Nel Massachussets centro-settentrionale quando un viaggiatore imbocca
la biforcazione sbagliata alla congiunzione del picco di Aylesbury,
appena oltre Dean’s Corners, si ritrova in una regione solitaria e strana. […]
Senza sapere il perché, si esita a chiedere la strada alle figure solitarie, rugose,
intraviste di tanto in tanto […] così silenziose e furtive da farci sentire in un certo senso
di fronte a cose proibite, con cui è meglio non avere nulla da spartire.
The Dunwich Horror, H.P. Lovecraft, 1929.
Nella famosa favola di Orazio, un topolino curioso, inebriato dal lusso e dal fascino della città, lascia la sua sicura dimora di campagna per trasferirsi entro le moenia urbis. Tornerà tuttavia presto sui suoi passi, resosi conto che i suoi tempi di vita e le sue regole sono creature con le quali difficilmente si può combattere.
La Città. Un Mostro con la maiuscola.
Da
sempre, in America, la provincia, soprattutto quella interna, vive e
pensa diversamente rispetto alle grandi città, e considera
il suo modello di vita religioso e conservatore migliore,
perché più pulito, lontano dal crimine e
dall’indifferenza. L’idea di conoscersi tutti, di
lasciare le chiavi sotto la terza rana in giardino senza paura che
qualcuno rubi qualcosa, sono valori impossibili da trovare nel dedalo
di strade e di etnie delle metropoli, in cui ciascuno, come ben
illustrato da Robert E. Park ed Ernest Watson Burgess (1999) e da
Clifford Shaw ed Henry McKay a Chicago (1942), vive in competizione con
gli altri per affermare se stesso.
La Provincia
è Sicura, Confortevole, Umana. Anche qui, tutte
aggettivazioni con la maiuscola. Tutto ciò è
evidente nei musical americani, Grease su tutti, o
nelle sitcom moderne alla Glee, dove il sogno della
città non rende meno consapevoli delle solide basi di valori
e significati acquisiti fra campi di grano e piccoli empori. O in
situazioni più difficili, dove si affermano comunque
positività umane difficilmente distinguibili nei templi del
consumo e dell’edonismo moderno. Ne L’albero
degli zoccoli (1978), Ermanno Olmi racconta la vita contadina
fatta di stenti, fatica, solidarietà. Un mondo duro e
difficile in cui non prevalgono mai interessi personali ed egoismi sul
rispetto, il senso del dovere, l’accettazione di un destino a
volte avverso e opprimente.
Accanto a questa tradizione, a
questa visione a tratti idilliaca del mondo rurale e delle sue regole
di vita, ne esiste però un’altra, altrettanto
radicata, seppur storicamente successiva, che cerca di vedere gli
orrori, i demoni, il lato oscuro di queste comunità
all’apparenza perfette, da cartolina. Una visione o
prospettiva che la scrittura, il cinema e l’arte hanno da
tempo abbracciato, e con la quale si è costituito, in modo
altrettanto forte, l’immaginario collettivo di molti
individui. Come spesso accade nella cultura delle società
occidentali, si affermano infatti due linee direttrici ben distinte,
volte ad esaltare o denigrare il modello di vita prescelto, e il luogo
migliore in cui interagire positivamente con gli altri individui.
Così
coesistono modelli antitetici di realtà, e le loro
narrazioni si sovrappongono nella produzione culturale e nella
costruzione della kultur di eliasiana memoria.
Nel 2004, in The Village, il regista
indiano Night Shyamalan riscrive in chiave moderna, e con riferimenti
non troppo velati ai gruppi amish e alla politica conservatrice, il
mito della campagna e del villaggio come esempi di purezza, da
mantenere ad ogni costo incontaminati, anche con le bugie, la violenza,
la segregazione. Un anno prima, in Dogville di Lars
Von Trier (2003), ecco emergere tutta la crudeltà e violenza
di una piccola comunità che si confronta con lo straniero,
con l’altro, con i suoi limiti.
Moderna Gemainschaft
che deve difendersi dalle esuberanze della Gesellschaft.
Howard
Phillips Lovecraft (1890-1937) è forse il primo autore a
trasferire in modo stabile e sistematico l’orrore in
provincia. Forse perché attratto dai suoi non detti, dalla
quantità di sussurri, bisbigli, taciti accordi che si
sviluppano all’interno delle piccole comunità; o,
semplicemente, perché nato e cresciuto anche lui in una
piccola realtà, a Providence, in Rhode Island.
Per
lui il vero incubo non può convivere con la luce dei
lampioni e con l’aria calda che esce dalle grate della
metropolitana. Quella serve a Marylin Monroe in Quando la
moglie è in vacanza.
