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di Maria D'Ambrosio

 

Un uomo, primo personaggio che d’ora in poi sarà Lui. E una donna, secondo personaggio che d’ora in poi sarà Lei. Due abitanti qualsiasi dell’Occidente comune che viviamo tutti quanti. Giorno dopo giorno. Settimana dopo settimana. Post-materialista, post-moderno, tardo-moderno. Fate voi. Mettete Lui (l’uomo) e Lei (la donna), nella loro casetta, nel loro dolce appartamentino colorato. Entrambi con le loro abitudini, i loro silenzi e le loro parole, i loro sguardi e le loro carezze. Entrambi a vivere in quell’opaco idillio mononucleare (che idillio spesso non è, ma non è questo il caso) che riproduce le nostre città. Il modello del due-cuori-e-una-capanna e dell’e-vissero-per-sempre-felici-e-contenti che giustifica un’esistenza di condivisione e di pensieri talvolta delicati e talvolta anche un po’ acri. Tanto la vita non è altro che questa oscillazione… tanto la vita non è altro che trovare equilibrio. D’altronde cosa vogliamo di più: in due si condividono le gioie quanto i dolori. Le une e gli altri. Lo si dice quel famoso giorno davanti all’altare.
Due persone, dicevamo: un uomo, Lui, e una donna, Lei. Come tutti. Due personaggi in equilibrio. Due come noialtri. Checché ne diciamo e ne pensiamo. Spesso ognuno si fa protagonista di una vita che non esiste. Dovremmo saperlo tutti. Lui e Lei, ogni sera seduti l’una accanto all’altro, o l’uno accanto all’altra. Ogni sera col televisore acceso dal telegiornale della sera fino al documentario della notte. Dal film del pomeriggio fino all’approfondimento della notte. Magari qualche volta passandosi uno spinello acceso, dato che rallegrarsi ogni tanto fa bene. Soprattutto quando si è in due. Nonostante le leggi stupide o fin troppo sottili che reggono l’Occidente di cui sopra. Bisogna dirlo. Lui e Lei, a guardarsi l’un l’altra, vicendevolmente. A guardarsi camminare in mutande d’estate. A guardarsi dormire che è la cosa più bella. A guardarsi sognare e magari a sognarsi. Magari in quest’ultimo caso senza spinello, perché i sogni non hanno bisogno di nient’altro che dei sogni stessi. Altrimenti non sarebbero sogni. Sarebbero visioni, o probabilmente sarebbero soltanto memorie stanche o distorte. Lui e Lei, a guardarsi nei difetti che crescono nel tempo ma che magari, crescendo, anche s’accettano di più. Lui e Lei, nel garbo, nella sottile evidenza dei giorni.

 

libro03_carverRicominciamo ancora una volta: prendete questa coppia nell’intimo delle loro primavere, nel quotidiano di un vestito scucito sotto l’ascella sinistra, o degli imbarazzanti pigiami di flanella degli inverni in cui si sta dentro e si guarda il mondo dal vetro delle finestre. Quel mondo che, bene o male, è sempre lo stesso. Quella realtà che, per quanto succeda, è sempre la stessa. Perché sta dall’altra parte, e nessuno ci può fare niente. Prendete dunque queste due persone proprio mentre sono in casa. Perché la vita di una coppia è lì, è lì che si riproduce. Talvolta, anche in questo quadro di docile invecchiamento, capita tuttavia che emerga qualche ricordo taciuto, qualcosa di non detto. O di detto di sfuggita, di accennato. O anche solo di non ascoltato, di lasciato andare insieme al resto delle cose di poca importanza che fanno una vita condivisa.
Non si tratta di ignavia o di dolo. Non sia mai detto! Condividere tutto vuol dire condividere ogni cosa che emerge al momento stesso in cui emerge. Ma ci sono cose che hanno bisogno di tempo per farlo. E allora restano al di sotto di tutto. O al di sopra, fate voi. C’è sempre qualcosa che semplicemente non s’è elencato durante i giorni felici o tristi, qualcosa che non s’è raccontato. O qualcosa che s’è raccontato e a cui tuttavia non s’è data importanza. Qualcosa, forse, anche di importante. Anche se è pur vero che le cose importanti non esistono di per loro in quanto tali, per cui diciamo solo qualcosa. Niente di più. Importante o meno non siamo certo noi a deciderlo. Detta o taciuta, dibattuta o lasciata andare. Dimenticata e forse sottovalutata. Nemmeno questo ha importanza. È il tempo a decidere quanta ne abbia. Sono lo spazio e il contesto a farlo. Gli stessi fattori che fanno i personaggi. Che fanno noialtri, per di più.
Un vecchio amico cieco di Lei, per esempio. Terzo personaggio, d’ora in poi Il cieco. Improvvisamente balzato al centro della scena. Improvvisamente nella casa dell’idillio. O forse nemmeno così improvvisamente. L’importante è che sia lì, nell’idillio, che ci sia entrato con il silenzio che certe persone si portano appresso. Quelli che non vedono, per esempio. Proprio come Il cieco. Dunque per quale motivo Il cieco sia lì non c’interessa per nulla. È importante? Non lo è per nulla? Anche in questo caso, chissà…
C’è soltanto uno che rispunta dal passato e che con Lei ha condiviso alcune cose (piccole o grandi, belle o brutte, dolci o amare, sapide o insipide, e di qui a proseguire con gli eccetera) che Lui nemmeno immagina. O che Lui, sia detto ancora una volta, nemmeno ricorda. Cose anche piccole, si diceva. Ma non è la grandezza delle cose che ne fa il valore, l’importanza. In certi casi è altro, è anche solo il loro esistere. Il loro spuntare improvviso. Il loro emergere come le isole nuove dopo un’eruzione sottomarina nel bel mezzo dell’oceano. Ieri non c’erano ed oggi sono lì. Il loro porsi come un elemento di dubbio all’interno del diagramma di una vita sempre condivisa. Una vita che è calma, come quell’oceano tropicale. In questo oceano il dubbio basta che esista. Tutto qui. Niente di più. Il dubbio basta che s’insinui sul piccolo dettaglio per farsi sostanza. Non ha necessariamente bisogno dei grossi palcoscenici affinché il suo sia un ruolo cruciale.

