Il breve racconto di Herman Melville, Bartleby lo
scrivano, ci proietta nella Wall Street di metà
Ottocento, strada che si apprestava allora a divenire il fulcro
dell’economia finanziaria statunitense e poi internazionale.
Qui
ci sono gli uffici di un modesto avvocato – che assume il
ruolo di narratore. Ottenuto l’incarico di Magistrato della
Cancelleria, egli deve far fronte a una consistente crescita della mole
di lavoro, tanto da essere costretto ad ampliare la schiera dei suoi
dipendenti assumendo un terzo copista legale.
È
così che irrompe sulla scena Bartleby, il nuovo scrivano.
Taciturno, garbato, per quanto refrattario ad ogni forma di interazione
colloquiale, all’inizio egli sembra interpretare il suo
scialbo lavoro con energica laboriosità. Si immerge,
infatti, nella copia dei documenti legali con zelo vorace. Ma dopo
pochissimo tempo prenderà le distanze dai suoi doveri
lavorativi, rifiutandosi prima di controllare l’esattezza
delle copie con i colleghi e l’avvocato, poi gradualmente di
adempiere ad ogni sua funzione.
Ogni sollecitazione,
ogni richiesta ottiene la stessa riposta: “avrei preferenza
di no”. Quest’espressione diviene una cantilena
ossessiva con cui Bartleby progressivamente si allontana da qualsiasi
impegno sociale, chiudendosi in un rigoroso e inoppugnabile solipsismo.
Egli
oppone all’operosità del suo impiego un ozio
ostinato e convinto, si limita ad osservare il triste e opprimente muro
che si scorge dalla finestra dell’ufficio, luogo che non
abbandona nonostante le continue, quasi supplichevoli, invocazioni
dell’avvocato. Anzi, si insedia lì notte e giorno,
costringendo l’attonito, esitante, debole – e in
qualche misura compassionevole – datore di lavoro a spostare
altrove i suoi uffici.
Siamo di fronte quasi ad una forma di
autismo sociale, condita da un risoluto diniego
dell’integrazione. Ma non si tratta di una semplice patologia
personale. Anzi, in Bartleby è possibile scorgere il punto
estremo, se vogliamo, delle istanze dell’individuo e della
sua autonomia – ovvero il culmine, finanche esasperato, di
quel processo di individualizzazione che ha caratterizzato la
modernità occidentale. Egli rivendica
un’indipendenza totale nei confronti delle aspettative
sociali, la sua caparbia inoperosità mette in crisi
qualsiasi istituzione, vanifica ogni routine consolidata.
Quasi
una versione conclusiva del modello mitico proposto da Sofocle, che
contrappone Antigone a Creonte, ovvero il bisogno individuale
– seppur in questo caso di derivazione divina –
alle leggi, alle usanze, alla volontà sociale.
D’altronde,
dello scrivano nessuno conosce le generalità, dei documenti
d’identità nemmeno l’ombra. Sembra,
dunque, essere sfuggito perfino alla certificazione identitaria con cui
lo Stato burocratico moderno registra e amministra i suoi membri,
dotandoli di connotati in qualche misura oggettivi – dalla
data di nascita a quella del battesimo, dalle caratteristiche fisiche
all’occupazione, eccetera (Pecchinenda, 2006). Tra
società e individuo, in pratica, sembra aprirsi una
spaccatura difficilmente colmabile, di cui il nostro scrivano si erge a
vivido emblema.
Così, alla stregua degli
esperimenti di rottura – cari all’etnometodologia
di Harold Garfinkel (1967) – Bartleby disattende
ciò che si dà per scontato nelle relazioni
sociali e nelle pratiche ordinarie della vita quotidiana. Per questo
genera negli altri perplessità, ansia, ostilità,
ma anche indecisione e imbarazzo, dal momento che è
difficile orientarsi ed interagire con lui. In qualche modo
è la società intera a sentirsi sotto minaccia,
tanto che lo spaesamento è la sensazione
emergente e dominante dell’intera faccenda.
Non si
può negare a Bartleby il diritto di preferire anche il non
far nulla, ma come si integra ciò con gli standard sociali?
Abbiamo dinanzi a noi una contraddizione insanabile, tra
libertà e dipendenza, tra celebrazione
dell’individuo e attese sociali. Grazie al nostro scrivano
questa incoerenza – che è poi insita in ogni
livello della società, in fondo – guadagna una
ribalta incontestabile, tanto da creare lacerante confusione.
Se il perturbante è
l’inquietudine di fronte a una realtà estranea e
familiare allo stesso tempo, questo testardo ed estremo individualismo
non produce effetti simili? Il familiare diritto
all’autonomia crea infatti una sensazione di
estraneità, di inesorabile contrarietà, quando
mette in discussione la realtà che consideriamo scontata,
naturale, prevedibile, indiscutibile. E che, a conti fatti, si mostra
ora per quello che è: un mero artificio sociale.
