Quando la notte risale i muri
delle case abitate,
e penetra nelle stanze.
Poema a fumetti, Dino Buzzati
Siamo nella Milano del boom economico, in una
redazione giornalistica che potrebbe essere tranquillamente quella del Corriere
della Sera di via Solferino. Il protagonista è lo
stesso Buzzati, nel suo ruolo quotidiano,
“normale”, seppur celebre, di giornalista. Bastano
però poche righe perché le prime crepe comincino
a sgretolare una realtà rassicurante. Le coordinate
temporali alludono subito a un tempo fantastico: “A
mezzogiorno circa il direttore arrivò, io mi presentai, era
il 37 aprile, aveva ricominciato a piovere”.
Il
giornalista Buzzati pensa che vogliano spedirlo a fare il
corrispondente da Cipro, ma il direttore ha in mente ben altro,
“qualcosa di più… di
più…”. Ancora qualche esitazione, il
direttore non vuole sbottonarsi, poi, poco dopo:
“Giù dalle scale, alle mie spalle, un passo
precipitoso e ritmico, oh quel passo, io lo sapevo da quando ero
bambino, che mi avrebbe preso e sbaragliato. Disse: «Il
direttore la desidera»”. Nell’incarico
che lo aspetta, il giornalista avverte tutto il peso del destino. Poche
righe dopo, l’assurdo, l’indicibile irrompe nella
consuetudine di un grigio ufficio milanese: durante gli scavi per la
metropolitana milanese, un operaio, un certo Torriani, ha scoperto
“la porta dell’inferno”. Anzi, degli
“inferni”. In apparenza, hanno riferito al
direttore, nulla a che vedere con altri inferni ben noti: lì
“è tutto come qui da noi, e gli uomini sono di
carne ed ossa, mica come quelli di Dante. Vestiti come noi. E dice che
è una città come le nostre con luce elettrica e
automobili […] le case e i bar i cinema i negozi”.
Nonostante le rassicurazioni, Buzzati ha paura, si rende conto
“che la famosa porta stava aprendosi”.
Buzzati incontra Torriani e Vicedomini, ingegneri che lavorano
alla Metropolitana Milanese. Dopo qualche ritrosia – e
perciò il temporaneo sollievo del giornalista –
viene svelato il luogo dove si aprirebbe un passaggio, una porta: in
fondo a una galleria in costruzione, presso la stazione di piazza
Amendola. È tutto vero: il giornalista segue una galleria e
risale una scaletta, e si ritrova in un mondo a parte, ma del tutto
simile al nostro. “Niente di infernale e
diabolico”. La gente, le strade, le case, i negozi. Semmai,
l’inferno è una trasfigurazione, neppure
così lontana dalla realtà, delle nostre
città: i suoi abitanti sono imprigionati in un
“gigantesco ingorgo” di cui non si vede la fine;
gli occupanti delle auto “non sembravano ombre
bensì individui in carne ed ossa. Con le mani sul volante,
immobili, sulle facce pallide una ottusa atonia come per effetto di
stupefacenti […] Pallidi, svuotati, castigati e vinti.
Allora mi chiesi: è forse questo il segno che siamo
veramente all’Inferno? O incubi del genere avvengono
abitualmente anche nelle città dei vivi?”.
Buzzati
viene prelevato dalle “diavolesse”, capeggiate
dalla signora Belzeboth, “alta vestita di un tailleur grigio
ferro stretto in vita, una donna sui quarant’anni, molto
bella […] una faccia da statua greca, ferma, autoritaria,
sicura di sé”. Le diavolesse sono terribili e
moderne amazzoni che manovrano oscuramente i destini dei dannati da una
sala di comando dal sapore vagamente fantascientifico. In un clima che
ricorda la colpa ancestrale e indefinita delle parabole kafkiane, il
nostro Dante scopre di essere già dannato:
“«E io… Io dunque sarei
dannato?» «Penso di sì.»
«Che cosa ho fatto di male?» «Non lo
so» disse. «Non ha importanza. Tu sei dannato
perché sei fatto così. I tipi come te
l’inferno se lo portano dentro fin da
bambini…»”.