 

Rispuntato chissà come dalle spire del tempo e dello spazio, del contesto che non appariva nella sua immediatezza di fatto, riecco dunque questo dubbio. Come quell’isola che spunta dal sottofondo mascherato dalle acque salate, che non si vede o che si dimentica. E questo dubbio lo porta con sé Il cieco, un uomo incapace di vedere il mondo come fanno tutti, quindi di viverlo, forse. Lo porta con se come uno strascico silenzioso, perché, come abbiamo già detto, i ciechi si portano appresso il silenzio. Il baccano impedisce loro di esperire e di capire il mondo attorno. Così, in questo silenzio che in fin dei conti non è silenzio, Lui s’interroga, s’imbarazza forse. Ci prova almeno, d’altronde il suo non è che un dubbio forse banale, da uomo qualunque. Un dubbio che a parlarne forse si fa una bella figuraccia. Tuttavia c’è. Nel frattempo Lei fa le cose sue senza tropo badarci, conosce Il cieco, forse immagina il silenzio. Conosce il suo modo di avere un’idea del mondo, di percepirlo.
Il dubbio di Lui è invece come fosse uno spaesamento lieve. Garbato. Non è paura. No, non lo è affatto. E nemmeno vuole diventarlo. È un dubbio, forse, che si maschera nell’arroganza di un quotidiano equilibrato, sicuro delle sue minime certezze. Perché è quello dell’uomo capace al cospetto dell’incapace. Dell’uomo che non ha bisogno del silenzio al cospetto di quello che invece questo bisogno ce l’ha. Ma in quanto dubbio perturba. S’insinua. Si concretizza.
Cosa perturba? Si direbbe, per come l’abbiamo messa, l’idillio mononucleare. No, invece. Proprio no. Perturba la realtà, nella sua disarmante schiera di prospettive. Non c’è più la storia tra Lui e Lei. Perché Lei s’addormenta. Ora è Il cieco a farsi passare lo spinello da Lui, a tirare boccate ampie sputando nuvole di fumo azzurrognolo e allegro. Il cieco s’intromette tra Lui e la realtà, non tra Lui e Lei. Anche se è questa seconda intromissione a farsi da tramite per la prima, per quella più grande. E Lei dorme sul divano accanto, sta lì a sognare. E forse sogna i due che le sono accanto nella realtà della veglia. Quella stessa realtà su cui un uomo senza occhi e uno con gli occhi dibattono. Così il dubbio diventa positivo. Apre orizzonti senza sguardo. Orizzonti di tatto. Orizzonti d’immaginazione.
Beati monoculi in terra caecorum, si diceva un tempo. Ma qui forse si tratta del contrario.

 


 

LETTURE

Carver Raymond, Cattedrale, Minimum Fax, Roma, 2002.

 

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