Non
a caso, lo scrivano verrà imprigionato perché
considerato un vagabondo, ovvero – presumibilmente
– l’estraneo per eccellenza: colui che è
sempre fuori posto, non ha legami, non rientra in nessuna delle
categorie con cui diamo ordine all’esistenza, alle
appartenenze, ai rapporti sociali. Non è accolto, insomma,
nei quadri cognitivi con cui incorniciamo il mondo e che ci danno
sicurezza, perché ci consentono di orientarci facilmente in
esso. Per questo proviamo inquietudine e diffidenza, per questo ce ne
teniamo lontani. E il carcere, in quanto istituzione totale,
rappresenta appunto il tentativo più compiuto di strutturare
un controllo completo sulla vita degli individui.
Se poi
esaminiamo il racconto di Melville nel dettaglio, emerge come il
rifiuto di Bartleby metta in scena un distacco evidente nei confronti
di alcuni pilastri specifici dell’intera società
moderna.
Innanzitutto, il suo ozio diventa il contraltare
manifesto di molte delle qualità tipiche della borghesia,
ovvero della classe guida della modernità: la disciplina, la
fermezza, il rigore, la puntualità, il rispetto dei
contratti (Simmel, 1984; Sombart, 1983). Preferire di no vuol dire
quindi evadere dalla stringente etica borghese, e in parte fuggire
dalle castranti maglie della razionalità strumentale.
Se
il motto dello spirito borghese è il frankliniano
“il tempo è denaro”, perdersi
nell’inattività significa negare di configurare
l’esistenza sulla base del paradigma della
produttività, negare di rimanere soggetti a quelle
astrazioni – il tempo e il denaro, per l’appunto
– che rendono tutta la realtà umana misurabile,
standardizzata, priva di qualità (Simmel, 1984). Ecco che il
nostro scrivano, seguendo ciecamente un impulso all’inazione,
potrebbe a modo suo essere comparato a tutti coloro che, tra
l’Otto e il Novecento, deplorano il carattere anonimo,
impersonale, efficientista, utilitarista, quantitativo della vita
moderna, desiderando una dimensione più autentica
dell’esistenza (Bifulco, 2011).
Ma Bartleby si
spinge oltre, anche perché il suo diniego non ha niente in
comune con una ricerca, un’aspirazione, un desiderio. La sua
condizione è estrema, egli pare rassegnato allo status di
specialista privo di intelligenza e gaudente privo di cuore in cui
rischia di precipitare l’individuo moderno nella sua
accezione borghese (Weber, 2008). Insomma, anticipando di decenni
alcune impostazioni esistenzialiste o nichiliste, è
presumibile che egli ormai non intraveda più alcuna
possibilità di scorgere fini ultimi o orizzonti di senso
nella vita umana, specie in un mondo pervaso dal razionalismo, dal
calcolo, dall’astrazione. Non è allora peregrina
l’affermazione dell’avvocato, suo indulgente e
smarrito datore di lavoro, secondo cui Bartleby non è un
uomo di assunti – ovvero di argomentazioni razionali
– ma di preferenze. Eppure la sua è una sorta di
preferenza in negativo, che annulla ogni significato, ogni impulso
attivo, ma soprattutto ogni dovere e, così, il fondamento
contrattuale della modernità.
Il cammino dell’individuo moderno si compie nel suo
grado più drammatico. Quando il soggetto razionale si libera
degli ancoraggi trascendenti deve costruire da solo il senso della
realtà. E quando poi alla fine del suo percorso scopre la
preponderanza inoppugnabile della dimensione inconscia ed irrazionale
dell’esistenza, egli non può più fare
cieco affidamento sulla ragione, sull’ottimismo che nasce
dall’idea di padroneggiare razionalmente il mondo. Non rimane
altro, allora, che l’ingovernabilità del
sé e delle cose, l’assurdità di tutto.
Non
a caso, il racconto si chiude con alcune informazioni su Bartleby
– non si sa quanto vere, ma comunque verosimili –
di cui l’avvocato narratore viene a conoscenza dopo la sua
morte, avvenuta durante la sua breve permanenza in carcere. Ebbene,
pare che lo scrivano fosse in precedenza impiegato in un ufficio di
lettere smarrite. Come suggerisce l’avvocato, egli aveva a
che fare con lettere ormai morte, perdute per cause accidentali. E con
loro si sono dissipate passioni, speranze, relazioni. Tutto perso!
Bartleby
pare dunque aver convissuto per anni con l’assenza, il caso,
la mancanza di direzione, l’assurdo, la morte –
fenomeno ai margini di ogni spiegazione sensata. Ne ha così
in qualche misura incorporato, fin negli interstizi della propria
anima, la sostanza, ovvero lo smarrimento di ogni senso. Ed
è di fronte al nulla opprimente che forse egli ha capito
di… aver preferenza di no.
LETTURE
— Bifulco Luca, All’Ovest niente di nuovo. Immagini del tempo e pensiero sociale, Ipermedium libri, S. Maria C.V., 2011.
— Garfinkel Harold, Studies in Ethnomethodology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1967.
— Pecchinenda Gianfranco, L’identità, in Antonio Cavicchia Scalamonti (a cura di),
Materiali di sociologia, Ipermedium libri, S. Maria C.V., 2006.
— Simmel Georg, Filosofia del denaro, Utet, Torino, 1984.
— Sombart Werner, Il borghese, Longanesi & Co., Milano, 1983.
— Weber Max, Sociologia delle religioni, Utet, Torino, 2008.