Un uomo, primo personaggio che d’ora in poi
sarà Lui. E una donna, secondo
personaggio che d’ora in poi sarà Lei.
Due abitanti qualsiasi dell’Occidente comune che viviamo
tutti quanti. Giorno dopo giorno. Settimana dopo settimana.
Post-materialista, post-moderno, tardo-moderno. Fate voi. Mettete Lui
(l’uomo) e Lei (la donna), nella loro
casetta, nel loro dolce appartamentino colorato. Entrambi con le loro
abitudini, i loro silenzi e le loro parole, i loro sguardi e le loro
carezze. Entrambi a vivere in quell’opaco idillio
mononucleare (che idillio spesso non è, ma non è
questo il caso) che riproduce le nostre città. Il modello
del due-cuori-e-una-capanna e dell’e-vissero-per-sempre-felici-e-contenti
che giustifica un’esistenza di condivisione e di
pensieri talvolta delicati e talvolta anche un po’ acri.
Tanto la vita non è altro che questa
oscillazione… tanto la vita non è altro che
trovare equilibrio. D’altronde cosa vogliamo di
più: in due si condividono le gioie quanto i dolori. Le une
e gli altri. Lo si dice quel famoso giorno davanti all’altare.
Due
persone, dicevamo: un uomo, Lui, e una donna, Lei.
Come tutti. Due personaggi in equilibrio. Due come noialtri.
Checché ne diciamo e ne pensiamo. Spesso ognuno si fa
protagonista di una vita che non esiste. Dovremmo saperlo tutti. Lui
e Lei, ogni sera seduti l’una accanto
all’altro, o l’uno accanto all’altra.
Ogni sera col televisore acceso dal telegiornale della sera fino al
documentario della notte. Dal film del pomeriggio fino
all’approfondimento della notte. Magari qualche volta
passandosi uno spinello acceso, dato che rallegrarsi ogni tanto fa
bene. Soprattutto quando si è in due. Nonostante le leggi
stupide o fin troppo sottili che reggono l’Occidente di cui
sopra. Bisogna dirlo. Lui e Lei,
a guardarsi l’un l’altra, vicendevolmente. A
guardarsi camminare in mutande d’estate. A guardarsi dormire
che è la cosa più bella. A guardarsi sognare e
magari a sognarsi. Magari in quest’ultimo caso senza
spinello, perché i sogni non hanno bisogno di
nient’altro che dei sogni stessi. Altrimenti non sarebbero
sogni. Sarebbero visioni, o probabilmente sarebbero soltanto memorie
stanche o distorte. Lui e Lei,
a guardarsi nei difetti che crescono nel tempo ma che magari,
crescendo, anche s’accettano di più. Lui
e Lei, nel garbo, nella sottile evidenza dei giorni.
Ricominciamo ancora una volta: prendete questa coppia
nell’intimo delle loro primavere, nel quotidiano di un
vestito scucito sotto l’ascella sinistra, o degli
imbarazzanti pigiami di flanella degli inverni in cui si sta dentro e
si guarda il mondo dal vetro delle finestre. Quel mondo che, bene o
male, è sempre lo stesso. Quella realtà che, per
quanto succeda, è sempre la stessa. Perché sta
dall’altra parte, e nessuno ci può fare niente.
Prendete dunque queste due persone proprio mentre sono in casa.
Perché la vita di una coppia è lì,
è lì che si riproduce. Talvolta, anche in questo
quadro di docile invecchiamento, capita tuttavia che emerga qualche
ricordo taciuto, qualcosa di non detto. O di detto di sfuggita, di
accennato. O anche solo di non ascoltato, di lasciato andare insieme al
resto delle cose di poca importanza che fanno una vita condivisa.
Non
si tratta di ignavia o di dolo. Non sia mai detto! Condividere tutto
vuol dire condividere ogni cosa che emerge al momento stesso in cui
emerge. Ma ci sono cose che hanno bisogno di tempo per farlo. E allora
restano al di sotto di tutto. O al di sopra, fate voi.
C’è sempre qualcosa che semplicemente non
s’è elencato durante i giorni felici o tristi,
qualcosa che non s’è raccontato. O qualcosa che
s’è raccontato e a cui tuttavia non
s’è data importanza. Qualcosa, forse, anche di
importante. Anche se è pur vero che le cose importanti non
esistono di per loro in quanto tali, per cui diciamo solo qualcosa.
Niente di più. Importante o meno non siamo certo noi a
deciderlo. Detta o taciuta, dibattuta o lasciata andare. Dimenticata e
forse sottovalutata. Nemmeno questo ha importanza. È il
tempo a decidere quanta ne abbia. Sono lo spazio e il contesto a farlo.
