Mezzo bestia e mezzo uomo, “infamia di
Creti” (Alighieri, 1996) e punizione divina,
dall’unione fra le più riprovevoli che il Mito
abbia trasmesso nasce costretto nel parossismo dell’orrido
poetico il Minotauro.
Intreccio di stanze, gallerie
e curve senza alcuna via di uscita, sciagura e meraviglia concepita dal
genio prometeico di Dedalo nasce il leggendario Labirinto.
Minotauro
e Labirinto sono proiezioni allegoriche di cui Friedrich
Dürrenmatt si serve per rivelare lo smarrimento umano di
fronte alle attese deluse, e il suo è un racconto, una
trasposizione del mito greco ben diversa da quella operata dalla
teologia cristiana. L’essere che Pasifae, moglie del re
cretese Minosse, partorì dopo che “era stata
montata da un toro bianco”, si spoglia qui dell’ira
insensata che lo rese, nell’inferno dantesco, custode del
cerchio dei violenti. Si osserva, bensì, “il
farsi” dell’esistenza corporea, emozionale e
sensitiva di un mostro, dentro e attraverso un mostro architettonico
rivestito di specchi mistificanti. Ed è proprio il Labirinto
umbratile a suscitare nel lettore angoscia e terrore: esso esaspera
l’impenetrabilità della natura umana,
l’ambizione antropica di medesimezza e, al contempo, il
dramma della solitudine.
Vide davanti a sé un’infinità di esseri fatti com’era lui, e come si girò per non vederli più, un’altra infinità di esseri uguali a lui. Era come paralizzato. Non sapeva dov’era né cosa volevano quegli esseri accovacciati tutt’intorno, forse sognava soltanto, anche se non sapeva cosa fosse sogno e cosa realtà.
La penna dello scrittore svizzero descrive uno sprovveduto
Minotauro che, ingannato e isolato da uno spazio di innumerevoli
riflessi, non è capace di riconoscere il confine demarcatore
tra sé e le immagini di sé. Anzi, egli
attribuisce una presenza reale a quelle visioni, tutte identiche in
movimenti puerili e scomposti, fino a ritenere “di essere un
essere fra molti esseri uguali”. È insomma un
“sentire” senza “giudizio”, un
“rimettersi all’apparenza senza cercare di
possederla e di saperne la verità” (Merleau-Ponty,
2003). Questa rappresentazione sensibile dell’illusione, in
cui il Minotauro appare beffa delle sue stesse ombre, richiama al
pensiero il mito platonico della Caverna. Eppure non
c’è conoscenza qui che liberi dalla
schiavitù dell’impressione pura, non
c’è modo di approdare a un’idea distinta
e perfetta di sé e del mondo. Non si tratta tuttavia di
freddo e compiaciuto scetticismo: nel racconto di Dürrenmatt
il Minotauro, come proiezione della condizione umana, suscita
pietà ancor più che ribrezzo. Una
pietà narrata nella gioia di veder imitati i propri gesti,
gioia che diventa danza ritmica dell’essere con le sue
immagini, insieme specularmente identiche e inverse.
Seppure
riuscisse a identificare i fenomeni percettivi, a riconoscere in quegli
specchi il proprio duplicato, il suo resta un destino di desolazione,
senza alcuna via di fuga se non la morte. Lo conferma
l’incontro con l’alterità, il contatto
con “altra carne”. Come vuole il mito, infatti, al
Minotauro venivano dati in pasto ogni anno, come tributo della
città di Atene, sette giovani e sette fanciulle. In questo
inquietante passaggio, l’uomo-toro di Dürrenmatt
giunge ai margini della conoscenza.
E quando la fanciulla gli corse fra le braccia, quando toccò d’un tratto il suo corpo, la carne calda, bagnata di sudore e non il duro vetro che aveva fin lì toccato, comprese – nei limiti in cui si può parlare di comprendere da parte del minotauro – che fino a quel momento era vissuto in un mondo in cui c’erano solo minotauri, ciascuno rinchiuso in una prigione di vetro.
Incorporando l’altro prima attraverso una goffa
intimità sessuale poi cibandosi di esso, il Minotauro
apprende, in maniera confusa, il suo orizzonte d’esperienza.