Il male ha
bisogno di silenzi, di cieli stellati, di terreni da invadere e
infestare senza dare nell’occhio, senza attirare attenzione.
In modo che solo dopo, quando è troppo tardi, qualcuno si
accorga della sua presenza. E non un silenzio, una campagna, un bosco
qualunque. Quello che ci è più vicino, che
conosciamo meglio, che ci sembra più rassicurante, o
banale. Lo sostiene con grande precisione
l’autore stesso, all’inizio del suo racconto The
Picture in the House, del 1919:
Coloro che vanno in cerca dell’orrore frequentano luoghi misteriosi e lontani. Per loro vanno bene le catacombe di Ptolemais e i mausolei scolpiti dei paesi da incubo. Costoro salgono al chiar di luna sulle torri dei castelli del Reno, ormai in rovina, e vacillano nello scendere buie scale piene di ragnatele, al di sotto delle rovine disseminate di città dell’Asia dimenticate. I boschi frequentati da fantasmi e le montagne desolate sono i loro templi, e si attardano presso funesti monoliti su isole disabitate. Ma il vero epicureo del terribile, colui per il quale un nuovo brivido di orrore indicibile è il fine principale e la giustificazione dell’esistenza, apprezza soprattutto le antiche e solitarie case di campagna dei boschi del New England, perché là gli oscuri elementi di forza, solitudine stravaganza e ignoranza si combinano a formare la perfezione dell’orrendo.
Il terrore è accanto a noi, un male che si potrebbe definire, con un’accezione profondamente diversa da quella data da Hannah Arendt, “banale”, in quanto non legato a situazioni o luoghi eccezionali. Arkham, che nei suoi racconti spesso sostituisce Providence, la piccola città del Rhode Island in cui è nato, diviene così in The Dreams in the Witch-House (1933) il punto di incontro di forze antiche e moderne che ne corrodono le fondamenta, rendendola un luogo ameno solo in superficie, mentre nelle sue profondità cova il male e l’oscurità:
Dietro a tutto covavano i putridi orrori della vecchia città e dell’ammuffita, sacrilega soffitta dove scriveva, studiava e si dibatteva tra le cifre e le formule quando non si rigirava nel povero letto di ferro. […] Di notte, l’indefinibile movimento della città, il sinistro frusciare dei topi nelle pareti piene di vermi e dello scricchiolare di legname nascosto nella casa vecchia di secoli erano sufficienti a dargli un senso di stridente pandemonio. […] Si trovava nell’immutabile città di Arkham, infestata dalle leggende, con i suoi gruppi di tetti che si inclinano e si piegano sopra attici dove le streghe si rifugiavano per sfuggire agli uomini del re nei più antichi e oscuri giorni della Provincia.
Un destino simile a quello della Jerusalem’s Lot di Stephen King, dove il vampirismo, prima in modo saltuario e poi via via sempre più intenso, estirpa vita e quotidianità del piccolo centro.
Sostò un momento, guardandosi intorno. Gli edifici commerciali e i negozi, con le loro pompose facciate finte, erano deserti. La pioggia, che aveva iniziato a cadere verso mezzogiorno, batteva sulle case, sommessa e regolare, come in lutto. Il piccolo parco pubblico dove aveva conosciuto Susan Norton era vuoto e abbandonato. Il municipio era coperto di ombre indistinte. TORNO SUBITO diceva il cartello appeso alla porta dell’agenzia di Larry Crockett. L’unico rumore che si sentiva era il crepitare sommesso della pioggia. Risalì pian piano, a piedi, la Railroad Street; i suoi passi echeggiavano sul selciato. Giunto da Eva, sostò presso la sua macchina per un momento, guardandosi intorno per l’ultima volta. Nulla si muoveva.
O a quello di Twin Peaks, dove per David Lynch
l’odore del caffè appena fatto e della torta di
ciliegie si confonde con quello di motore che serve ad aprire le porte
della Loggia Nera, la dimora di coloro che tornano in terra per rubare
le anime dei vivi.
Anche se molti conoscono Lovecraft
soprattutto per i cosiddetti Miti di Cthulhu
(1921-1930), in cui l’autore costruisce una propria mitologia
fatta di divinità negative e mostruose in lotta per la
riconquista della Terra contro l’umanità, incapace
di opporre alcuna resistenza a queste forze spaventose e
incomprensibili alla sua ragione, è proprio
all’esterno di essi che si ritrovano alcuni dei caratteri
più interessanti della sua produzione letteraria.
Riferimenti al romanzo gotico e ad Edgar Allan Poe, che però
egli riesce ad attualizzare e a modernizzare, riproponendo in chiave
personale alcuni caratteri del brivido già precedentemente
affrontati.