Da qui si spalanca
una serie di spaventosi gironi novecenteschi, tableaux vivants
della desolazione umana, cui Buzzati assiste da alcuni schermi. Ci sono
“Le accelerazioni”, dove l’ingegner
Tiraboschi, prototipo del professionista affermato e indaffaratissimo,
viene maneggiato dalle diavolesse come “un burattino
folle”, fino all’“accelerazione ultima,
il vortice, la cateratta dell’estremo
dì”. E poi ci sono le
“solitudini”, forse la parte più
riuscita del racconto, con quello sbirciare oltre i muri e le finestre
dei palazzi che per Buzzati doveva essere un’ossessione:
“Che strane case laggiù all’Inferno,
là dove mi avevano messo ad abitare. Dalla parte davanti era
uno spettacolo bellissimo”. Ma è solo
un’illusione. Perché “l’altra
parte della casa, la parte di dentro, le viscere le budella i segreti
dell’uomo […] luce di gesso grigia uniforme nel
cortile che si inabissa alle due e mezza due e tre quarti del
pomeriggio. […] Qui nel cortile dei condominii universali le
aride solitudini nostre vostre”. Nella carrellata di
“solitudini”, una per ogni piano di un condominio,
Buzzati rivede “un vecchio amico”, che a uno
sguardo più attento si rivela l’autore stesso: al
quinto piano nota una figura, un uomo, “non dico che
esistesse veramente: c’era. La luce morta del cavedio se ne
stava andando come il cameriere decrepito del vecchio caffè
quanto parte l’ultimo cliente”.
Alla
fine, tutte le anime condannate a vivere le une accanto alle altre ma
nella più desolante solitudine si ritrovano a un surreale
ricevimento, e quando la festa sembra avere inizio, “tutti
fecero un moto con la bocca a guisa di pesci morenti, invocando forse
un po’ d’aria. […] Ma nessuno si
liberava, nessuno era capace di uscire dalla casa di ferro in cui si
trovava chiuso fin dalla nascita, dall’orgogliosa cretina
scatola della vita”.
Nell’inferno parallelo si celebra la festa
dell’Entrümpelung, allegra ricorrenza di primavera
che ricorda i capodanni nostrani, con tanto di lancio dalle finestre di
ogni genere di cianfrusaglie, ferrivecchi e immondizie inutili. Stessa
fine, però, fanno anche gli anziani, ormai inservibili
perché incapaci “di correre, di rompere, di
odiare, di fare l’amore”. E quindi vengono
eliminati per poi essere buttati nelle fogne dagli
“incaricati dell’autorità
municipale”, con indifferenza e crudeltà
indicibili: il capitano d’industria Schrumpf viene appeso
“come un maiale” e linciato, e “dopo una
ventina di colpi ha già perso gli occhiali, i denti, i
sensi”; la “Zia Tussi” viene trascinata
giù per le scale dai suoi familiari, “lasciando
che sbatta malamente di gradino in gradino, con brutto rumore di
ossa” .
Buzzati prosegue la sua disperata
esplorazione. Tutto non fa che confermargli lucidamente
l’assoluta somiglianza degli inferi con la vita
“normale”, ma, appena sotto la superficie,
“basta pochissimo e subito si avverte una indifferenza, una
lontananza, una freddezza impassibile e grigia”. Il
giornalista ci ripensa, e conclude che dopotutto la somiglianza
è totale, non solo superficiale, con Milano –
“dico Milano per dire la città nostra, di ciascuno
di noi, la città della solita vita”. Ma
l’inferno offre qualche possibilità per
trasformarsi. Buzzati si descrive “timido, gracile,
deteriorato e sprovveduto”, col “complesso di
inferiorità e il mento sfuggente”, ma risolve
tutto acquistando un’auto. Una “Bull
370”, “una biposto, ma non sportiva”:
“Da quando la guido, sono un altro”. Buzzati si
sente più bello, più sicuro, più
importante, più spavaldo: “una belva, un Nembo
Kid”. Le strade diventano a poco a poco un’arena,
il luogo per eccellenza dove dimostrare la propria forza. Ma
c’è un segreto: all’inferno il volante
delle auto viene trattato con una speciale vernice, “una
droga simile a quella che scatenava i torbidi istinti del dottor
Jekyll”, in grado di trasformare persone miti e remissive in
“manigoldi brutali e bestemmiatori appena sono alla guida di
un’auto”. Il protagonista gira per la
città in cerca di risse, di vittime della propria belluina
tracotanza, e nemmeno lui sa perché: “Che cosa mi
sta accadendo? […] Perché questa
voluttà di sopraffazione e ingiustizia? Chi mi ha stregato?
