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di Luca Bifulco

 

Il breve racconto di Herman Melville, Bartleby lo scrivano, ci proietta nella Wall Street di metà Ottocento, strada che si apprestava allora a divenire il fulcro dell’economia finanziaria statunitense e poi internazionale.
Qui ci sono gli uffici di un modesto avvocato – che assume il ruolo di narratore. Ottenuto l’incarico di Magistrato della Cancelleria, egli deve far fronte a una consistente crescita della mole di lavoro, tanto da essere costretto ad ampliare la schiera dei suoi dipendenti assumendo un terzo copista legale. 
È così che irrompe sulla scena Bartleby, il nuovo scrivano. Taciturno, garbato, per quanto refrattario ad ogni forma di interazione colloquiale, all’inizio egli sembra interpretare il suo scialbo lavoro con energica laboriosità. Si immerge, infatti, nella copia dei documenti legali con zelo vorace. Ma dopo pochissimo tempo prenderà le distanze dai suoi doveri lavorativi, rifiutandosi prima di controllare l’esattezza delle copie con i colleghi e l’avvocato, poi gradualmente di adempiere ad ogni sua funzione. 
Ogni sollecitazione, ogni richiesta ottiene la stessa riposta: “avrei preferenza di no”. Quest’espressione diviene una cantilena ossessiva con cui Bartleby progressivamente si allontana da qualsiasi impegno sociale, chiudendosi in un rigoroso e inoppugnabile solipsismo.
Egli oppone all’operosità del suo impiego un ozio ostinato e convinto, si limita ad osservare il triste e opprimente muro che si scorge dalla finestra dell’ufficio, luogo che non abbandona nonostante le continue, quasi supplichevoli, invocazioni dell’avvocato. Anzi, si insedia lì notte e giorno, costringendo l’attonito, esitante, debole – e in qualche misura compassionevole – datore di lavoro a spostare altrove i suoi uffici.
Siamo di fronte quasi ad una forma di autismo sociale, condita da un risoluto diniego dell’integrazione. Ma non si tratta di una semplice patologia personale. Anzi, in Bartleby è possibile scorgere il punto estremo, se vogliamo, delle istanze dell’individuo e della sua autonomia – ovvero il culmine, finanche esasperato, di quel processo di individualizzazione che ha caratterizzato la modernità occidentale. Egli rivendica un’indipendenza totale nei confronti delle aspettative sociali, la sua caparbia inoperosità mette in crisi qualsiasi istituzione, vanifica ogni routine consolidata.
Quasi una versione conclusiva del modello mitico proposto da Sofocle, che contrappone Antigone a Creonte, ovvero il bisogno individuale – seppur in questo caso di derivazione divina – alle leggi, alle usanze, alla volontà sociale. 
D’altronde, dello scrivano nessuno conosce le generalità, dei documenti d’identità nemmeno l’ombra. Sembra, dunque, essere sfuggito perfino alla certificazione identitaria con cui lo Stato burocratico moderno registra e amministra i suoi membri, dotandoli di connotati in qualche misura oggettivi – dalla data di nascita a quella del battesimo, dalle caratteristiche fisiche all’occupazione, eccetera (Pecchinenda, 2006). Tra società e individuo, in pratica, sembra aprirsi una spaccatura difficilmente colmabile, di cui il nostro scrivano si erge a vivido emblema.
Così, alla stregua degli esperimenti di rottura – cari all’etnometodologia di Harold Garfinkel (1967) – Bartleby disattende ciò che si dà per scontato nelle relazioni sociali e nelle pratiche ordinarie della vita quotidiana. Per questo genera negli altri perplessità, ansia, ostilità, ma anche indecisione e imbarazzo, dal momento che è difficile orientarsi ed interagire con lui. In qualche modo è la società intera a sentirsi sotto minaccia, tanto che lo spaesamento è la sensazione emergente e dominante dell’intera faccenda.
Non si può negare a Bartleby il diritto di preferire anche il non far nulla, ma come si integra ciò con gli standard sociali? Abbiamo dinanzi a noi una contraddizione insanabile, tra libertà e dipendenza, tra celebrazione dell’individuo e attese sociali. Grazie al nostro scrivano questa incoerenza – che è poi insita in ogni livello della società, in fondo – guadagna una ribalta incontestabile, tanto da creare lacerante confusione.

