti, sfumature, perplessità, sgomento del narratore stesso e questo giustifica la lunga e perturbante descrizione degli axolotl, “una specie di batraci del genere amblistoma”, dai “piccoli e rosei volti aztechi”. Perturbante, si è detto, per l’accuratezza maniacale dei dettagli che l’osservatore rileva, spia eloquente della fascinazione che l’animale esercita sull’uomo:
Vidi un corpicino roseo e come traslucido (pensai alle statuine cinesi di cristallo lattiginoso), simile a una lucertola di quindici centimetri che termini in una coda di pesce di una delicatezza straordinaria, la parte più sensibile del nostro corpo. Lungo la schiena aveva un’aletta trasparente, che si fondeva con la coda, ma ciò che mi ossessionò furono le zampe, di una finezza straordinaria. […] Sui due lati della testa, dove avrebbero dovuto esserci le orecchie, gli crescevano tre rametti rossi come di corallo, una escrescenza vegetale, le branchie, suppongo.
È inquietante la secolare fissità
dell’anfibio, è inquietante la malia che esercita
sull’occasionale visitatore (le due cose sono collegate:
“Fu il loro quieto raccoglimento che mi spinse a chinarmi
affascinato la prima volta che vidi gli axolotl”). Ma
è inquietante la crepa che si apre sulla superficie del
linguaggio (non dimentichiamolo: la materia del racconto), come una
micro-frattura, che è l’indizio di un prossimo
abisso, nella qualità al contempo di soggetto e di oggetto
di osservazione propria del narratore: “Vidi un corpicino
roseo […] la parte più sensibile del nostro
corpo”. “Nostro” di chi? Io è
un altro, o meglio, un’altra cosa? Cosa?
Più
avanti, la situazione si chiarisce (o forse no): “Qualche
volta una zampa si muoveva impercettibilmente, io vedevo le piccole
dita posarsi con leggerezza sul muschio. Infatti a noi non piace
muoverci molto, l’acquario è così
stretto”. Quindi il narratore ci parla dalle
profondità dell’acquario. La metamorfosi, del
resto, non è una sorpresa ma lo è, e
impressionante, scoprirne le specificità, che danno corpo a
un ancestrale terrore:
Senza transizione, senza sorpresa, vidi la mia faccia contro il vetro, la vidi fuori dall’acquario, la vidi dall’altra parte del vetro. Allora la mia faccia si staccò, e io compresi.
Una sola cosa era strana: continuare a pensare come prima,
sapere. Rendermi conto di ciò, fu simile
all’orrore del sepolto vivo che si sveglia al proprio destino.
Il
racconto mette dunque in scena l’annullamento del soggetto
intrappolato nell’inscalfibile immobilità degli
enigmatici axolotl. Eppure, come si vedrà nel finale,
all’esterno tutto resta invariato, axolotl e uomo continuano
a occupare il posto di sempre, perché quello che si consuma
attraverso il vetro è un mutamento tutto interiore:
Credo che in principio io fossi capace di tornare in un certo senso a lui - ah, solo in un certo senso - e mantenere sveglio il suo desiderio di conoscerci meglio. Ora sono definitivamente un axolotl, e se penso come un uomo è solo perché ogni axolotl pensa come un uomo chiuso nella propria immagine di pietra rosa.
La metamorfosi è ormai definitivamente compiuta. “Lui” non è più l’axolotl, ma l’uomo osservato dall’anfibio-pesce: la sorprendente alterazione dell’identità viene fissata una volta per tutte a livello verbale. C’è però nel finale un’ultima deviazione del racconto, che fa scaturire un senso inedito, l’ennesima sfida alla ragione:
Mi pare di essere riuscito a comunicargli qualcosa di tutto questo nei primi giorni, quando ero ancora lui. E in questa solitudine finale, alla quale ormai lui non torna, mi consola il pensiero che forse scriverà qualcosa su di noi, credendo di immaginare un racconto scriverà tutto questo sugli axolotl.
Ciò che abbiamo letto, dunque, è senza dubbio il racconto dell’axolotl (svanita ormai l’ambiguità sul narratore) ma è anche ciò che un giorno l’uomo scriverà, o almeno così spera l’animale dalla coscienza umana. È una storia che non è ancora stata scritta, ma che ci viene narrata nella sua completezza e così infatti noi la leggiamo... Teso tra passato e futuro, il racconto propone una temporalità impensabile. In tutti questi cortocircuiti logici, nell’impensabile e nell’insondabile - forme estreme dell’ignoto - risiede l’orrore.
LETTURE
— Cortázar Julio, I racconti, Torino, Einaudi – Gallimard 1994.