Io sono la cattiveria, la vigliaccheria, la foresta. Sono schifosamente
felice”. È solo la sera, quando Buzzati rientra
nella “solitudine immensa” della sua casa e ripensa
a tutto questo, che riemerge Mr Hyde: “Io mi spavento. Dunque
l’Inferno è penetrato in me, nel sangue, io godo
del male e della mortificazione altrui […] spesso vorrei
frustare, battere, dilaniare, uccidere”.
L’ultima parte del racconto, “Il
giardino”, si apre con un barlume di speranza: un giardino,
unico in mezzo alla metropoli, dove il sole risplende davvero, dove
“tutto era lieto, felice, perfetto, tale e quale certi quadri
un po’ leziosi dell’ottocento tedesco”.
Ma basta poco a cancellare tutto. Fa sorridere amaramente il modo in
cui l’amministrazione cittadina distrugge pezzo dopo pezzo
quell’angolo di paradiso. Evidentemente ciò che
accade oggi a Milano e in molte altre città italiane non era
nuovo neppure a Buzzati negli anni Sessanta, ma è scioccante
(perché così attuale) leggere come, da una parte,
le “autorità” fagocitino mostruosamente
e del tutto legittimamente il giardino, e dall’altra le
stesse autorità, nella figura del professor Massinka,
assessore ai parchi e giardini, esplodano “in irruenti
proteste contro lo scempio delle ultime superstiti oasi di
verde”, riuscendo a “convincere tutti gli astanti
che la salvezza del pochissimo verde residuo nella città era
questione di vita o di morte”. Intanto, “una specie
di rinoceronte meccanico sfondava il muro di cinta […] con
le sue braccia a forma di falce, di tenaglia, di denti, di odio e di
distruzione”, nel “fracasso frenetico dei
bull-dozers sitibondi di selvaggia rovina”. E poi una
sentenza che non ha bisogno di nessun commento: “E si diffuse
un acuto odore di manovra elettorale”. Miasmi e
contraddizioni a cui siamo fin troppo abituati.
Il giardino
paradisiaco si riduce via via a simbolo stesso dell’inferno e
della sua devastazione endogena e cancerogena, un “funesto
buco, un angusto pozzo nudo e grigio […] laggiù
il sole non sarebbe arrivato mai più […] e
neppure il silenzio, né il gusto di vivere. Nemmeno il cielo
si poteva vedere dal sinistro cortiletto, neppure un minuscolo
fazzoletto del cielo, tanti erano i fili e i cavi che si intrecciavano
[…] per il trionfo dei progressi e delle
automazioni”.
I sospetti e le diffidenze
dell’inizio si trasformano, al termine del racconto, nello
sconforto e nella conferma di quei presagi: “E poi, a me
stesso che ci sono stato, non è ben chiaro se
l’Inferno sia proprio di là […] mi
domando anzi se per caso l’Inferno non sia tutto di qui, e io
mi ci trovi ancora, e che non sia solamente punizione, che non sia
castigo, ma semplicemente il nostro misterioso destino”. La
colpa kafkiana si è risolta in un puro meccanicismo senza
sbocchi.