Egli si fa mostruoso e orripilante quando la sua lunga lingua violacea
poggia sulla pelle bianca della fanciulla, in una unione che
“rende insopportabile il farsi uomo di quel
toro”.
Deformità che diventa
tale al cospetto della bellezza, e bellezza che diventa tale al
cospetto della deformità, Dürrenmatt racconta
così la tragedia dell’essere che non
può “decidere la propria
identità” (Remotti, 1996) perché
soggiogata dal brutale contrasto con l’esperienza altrui;
dell’essere che non può rivendicare come esito di
incontenibile felicità la brutalità perpetrata
sul corpo della fanciulla. Per arbitrio umano, si tratta invece di
incontenibile violenza, che legittima l’ultimo atto di
catarsi del diverso, dopo la prigionia nel prismatico Labirinto.
Sarà Teseo, figlio del re d’Atene, con
l’aiuto della sua amante, Arianna – peraltro
sorella del Minotauro – a liberare il suo popolo da quel
mostro.
In preda alla rabbia per la diffidenza, la
paura e la timorosa sfida con cui le vittime sacrificali si mostravano
a lui, lui che nel suo “innocente candore”
desiderava solo danzare con gli altri, dimenticando la sua condanna, il
Minotauro si scaglia alla cieca contro la prima ombra. Sfonda la parete
di vetro, la sua immagine si frantuma in innumerevoli schegge e avverte
così l’irrealtà di
quell’essere davanti a lui.
E un po’ per volta scoprì di essere di fronte a se stesso […]. Avvertì che non esistevano tanti minotauri ma un minotauro solo, che esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima né dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e rinchiuso insieme.
Dorme il Minotauro, spaccato dalle sue apparenze, stanco di
credere in quella sensazione appena intuita di fratellanza, di
amicizia, mentre Arianna avvolge il filo rosso attorno alle sue corna,
disponendo l’ultima insidia alle sue attese. E quando si
risveglia, disteso al suolo, scorge da quei piccoli occhi rossastri un
essere identico a lui, non più riflesso speculare di se
stesso, ma un altro minotauro le cui movenze non è in grado
di controllare, perché temporalmente dissimili dalle sue.
Non può presumere che sia il suo carnefice, Teseo, camuffato
da una testa di toro e non può nemmeno abbandonarsi al
sospetto di una trappola, tanto è il desiderio di un Tu che
gli mostri i sentieri dell’Io.
Ed è proprio in questo ultimo atto del racconto che
emergono le peggiori antinomie del vissuto umano.
E quando il minotauro si gettò tra le braccia aperte dell’altro, confidando di aver trovato un amico, un essere come lui, e quando le sue immagini si gettarono fra le immagini dell’altro, l’altro colpì e colpirono le sue immagini.
Se è vero
che l’identità si svela
nell’intersoggettività, se il giudizio prende
forma nella connessione tra realtà sempre incomplete,
è altrettanto vero che è proprio questo aspetto
relazionale a renderci soli. L’Io inerisce il Tu ma lo rende
inadeguato, malfatto, sempre abbozzato.
E ancora,
oltre e prima di quel pugnale dalla guaina di pelo inferto
all’uomo-toro, c’è un’altra
dualità insolvibile: è la raison vivante
degli impulsi, degli affetti appena accennati del Minotauro contro la raison
rationnelle del Labirinto, che vieta e così
annulla l’incertezza e la problematicità del
reale.
Il minotauro sognò amore, sicurezza, vicinanza, calore e contemporaneamente seppe di essere un anormale.
LETTURE
— Alighieri Dante, La Divina Commedia. Inferno, Angelo Signorelli Editore, Roma, 1996.
— Dürrenmatt Friedrich, Minotauro, in Romanzi e racconti, Einaudi, Torino, 1993.
— Merleau-Ponty Maurice, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003.
— Remotti Francesco, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari, 1996.
VISIONI
— Magritte René, La riproduzione vietata, 1937, riprodotto in Larkin David (a cura di), Magritte, Mondadori, Milano, 1972.