Uno dei racconti più riusciti, capace, ancora oggi, se letto di notte in una casa di campagna piuttosto isolata, di provocare più di un brivido all’incauto lettore, è The Colour Out of Space, del 1927. Ad occidente rispetto alla misteriosa Arkham esistono valli dagli alberi contorti e dai ruscelli che non vedono mai la luce del sole. Un luogo ricco di grotte, pietre che si elevano verso il cielo, misteri della natura che inquietano l’uomo. Uomo che ha provato a vivere e dominare quelle valli, ponendoci le proprie case e le proprie fattorie, ma che nel tempo ha abbandonato il suo progetto, tornando verso la città, la luce, la sicurezza. Solo pochi matti resistono a contatto con qualcosa che ha reso la loro mente sempre più fragile, convivendo con la sensazione di un orrore che non devono o possono razionalizzare. Lovecraft inizia così il suo racconto, e subito si capisce che non vi è nulla di rassicurante o confortevole in questi territori. Anzi, tutto è così angosciante che la stessa natura cerca di racchiuderlo e circoscriverlo, con un fitto bosco a cingere le valli.
Un tempo, una strada che correva per queste colline e queste valli, tagliava in linea diretta quella che oggi si chiama la landa folgorata; poi, dato che la gente non la utilizzava più, ne venne tracciata un’altra molto più a sud. Nel sottobosco, sotto gli sterpi e i rovi, accade talvolta di trovare le tracce della vecchia strada, e certi tratti emergeranno ancora quando metà della vallata sarà stata inondata per formare il nuovo bacino idrico. Allora i grandi alberi saranno abbattuti, e la landa folgorata dormirà per sempre con i suoi misteri sotto le acque profonde.
Il narratore della storia è un esterno, un
cittadino, venuto ad Arkham per portare il progresso. Non crede alle
leggende, ai malefici, al male. Razionalizza tutto, è
curioso, sembra guidato da un assoluto spirito positivista nelle cose.
Ride della “landa folgorata”, di questo nome che i
“buoni selvaggi” della provincia hanno dato al
posto, e non pensa che al suo lavoro, e al modo migliore per
concluderlo. Poi la vede. Vede le valli, il terreno, i suoi inusuali
caratteri. Vede una terra sulla quale nulla cresce, o si rifugia. Vive
quel senso di profonda inquietudine e angoscia, non si sente
tranquillo, la ragione vacilla. Ha bisogno di parlare, di capire, di
chiedere spiegazioni. Ma nessuno vuole esporsi. Solo mezze frasi, mezze
ammissioni, l’idea che molto venga celato o nascosto
è un tarlo che logora la mente di un cittadino abituato a
cose esibite e manifeste.
L’unico disposto a parlare
è un vecchio matto che vive nella valle, che ha visto e
sentito ciò che accade in quei “giorni
strani” e che, proprio perché solo, lasciato ai
suoi ricordi e alle sue memorie, non ha nulla da perdere
nell’esporsi in prima persona.
Tutto ha
inizio una sera, con l’arrivo di uno strano meteorite nella
fattoria di Nahum Gardner. Il meteorite rimpicciolisce, per poi
sparire, in pochi giorni. Ma man mano che diventa più
piccolo rende il terreno intorno a lui diverso, come coperto da un
alone più scuro che non si percepisce con precisione ma del
quale si avverte subito la presenza. Le conseguenze diventano evidenti
nei mesi a seguire. La frutta degli alberi, cresciuta bella e copiosa
come non mai, risulta immangiabile per via di un retrogusto amaro e
tossico che la pervade. Sempre più animali del terreno
mostrano singolari alterazioni, divenendo più grandi,
più forti, più aggressivi. La cosa non
può passare inosservata.
La gente affermava che la neve intorno alla fattoria si scioglieva più rapidamente che in qualsiasi altro posto e, al principio di marzo, vi fu una lunga discussione nella bottega di Potter, a Clark’s Corner. Passando durante la mattina in calesse non lontano dai Gardner, Stephen Rive aveva notato i cosiddetti cavoli-fetidi, che spuntavano dal fango vicino ai boschi, dall’altro lato della strada. Mai si erano visti così enormi, e di un colore così strano. […] Nel corso del pomeriggio, parecchie persone andarono a loro volta a vedere il fenomeno, e tutte convennero che piante simili non sarebbero potute nascere in un terreno sano.
Gli scienziati, la civiltà mandata a capire e
spiegare la cosa, rimangono senza alcuna idea su cosa succeda o quali
possano essere le conseguenze di questa situazione. Più
volte, in questo racconto, l’ingenua scienza
dell’uomo non sarà in grado di comprendere o
difendersi dall’incognito che la sovrasta.