Come in tanti altri casi, queste pagine trasudano
letteralmente del più tipico pessimismo buzzatiano, laico e
così profondo da escludere ogni speranza. Neppure il
fantastico, l’assurdo sembrano suggerire un antidoto, una
fuga, anzi sono la conferma di un reale crudo e inesplicabile. Il tema
della “porta”, del “passaggio”
(“la bocca nera dell’abisso”) verso un
mondo altro (e perlopiù negativo, spaventoso) ricorre spesso
nei racconti e nei quadri di Buzzati. Ad esempio nella Stanza
(1968) (Ferrari, 2006), definita dall’autore una
“cronaca figurata”, dove una sagoma umana
stilizzata si spinge inutilmente verso una porta che rimpicciolisce e
scompare. Oppure in una “vignetta” ritrovata a
margine di una pagina d’agenda, dove un uomo curvo sul
bastone si dirige verso una porta, la “Soglia
estrema”: in questo caso, il “passaggio”
coincide con la morte, ultima ossessione dell’autore, di cui
tutti gli altri “cunicoli”, anfratti e pertugi che
si spalancano su altri mondi sono una prefigurazione, un anticipo,
forse un avvertimento. Sempre in Buzzati aleggia la percezione di un
“altrove” misterioso, una dimensione parallela, in
cui spesso i suoi personaggi cadono, o da cui sentono attratti, e quasi
sempre si tratta della città, o di una città
dentro la città, come in Un amore:
“Il groviglio fantastico dei camini sul tetto, la perdizione
dei cavedi che si inabissano […] tutta la densità
di vite che fermentano e mai si sa mai si saprà in una
specie di rombo silenzioso, già scendeva la notte i lumi qua
e là ma in alto ancora tutte le case nere, enigmatici
profili fumiganti di caligine lui era sul bordo di una fossa immensa e
lunga…” (Buzzati, 1965). Come nel Viaggio
agli inferni del secolo, in Poema a fumetti
il baratro si spalanca in un punto toponomasticamente fantastico (ma
preciso), in via Saterna, tra via Solferino e largo La Foppa: un
ennesimo inferno, ma a forti tinte sadico-erotiche.
Un altro aspetto che accomuna narrativa e immagine,
probabilmente derivato dall’esperienza giornalistica,
è la semplicità del tratto, linguistico o
pittorico che sia: “«È legge rigorosa
che per esprimere un concetto fantastico occorra un linguaggio
estremamente preciso, nudo, senza frange e svolazzi».
Insomma, «quanto più fantastico il tema, tanto
più preciso deve essere il linguaggio»”
(Ferrari, 2006). Per questo i quadri di Buzzati ricordano spesso De
Chirico, per quell’elemento magico e al tempo stesso
straniante che percorre le sue piazze, case, strade desolate.
Indimenticabili sono certi palazzi anonimi che fanno da sfondo a figure
enigmatiche, come il volto accigliato di Primo amore,
opera del 1930; difficile non accostarvi pure i “paesaggi
urbani” che Mario Sironi dipingeva negli anni Venti. Ma
mentre Sironi si ispira all’architettura delle periferie
industriali, fatte di binari, capannoni, grigiori suburbani, gli
scenari di Buzzati evocano una metropoli tetramente metafisica,
onirica, mentale, dove la distinzione tra centro e periferia perde di
senso.
Alla mappa reale se ne sovrappone quindi
un’altra, a metà tra il fantastico, il
fantascientifico e lo psicologico, ma da cui non riesce in fondo a
staccarsi o a distinguersi. Una realtà nascosta, parallela,
perennemente in agguato, oppure così vicina, familiare, fino
a confonderne e renderne indecifrabile il mistero. È
l’inquietudine strisciante che diventa incubo palpabile negli
“inferni del secolo”.
Forse Buzzati
intendeva dirci che non dobbiamo andare molto lontano per trovare il
mostruoso. Non in mondi lontani e fantascientifici, ma sotto casa,
nelle nostre città, o nei meandri della nostra
immaginazione. I demoni interiori dello scrittore trovano sfogo nel
mostruoso della porta accanto. Per questo il
“fantastico”, l’altro,
l’indicibile spesso assumono forme quotidiane (quando questo
non accade, la prospettiva si capovolge radicalmente: si pensi solo al Segreto
del bosco vecchio, o La famosa invasione degli orsi
in Sicilia, dove Buzzati sceglie deliberatamente il fiabesco
e il leggendario). Per Buzzati, lo straniamento più
autentico è lì, a portata di mano, nelle
“cose” silenziose, assorte nel loro mistero. Il
linguaggio del racconto è, di conseguenza, semplice,
distaccato, perfino dimesso. Negli innumerevoli inferni descritti,
raccontati e dipinti da Buzzati non c’è nulla di
eccezionale, iperbolico, o metafisicamente dantesco. Tutto sembra
perfettamente normale e opaco. E forse aveva proprio ragione.
LETTURE
— Buzzati Dino, Viaggio agli inferni del secolo, in Il colombre, Mondadori, Milano, 1992.
— Buzzati Dino, Poema a fumetti, Mondadori, Milano, 1991.
— Buzzati Dino, Un amore, Mondadori, Milano, 1965.
— Ferrari Maria Teresa (a cura di), Buzzati racconta. Storie disegnate e dipinte, Electa, Milano, 2006.