 

libro01_mervilleSe il perturbante è l’inquietudine di fronte a una realtà estranea e familiare allo stesso tempo, questo testardo ed estremo individualismo non produce effetti simili? Il familiare diritto all’autonomia crea infatti una sensazione di estraneità, di inesorabile contrarietà, quando mette in discussione la realtà che consideriamo scontata, naturale, prevedibile, indiscutibile. E che, a conti fatti, si mostra ora per quello che è: un mero artificio sociale.
Non a caso, lo scrivano verrà imprigionato perché considerato un vagabondo, ovvero – presumibilmente – l’estraneo per eccellenza: colui che è sempre fuori posto, non ha legami, non rientra in nessuna delle categorie con cui diamo ordine all’esistenza, alle appartenenze, ai rapporti sociali. Non è accolto, insomma, nei quadri cognitivi con cui incorniciamo il mondo e che ci danno sicurezza, perché ci consentono di orientarci facilmente in esso. Per questo proviamo inquietudine e diffidenza, per questo ce ne teniamo lontani. E il carcere, in quanto istituzione totale, rappresenta appunto il tentativo più compiuto di strutturare un controllo completo sulla vita degli individui.
Se poi esaminiamo il racconto di Melville nel dettaglio, emerge come il rifiuto di Bartleby metta in scena un distacco evidente nei confronti di alcuni pilastri specifici dell’intera società moderna.
Innanzitutto, il suo ozio diventa il contraltare manifesto di molte delle qualità tipiche della borghesia, ovvero della classe guida della modernità: la disciplina, la fermezza, il rigore, la puntualità, il rispetto dei contratti (Simmel, 1984; Sombart, 1983). Preferire di no vuol dire quindi evadere dalla stringente etica borghese, e in parte fuggire dalle castranti maglie della razionalità strumentale.
Se il motto dello spirito borghese è il frankliniano “il tempo è denaro”, perdersi nell’inattività significa negare di configurare l’esistenza sulla base del paradigma della produttività, negare di rimanere soggetti a quelle astrazioni – il tempo e il denaro, per l’appunto – che rendono tutta la realtà umana misurabile, standardizzata, priva di qualità (Simmel, 1984). Ecco che il nostro scrivano, seguendo ciecamente un impulso all’inazione, potrebbe a modo suo essere comparato a tutti coloro che, tra l’Otto e il Novecento, deplorano il carattere anonimo, impersonale, efficientista, utilitarista, quantitativo della vita moderna, desiderando una dimensione più autentica dell’esistenza (Bifulco, 2011).
Ma Bartleby si spinge oltre, anche perché il suo diniego non ha niente in comune con una ricerca, un’aspirazione, un desiderio. La sua condizione è estrema, egli pare rassegnato allo status di specialista privo di intelligenza e gaudente privo di cuore in cui rischia di precipitare l’individuo moderno nella sua accezione borghese (Weber, 2008). Insomma, anticipando di decenni alcune impostazioni esistenzialiste o nichiliste, è presumibile che egli ormai non intraveda più alcuna possibilità di scorgere fini ultimi o orizzonti di senso nella vita umana, specie in un mondo pervaso dal razionalismo, dal calcolo, dall’astrazione. Non è allora peregrina l’affermazione dell’avvocato, suo indulgente e smarrito datore di lavoro, secondo cui Bartleby non è un uomo di assunti – ovvero di argomentazioni razionali – ma di preferenze. Eppure la sua è una sorta di preferenza in negativo, che annulla ogni significato, ogni impulso attivo, ma soprattutto ogni dovere e, così, il fondamento contrattuale della modernità.

 

Il cammino dell’individuo moderno si compie nel suo grado più drammatico. Quando il soggetto razionale si libera degli ancoraggi trascendenti deve costruire da solo il senso della realtà. E quando poi alla fine del suo percorso scopre la preponderanza inoppugnabile della dimensione inconscia ed irrazionale dell’esistenza, egli non può più fare cieco affidamento sulla ragione, sull’ottimismo che nasce dall’idea di padroneggiare razionalmente il mondo. Non rimane altro, allora, che l’ingovernabilità del sé e delle cose, l’assurdità di tutto.
Non a caso, il racconto si chiude con alcune informazioni su Bartleby – non si sa quanto vere, ma comunque verosimili – di cui l’avvocato narratore viene a conoscenza dopo la sua morte, avvenuta durante la sua breve permanenza in carcere. Ebbene, pare che lo scrivano fosse in precedenza impiegato in un ufficio di lettere smarrite. Come suggerisce l’avvocato, egli aveva a che fare con lettere ormai morte, perdute per cause accidentali. E con loro si sono dissipate passioni, speranze, relazioni. Tutto perso!
Bartleby pare dunque aver convissuto per anni con l’assenza, il caso, la mancanza di direzione, l’assurdo, la morte – fenomeno ai margini di ogni spiegazione sensata. Ne ha così in qualche misura incorporato, fin negli interstizi della propria anima, la sostanza, ovvero lo smarrimento di ogni senso. Ed è di fronte al nulla opprimente che forse egli ha capito di… aver preferenza di no.

 


 

LETTURE

Bifulco Luca, All’Ovest niente di nuovo. Immagini del tempo e pensiero sociale, Ipermedium libri, S. Maria C.V., 2011.

Garfinkel Harold, Studies in Ethnomethodology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1967.

Pecchinenda Gianfranco, L’identità, in Antonio Cavicchia Scalamonti (a cura di),
Materiali di sociologia, Ipermedium libri, S. Maria C.V., 2006.

Simmel Georg, Filosofia del denaro, Utet, Torino, 1984.

Sombart Werner, Il borghese, Longanesi & Co., Milano, 1983.

Weber Max, Sociologia delle religioni, Utet, Torino, 2008.

 

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