Presto
gli alberi iniziano a germogliare prima, con colori e tinte mai viste,
inusuali. E a brillare di notte, rischiarando i terreni intorno alla
casa di Nahum Gardner. Gli insetti diventano più numerosi,
più grandi, più invadenti e pericolosi. I grandi
aceri iniziano a muoversi verso il cielo anche senza vento, alla
ricerca di non si sa bene cosa. Gli animali si ammalano. La signora
Gardner diviene pazza. La fattoria rimane isolata e la famiglia
ostracizzata dalla comunità locale.
Poco dopo il mutamento di erba e foglie divenne visibile: tutto ciò che era verde prese una colorazione grigiastra e Ammì era ormai l’unico che andasse a trovare Nahum, ma anche le sue visite si facevano sempre più rare. Quando le scuole chiusero, i Gardner rimasero praticamente tagliati fuori dal mondo.
Tutto diviene malato, insalubre, guasto. Ciò che
prima era innaturalmente rigoglioso, ora è morente, marcio,
in decomposizione. Il vicino, dopo diverse settimane di silenzio, si
reca a vedere cosa è rimasto della allegra famiglia che
conosceva, di quel terreno una volta normalmente armonioso e ora
corroso dall’interno da una forza oscura e implacabile. Vi
trova solo morte, pazzia, rassegnazione.
Nulla
può fare più, se non cercare di evitare che quel
luogo maledetto, quel “colore” che avvelena tutto e
che succhia la vita, non possa espandersi oltre.
La fattoria era completamente inondata di quell’immondo colore: gli edifici, gli alberi, e anche le erbe che fino a poco prima non avevano quel grigio mortale. I rami tesi verso il cielo erano coronati da lingue di fuoco: ruscelletti dello stesso mostruoso fuoco colavano dalle grondaie della casa, dal granaio, giù giù lungo le tettoie. Su tutto regnava quel torrente di luce amorfa, quel misterioso arcobaleno avvelenato uscito dal pozzo, gorgogliante, ondeggiante, rilucente, che penetrava il terreno, estendendosi incessantemente, in un cromatismo cosmico impossibile da identificare.
Ecco così che contatta le autorità, gli
scienziati, la magistratura. Tutto viene visto, analizzato, spiegato in
modo scientifico o ignorato, laddove la scienza non può
dimostrare la sua correttezza sul campo. Nessuna soluzione viene
trovata. Una famiglia è stata distrutta e un luogo rimane
ancora pericoloso, con la sua luminescenza notturna, i suoi alberi
sempre più secchi e morenti, il suo strano colore pronto a
muoversi ancora, alla ricerca di un nuovo mondo da infestare.
Così
dice il vecchio, trattenendo a stento la commozione e il
terrore.
Il racconto gela il sangue del narratore e
di tutti quei lettori che, nella loro vita, hanno attraversato un luogo
sentendolo ostile, nemico, pieno di oscuri e malvagi segreti. Essi
hanno quindi un’unica possibilità di salvezza:
archiviare come credenze questa storia, dar torto al povero pazzo
incapace di vedere la realtà delle cose. Razionalizzare. Per
non essere travolti da quel senso di disagio, ora più
consapevole dopo questa narrazione, che alle volte si manifesta nel
vedere o passare per un luogo in cui non tutto, non sempre,
è spiegato alla mente come al cuore o all’istinto.
LETTURE
— Elias Norbert, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna, 1982.
— Lovecraft Howard Phillips, I miti di Cthulhu (a cura di August Derleth),
edizione italiana a cura di Fusco Sebastiano, de Turris Gianfranco, Fanucci, Roma, 1975.
— Giddens Anthony, Il mondo che cambia, Il Mulino, Bologna, 2002.
— King Stephen, Le notti di Salem, Bompiani, Milano, 1979.
— Lovecraft Howard Phillips, Opere complete, Edizioni SugarCo, Milano, 1973.
— Park Robert Ezra, Burgess Ernest Watson, La Città, Einaudi, Torino, 1999.
— Pilo Gianni (a cura di), L’orrore di Cthulhu, Fanucci, Roma, 1986.
— Shaw Clifford, McKay Henry, Juvenile Delinquency and Urban Areas, The University of Chicago Press, Chicago, 1942.
VISIONI
— Lynch David, I segreti di Twin Peaks, Gold box edition, Paramount, 2006.
— Olmi Ermanno, L’albero degli zoccoli, Rai/Dnc, 1978.
— Shyamalan Night, The Village, Walt Disney, 2004.
— Von Trier Lars, Dogville, Medusa, 2003.