Secondo alcuni, ogni racconto letterario è mosso e
generato dalla paura, perché la necessità della
narrazione deriva direttamente dallo scarto, dal divario tra
l’inizio di un accadimento e l’inquietudine che ne
scaturisce finché questo accadimento non giunge a
compimento. Ma forse nessun genere, letterario o cinematografico
– thriller, horror, pulp, splatter, fantasy vampireschi,
polizieschi dei più efferati e violenti –, supera
l’effetto di straniamento e alienazione delle
facoltà mentali, e quindi genera paura, di certa
fantascienza. Di cui il maestro indiscusso e insuperabile fu Philip K.
Dick, il cui racconto Impostore (ma molti altri
se ne potrebbero portare ad esempio, da
Minority Report a Total Recall) rappresenta
la summa della sua poetica
dell’assurdità dell’esistenza umana e
del repentino dissolversi della trama del reale. Ma altri esempi sono i
telefilm della serie televisiva americana degli anni Cinquanta
intitolata Ai confini della Realtà,
sceneggiati da scrittori come Richard Matheson e Ray Bradbury.
Così come i racconti di Alfred E. Van Vogt: leggerne le
prime pagine e decidere di chiudere per sempre un suo libro
è una decisione in certi casi utile, e qui siamo
già ai confini della paura del “fuor di
sesto”, a salvaguardare la propria salute psichica.
Perché
con la fantascienza non sono in gioco la nostra conoscenza e le nostre
previsioni per il futuro, più o meno avveniristico o
ipertecnologico, quanto il nostro rapporto con
l’identità. Che il trasporre in un tempo di
là da venire, e perciò stesso sconosciuto e
incerto, non rende meno angosciante e perturbante, anzi, semmai di
più, in quanto vi si proiettano l’incertezza,
l’ansia e le paure quotidiane. E chi meglio di uno scrittore
che ebbe più di un rapporto con sostanze psichedeliche e fu
portato da sua madre, a un certo punto della sua vita, da uno
psichiatra, che però lo trovò perfettamente sano,
può incarnare il mito di questa alienazione, mentale e
sociale?
Philip Dick riassume in sé il paradigma
dell’autore “maledetto”, quasi
misconosciuto in vita, la cui grandezza si può riassumere
nel modo in cui interpretò il tema del doppio, della
relatività della conoscenza,
dell’impossibilità di conoscere la
verità e individuare il reale, come si vede argomenti di
natura prettamente filosofica (e molta della sua formazione scolastica
e personale lo fu), incarnandolo in soggetti e trame di cui sono
protagonisti i replicanti, gli androidi, robot che hanno preso il posto
degli umani senza che questi ultimi lo sappiano.
A prima
vista, questa idea, soprattutto oggi che la questione è
diventata l’opposto, e cioè gli uomini che
diventano macchine, potrebbe parere un po’ puerile e
soprattutto superata dal nuovo immaginario dei computer e della rete,
che ha smaterializzato i rapporti tra le persone rendendoli ancora
più evanescenti, incerti e aleatori delle invenzioni di Dick.
Invece
il suo insegnamento è valido ancora adesso perché
ci svela delle costanti dell’animo umano, inclusi i
meccanismi dell’insorgere della paura. Nel duplice
significato dei timori, anzi dello spavento, del terrore, cui sono
esposti i personaggi dei suoi racconti, ancor più che dei
suoi romanzi, nello svolgersi delle vicende che li vedono protagonisti,
e della paura che fanno nascere nel lettore, quando non anche
nell’autore stesso (in una postilla a La formica
elettrica, altra narrazione breve sul tema
dell’(in)esistenza della realtà esterna, in quanto
veramente esistente o mera proiezione della nostra mente, è
Dick stesso che si dichiara sconvolto nel rileggere il finale di questo
suo racconto).
Il fatto è che questo autore ha
svelato i meccanismi con cui certe persone percepiscono più
di altre le minacce e la cattiveria delle azioni altrui, che sono
sempre sovradeterminate dalla inautenticità della
società in cui si vive – che sia quella degli anni
Cinquanta, decennio di massima prolificità della sua
scrittura, che siano quelle che si sono succedute fino ad oggi,
perché sempre dominate dalla ricerca del profitto
– patendone le conseguenze in termini di profondo
disadattamento.
Impostore, racconto del 1953, che
è stato inserito anche ne Le Meraviglie
del possibile, Antologia della fantascienza,
a cura di Sergio Solmi e Carlo Fruttero, e da
cui è stato tratto nel 2002 il film
omonimo per la regia di Gary Fleder, riunisce le
due tematiche (relativismo delle nostre certezze – ma
soprattutto: “siamo veramente umani o siamo programmati per
credere di esserlo?” – e pericolosità
del prossimo) svolgendole in una trama che tiene sospeso il lettore
sino al finale, come ovviamente tutti i racconti che si rispettino, ma
con un di più eccezionale. E
cioè l’opera destabilizzante di chi sa –
e chissà come mai lo sapeva? – che non possiamo
mai essere sicuri della realtà che ci circonda e perfino di
chi siamo veramente.