Gli stessi fattori che fanno i personaggi. Che fanno noialtri, per di
più.
Un vecchio amico cieco di Lei,
per esempio. Terzo personaggio, d’ora in poi Il
cieco. Improvvisamente balzato al centro della scena.
Improvvisamente nella casa dell’idillio. O forse nemmeno
così improvvisamente. L’importante è
che sia lì, nell’idillio, che ci sia entrato con
il silenzio che certe persone si portano appresso. Quelli che non
vedono, per esempio. Proprio come Il cieco. Dunque
per quale motivo Il cieco sia lì non
c’interessa per nulla. È importante? Non lo
è per nulla? Anche in questo caso,
chissà…
C’è
soltanto uno che rispunta dal passato e che con Lei
ha condiviso alcune cose (piccole o grandi, belle o brutte, dolci o
amare, sapide o insipide, e di qui a proseguire con gli eccetera) che Lui
nemmeno immagina. O che Lui, sia detto ancora una
volta, nemmeno ricorda. Cose anche piccole, si diceva. Ma non
è la grandezza delle cose che ne fa il valore,
l’importanza. In certi casi è altro, è
anche solo il loro esistere. Il loro spuntare improvviso. Il loro
emergere come le isole nuove dopo un’eruzione sottomarina nel
bel mezzo dell’oceano. Ieri non c’erano ed oggi
sono lì. Il loro porsi come un elemento di dubbio
all’interno del diagramma di una vita sempre condivisa. Una
vita che è calma, come quell’oceano tropicale. In
questo oceano il dubbio basta che esista. Tutto qui. Niente di
più. Il dubbio basta che s’insinui sul piccolo
dettaglio per farsi sostanza. Non ha necessariamente bisogno dei grossi
palcoscenici affinché il suo sia un ruolo cruciale.
Rispuntato chissà come dalle spire del tempo e
dello spazio, del contesto che non appariva nella sua immediatezza di
fatto, riecco dunque questo dubbio. Come quell’isola che
spunta dal sottofondo mascherato dalle acque salate, che non si vede o
che si dimentica. E questo dubbio lo porta con sé Il
cieco, un uomo incapace di vedere il mondo come fanno tutti,
quindi di viverlo, forse. Lo porta con se come uno strascico
silenzioso, perché, come abbiamo già detto, i
ciechi si portano appresso il silenzio. Il baccano impedisce loro di
esperire e di capire il mondo attorno. Così, in questo
silenzio che in fin dei conti non è silenzio, Lui
s’interroga, s’imbarazza forse. Ci prova almeno,
d’altronde il suo non è che un dubbio forse
banale, da uomo qualunque. Un dubbio che a parlarne forse si fa una
bella figuraccia. Tuttavia c’è. Nel frattempo Lei
fa le cose sue senza tropo badarci, conosce Il cieco,
forse immagina il silenzio. Conosce il suo modo di avere
un’idea del mondo, di percepirlo.
Il dubbio di Lui
è invece come fosse uno spaesamento lieve. Garbato. Non
è paura. No, non lo è affatto. E nemmeno vuole
diventarlo. È un dubbio, forse, che si maschera
nell’arroganza di un quotidiano equilibrato, sicuro delle sue
minime certezze. Perché è quello
dell’uomo capace al cospetto dell’incapace.
Dell’uomo che non ha bisogno del silenzio al cospetto di
quello che invece questo bisogno ce l’ha. Ma in quanto dubbio
perturba. S’insinua. Si concretizza.
Cosa perturba?
Si direbbe, per come l’abbiamo messa, l’idillio
mononucleare. No, invece. Proprio no. Perturba la realtà,
nella sua disarmante schiera di prospettive. Non
c’è più la storia tra Lui
e Lei. Perché Lei
s’addormenta. Ora è Il cieco a
farsi passare lo spinello da Lui, a tirare boccate
ampie sputando nuvole di fumo azzurrognolo e allegro. Il cieco
s’intromette tra Lui e la
realtà, non tra Lui e Lei.
Anche se è questa seconda intromissione a farsi da tramite
per la prima, per quella più grande. E Lei
dorme sul divano accanto, sta lì a sognare. E forse sogna i
due che le sono accanto nella realtà della veglia. Quella
stessa realtà su cui un uomo senza occhi e uno con gli occhi
dibattono. Così il dubbio diventa positivo. Apre orizzonti
senza sguardo. Orizzonti di tatto. Orizzonti d’immaginazione.
Beati
monoculi in terra caecorum, si diceva un tempo. Ma qui forse
si tratta del contrario.
LETTURE
— Carver Raymond, Cattedrale, Minimum Fax, Roma, 2002.