Dovessimo identificare una figura di letterato in grado di
rivelarci il significato profondo della cultura di massa, questi non
potrebbe essere che Philip José Farmer. Il ricorso al
termine rivelazione non è casuale,
poiché comprende la consapevolezza da parte
dell’autore statunitense del principio soggiacente le forme
evidenti della narrazione. Più che Jorge Luis Borges, cui lo
scrittore di Peoria è stato a volte accostato, Farmer
restituisce nell’ambito dei propri racconti e romanzi (spesso
organizzati serialmente per cicli) una lucida riflessione sui caratteri
essenziali della mass culture. È quanto
si coglie ove si guardi alle storie in cui Farmer rielabora le forme
del Mito in una stretta connessione all’immaginario
industriale: le sue riscritture delle figure superomistiche della
modernità, ad esempio, palesano l’influenza
diretta del pensiero di studiosi come Joseph Campbell o Leslie Fiedler,
trascinando il “piacere del testo” in una zona
ibrida compresa tra evasione e teoria critica (e, ancor più,
critica della teoria critica, producendo sistematicamente seducenti e
perturbanti effetti di spiazzamento nelle pratiche di lettura dei
generi narrativi).
I pastiche in cui
Farmer ricicla le figure di Tarzan o Doc Savage, Sherlock Holmes o la
stessa ingombrante materia di King Kong sono ben altro che
l’atto nostalgico di un lettore/spettatore votato al recupero
della propria “educazione sentimentale” nei
riguardi dell’immaginario. Una volta per tutte: Farmer non
può essere considerato soltanto il rivoluzionario (ed
eretico) esploratore della sessualità
nell’orizzonte fantascientifico dell’età
di Eisenhower, ma soprattutto il primo scrittore a prefigurare (prima e
meglio di Kurt Vonnegut, ad esempio) un uso critico dei generi di
massa. Facendo ciò, Farmer va molto oltre la riscrittura
ideologica dell’immaginario e si propone come anticipatore
dei grandi mutamenti espressivi della tarda modernità,
consumando definitivamente l’esperienza della cultura di
massa e – per molti versi – portandola a
compimento.
La sua passione per Tarzan diviene, in questa prospettiva, la lucida attitudine a intercettare e rielaborare le forme profonde del Novecento, scoprendone le radici antropologiche ma cogliendone anche gli esiti sociologici. È questo il motivo che lo spinge a recuperare la figura del Figlio della Giungla in più occasioni, ognuna dedicata a questa missione di destrutturazione e ricomposizione semantica del suo dispositivo narrativo, dotato di caratteri ibridi tali da farne, al contempo, sia un prototipo che un archetipo. In particolare, verso la fine degli anni Sessanta, Farmer scrive un raccontino di poche pagine che nessun editore sembra voler pubblicare. Lo fa leggere al suo amico Norman Spinrad, innovativo scrittore anch’egli e uno degli autori della famosa antologia Dangerous Visions (1991), in cui Farmer aveva pubblicato il racconto I cavalieri del salario purpureo, opera dirompente che gli era valsa il Premio Hugo nel – guarda un po’ – 1968. Spinrad decide che quel racconto deve essere pubblicato, e comincia a ragionare su un’antologia dedicata alla New Wave fantascientifica (il movimento di rinnovamento del genere generatosi in Gran Bretagna sulle pagine della rivista New Worlds) al solo scopo di inserirvi la storia di Farmer. L’antologia The New Tomorrows viene pubblicata nel 1971 (in Italia verrà edita da “Galassia” cinque anni più tardi con il titolo, assai meno interessante, di Cristalli di futuro), e contiene racconti di scrittori importanti e innovativi come Michael Moorcock, Brian W. Aldiss, Harlan Ellison, Thomas M. Disch. Ma certo la storia più memorabile è quella di Farmer, intitolata Il dannato figlio della giungla impasticcato, seguito da un esplicativo Se William Burroughs, invece di Edgar Rice Burroughs, avesse scritto i romanzi di Tarzan.
Il gioco dello scrittore si chiarisce appena inizia la lettura
del racconto, in cui Lord Greystoke, ovvero Tarzan, tiene una
requisitoria alla Camera dei Lords contro gli “stronzi
capitalisti”. Seguendo un flusso frammentario, frutto
dell’immaginaria trascrizione di registrazioni realizzata da
Bruce il Brachiale, il racconto è concepito con la medesima
tecnica del cut-up messa a punto da William Burroughs (sulla scorta di
Brion Gysin), e dunque procede per icastici flash di immagini, giochi
di parole (spesso intraducibili), laterali rimandi ipertestuali. Non
mancano i riferimenti ai miti della controcultura del tempo, ad esempio
gli orgoni della bioenergetica reichiana. La scintilla –
giocare sull’omonimia di Edgar Rice e William Burroughs
– appare geniale poiché genera un corto circuito
tra le istanze letterarie del primo e quelle del secondo, ovvero tra il
campione di una scrittura industriale, capace come nessun altro di
tradurre la materia oscura del Mito nella macchina
dell’industria culturale, e il più rappresentativo
esponente di quella dissonanza avanguardista nota come “Beat
Generation”, votata al rifiuto della società di
massa e delle sue forme.
Due logiche, due visioni del mondo,
che apparirebbero tra loro inconciliabili. Eppure, proprio contaminando
la potenza visionaria di una scrittura seriale votata
all’iperdeclinazione audiovisiva (quintessenza della cultura
di massa) con la ricerca estrema dell’espressione di un senso
altro e de-massificato dell’agire
artistico, Farmer afferma la possibilità di superare il
vecchio quadro dei conflitti affermato dalle strategie della teoria
critica. Tra le mani dello scrittore di Peoria, un testimone epocale
che andrebbe riscoperto e sottratto all’oblio che oggi lo
occulta, Tarzan diviene il momento di rottura delle ideologie sulla
distinzione tra cultura di massa e cultura
d’élite, dunque la frattura su cui si riassetta la
possibilità di una identità culturale
postmoderna. Nello straordinario sincretismo concepito da Farmer, in
cui convivono la ricerca stilistica e la memoria profonda di un
immaginario sedimentato su molteplici piani linguistici, il breve
racconto su Tarzan diviene il punto d’equilibrio che ci
permette di accedere a un significato nuovo della cultura di massa, e
di intuirne il tramonto nell’ambito di un movimento
complessivo della società e del suo rappresentarsi nelle
forme narrative.
LETTURE
— Farmer Philip
José, I cavalieri del salario purpureo,
in Ellison Harlan (a cura di), Dangerous Visions,
Mondadori, Milano, 1991.
— Farmer Philip José, Il dannato figlio
della giungla impasticcato,
in Spinrad Norman (a cura di), Cristalli
di futuro, “Galassia” 211, La Tribuna,
Piacenza, 1976.