Come non lo sa il protagonista di questo
racconto, l’impostore, che
potrebbe essere sia l’umano da difendere
dall’appropriazione delle sue sembianze da parte di un robot
venuto sulla Terra per distruggerla, sia il robot stesso che queste
sembianze ha già preso, come pensano gli agenti dei servizi
segreti a difesa del pianeta. Costoro verranno tutti fatti morire in
un’esplosione quando verrà pronunciata una
determinata frase. Naturalmente non ci sarà happy end, ma lo
straniamento e il senso del “fuor di sesto”
è provocato soprattutto dall’incertezza
sull’identità del protagonista, che egli stesso
coltiva pur essendo sicuro di essere se stesso.
Fino a quando,
in una radura del bosco vicino a casa sua, non verranno trovati i resti
dell’astronave sui cui viaggiava il replicante, e il
replicante stesso, a quanto parrebbe, perché nel petto
squarciato vi luccica una parte metallica. Invece è il
coltello con il quale il protagonista è stato ucciso
dall’androide: lo scambio è avvenuto quindi e il
protagonista non potrà sottrarsi al destino di saltare in
aria con i suoi amici perché lui, in quanto robot
programmato proprio per questo, pronuncerà alla fine la
frase fatale.
Una suspense dalla carica ineguagliabile, capace
di generare paura ma anche di innescare processi sociali e mentali
irreversibili. E cioè quelli della paranoia, che non
è una malattia mentale, ma la capacità di alcuni
individui estremamente sensibili di “cogliere la profonda
essenza maligna di tutte le relazioni umane, anche quelle animate dalle
più buone intenzioni, in quanto irrimediabilmente avvelenate
dall’inautenticità del mondo in cui siamo
condannati a vivere” come ha scritto Carlo Formenti
recensendo sul “Corriere della Sera”
l’ultimo romanzo inedito di Dick, Lo stravagante
mondo di Mr. Ferguson. Dove ritornano i leit motiv della
letteratura di questo scrittore e cioè
“l’insensatezza dell’esperienza umana e
lo slabbrarsi del tessuto della realtà; la ricerca
dell’assurdo e del surreale che viene associata nella sua sf
a dispositivi di simulazione tecnologica”.
Una
letteratura che è il naturale complemento e sottofondo allo
svolgersi dei rapporti umani in una società, come tutte, ma
soprattutto come quella che si andava delineando a partire dagli anni
Cinquanta e cioè la società dei consumi, dove la
malignità dei rapporti tra gli uomini si esplica nella
ricerca del profitto e del benessere individuale ad ogni costo, anche a
scapito degli altri, rendendoci più artificiali e
artificiosi degli stessi simulacri tecnologici inventati da Dick. Fino
ad arrivare agli estremi in cui ci troviamo adesso.
C’è
infatti chi sostiene che la “società della
stanchezza” o
dell’“eccitazione”, come
l’hanno chiamata due sociologi dei nostri tempi, in cui vive
oggi l’individuo occidentale (ma se è per quello,
anche l’asiatico affluente, difatti uno dei due sociologi
citati è coreano, Byung-Chul Han, mentre l’altro
è il tedesco Christoph Turcke), sia frutto della scarsa
avvedutezza della generazione di chi ha adesso quarant’anni,
ed era giovane negli anni Ottanta, quelli del riflusso e
dell’individualismo, che spesso senza portare a casa
risultati positivi nemmeno per sé, non hanno però
soprattutto pensato ai figli e ai figli dei propri figli.
Cioè
non affrontando i nodi irrisolti di una società border line
che genera ansie da border line: l’ansia era la malattia del
secolo nel Novecento, ma lo è ancora adesso, anche
perché nel Novecento ci siamo ancora; del resto il re
/Lucertola/ della psichedelia aveva già detto:
“People are strange when you are stranger” (The
Doors, 2007). E il gioco (della paura) è fatto.
Chi ha letto l’Antologia della letteratura
fantastica di Jorge Luis Borges, Silvina Ocampo e Adolfo Bioy
Casares, e soprattutto Le meraviglie del possibile, Antologia
della fantascienza, con l’introduzione di Sergio
Solmi, sa naturalmente che l’humus di cui si nutrono racconti
come questi è la volontà di spiazzare il lettore
mettendolo di fronte a una visione onirica della realtà, che
spesso – sempre – è la realtà
onirica stessa degli autori.
Con il duplice effetto di
fabbricare universi futuri e /o paralleli e di creare nella mente del
lettore il sospetto che esistano davvero. Se poi il lettore
è dotato di una speciale attività di quelli che
adesso gli scienziati neurobiologi hanno scoperto essere i neuroni
specchio… E se poi la fisica quantistica contemporanea
conferma l’esistenza dei mondi paralleli…
Niente di tutto ciò si sapeva negli anni Cinquanta,
o forse già sì? E se ne aveva più
paura una volta, che tutto pareva frutto di fantasie, o adesso, che
sembra tutto così spiegabile? La differenza oggi
è che la fantasia, come sempre, è stata superata
dalla realtà. Ma è la realtà asettica
dei laboratori e delle ricerche scientifiche. Che, anche se a dire il
vero tanto asettica non è (“non lasciare che i
fatti rovinino una bella storia”, il motto del giornalismo
inglese vale anche per gli scienziati), con la sua concretezza
sperimentale svuota questo tipo di narrazione dal suo senso di
vertigine. Il senso di vertigine (e di paura) che nei racconti di Dick
era più reale del reale stesso scoperto adesso.
D’altra
parte, “se questo mondo vi sembra spietato, dovreste vedere
cosa sono gli altri”. E se la perdita di senso e di
significato di ciò che ci circonda comunemente fa parte sia
dell’immaginario letterario della fantascienza, sia del
bagaglio di esperienza clinica di uno psicotico, il punto di contatto
tra le due cose può realmente far paura. Philip K. Dick,
però, fu trovato perfettamente normale e in salute dallo
psichiatra che lo visitò e, a parte qualche confidenza con
gli allucinogeni, traeva la materia del suo scrivere, un continuo
andare a venire dal multiverso, principalmente dalle sue riflessioni
filosofiche (studiò filosofia anche a livello universitario).
E
non c’è bisogno di ricordare Friedrich Nietzsche,
secondo il quale il peso della realtà e
dell’esistenza può essere sopportato solo a patto
di essere un essere superiore a quello delle vite comuni
(cioè o un artista o il famoso
“Superuomo”); e questo perché la
verità è talmente relativa che tutti possono
avere ragione, ma la ragione ce l’ha sempre il più
forte. Al che o ci si rifugia nel mondo estetico e della
creatività o si è, a proprio rischio e pericolo,
superuomini.
Anche il mondo degli universi paralleli
della fantascienza è il mondo della relatività
della verità, con la prospettiva di dover sempre soccombere
di fronte alla forza (e Atto di forza è
il titolo di un film con Arnold Schwarzenegger tratto da un altro
racconto di Dick). E non se ne esce se non con l’ironia, per
esempio, di un John Belushi che apparentemente in modo umoristico, ma
in realtà profondamente serio, ebbe a dire: “Non
può essere tutto qui, è impossibile, ci deve
essere qualcosa di più, qualcos’altro”.
Se
infatti il mondo è il coacervo di conformismi e ipocrisia
che tutti conosciamo, meglio sognare che ci sia
qualcos’altro, anche a rischio di morire pazzi in sella a un
cavallo o di overdose all’hotel Chateau Marmont di Los
Angeles. Oppure ci si infila in un cunicolo spazio temporale, wormhole,
e si sta a vedere cosa succede. Ma la paura resta. Anche
perché, con Sylvia Plath (1998):
Morire
è un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in maniera eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
LETTURE
— AA.VV., Le meraviglie
del possibile, Antologia della fantascienza, edizione a cura
di Solmi Sergio e Fruttero Carlo,
Einaudi, Torino, 2009.
— Belushi John, D lo domanda a …, in “D. La Repubblica delle Donne”, 25 febbraio 2012.
— Borges Jorge Luis, Ocampo Silvina, Bioy Casares Adolfo, Antologia della letteratura fantastica, Einaudi, Torino, 2007.
— Cerami Vincenzo, Il seme della paura genera storie, in “Domenica del Sole 24 Ore”, 13 maggio 2012.
— Chul Han B., La società della stanchezza, Nottetempo, Roma, 2012.
— Dick Philip K., Se questo mondo vi sembra spietato, dovreste vedere cosa sono gli altri, Edizioni e/o, Roma, 1996.
— Dick Philip K., Rapporto di minoranza e altri racconti, Fanucci Editore, Roma, 2002.
— Dick Philip K., Vita breve e felice di uno scrittore di fantascienza, Feltrinelli, Milano, 1997.
— Formenti Carlo, Il primo Dick, che non credeva alla gratitudine, in “Corriere della Sera”, 4 aprile 2012.
— Nietzsche Friedrich, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1986.
— Perniola Mario, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino, 2004.
— Plath Sylvia, Lady Lazarus e altre poesie, Mondadori, Milano, 1998.
— Türcke Christoph, La società eccitata, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
— Van Vogt Alfred Elton, Mente Suprema, Nord, Milano, 1978.
VISIONI
— Verhoeven Paul, Total Recall, Universal Pictures, 2009.
— Spielberg Steven, Minority Report, 20thCentury Fox Home Entertainement, 2010.
ASCOLTI
— The Doors, Strange Days, Rhino Records, 2007.