titolo13
di Sergio Brancato

 

Dovessimo identificare una figura di letterato in grado di rivelarci il significato profondo della cultura di massa, questi non potrebbe essere che Philip José Farmer. Il ricorso al termine rivelazione non è casuale, poiché comprende la consapevolezza da parte dell’autore statunitense del principio soggiacente le forme evidenti della narrazione. Più che Jorge Luis Borges, cui lo scrittore di Peoria è stato a volte accostato, Farmer restituisce nell’ambito dei propri racconti e romanzi (spesso organizzati serialmente per cicli) una lucida riflessione sui caratteri essenziali della mass culture. È quanto si coglie ove si guardi alle storie in cui Farmer rielabora le forme del Mito in una stretta connessione all’immaginario industriale: le sue riscritture delle figure superomistiche della modernità, ad esempio, palesano l’influenza diretta del pensiero di studiosi come Joseph Campbell o Leslie Fiedler, trascinando il “piacere del testo” in una zona ibrida compresa tra evasione e teoria critica (e, ancor più, critica della teoria critica, producendo sistematicamente seducenti e perturbanti effetti di spiazzamento nelle pratiche di lettura dei generi narrativi).
I pastiche in cui Farmer ricicla le figure di Tarzan o Doc Savage, Sherlock Holmes o la stessa ingombrante materia di King Kong sono ben altro che l’atto nostalgico di un lettore/spettatore votato al recupero della propria “educazione sentimentale” nei riguardi dell’immaginario. Una volta per tutte: Farmer non può essere considerato soltanto il rivoluzionario (ed eretico) esploratore della sessualità nell’orizzonte fantascientifico dell’età di Eisenhower, ma soprattutto il primo scrittore a prefigurare (prima e meglio di Kurt Vonnegut, ad esempio) un uso critico dei generi di massa. Facendo ciò, Farmer va molto oltre la riscrittura ideologica dell’immaginario e si propone come anticipatore dei grandi mutamenti espressivi della tarda modernità, consumando definitivamente l’esperienza della cultura di massa e – per molti versi – portandola a compimento.

 

libro14_cortazarLa sua passione per Tarzan diviene, in questa prospettiva, la lucida attitudine a intercettare e rielaborare le forme profonde del Novecento, scoprendone le radici antropologiche ma cogliendone anche gli esiti sociologici. È questo il motivo che lo spinge a recuperare la figura del Figlio della Giungla in più occasioni, ognuna dedicata a questa missione di destrutturazione e ricomposizione semantica del suo dispositivo narrativo, dotato di caratteri ibridi tali da farne, al contempo, sia un prototipo che un archetipo. In particolare, verso la fine degli anni Sessanta, Farmer scrive un raccontino di poche pagine che nessun editore sembra voler pubblicare. Lo fa leggere al suo amico Norman Spinrad, innovativo scrittore anch’egli e uno degli autori della famosa antologia Dangerous Visions (1991), in cui Farmer aveva pubblicato il racconto I cavalieri del salario purpureo, opera dirompente che gli era valsa il Premio Hugo nel – guarda un po’ – 1968. Spinrad decide che quel racconto deve essere pubblicato, e comincia a ragionare su un’antologia dedicata alla New Wave fantascientifica (il movimento di rinnovamento del genere generatosi in Gran Bretagna sulle pagine della rivista New Worlds) al solo scopo di inserirvi la storia di Farmer. L’antologia The New Tomorrows viene pubblicata nel 1971 (in Italia verrà edita da “Galassia” cinque anni più tardi con il titolo, assai meno interessante, di Cristalli di futuro), e contiene racconti di scrittori importanti e innovativi come Michael Moorcock, Brian W. Aldiss, Harlan Ellison, Thomas M. Disch. Ma certo la storia più memorabile è quella di Farmer, intitolata Il dannato figlio della giungla impasticcato, seguito da un esplicativo Se William Burroughs, invece di Edgar Rice Burroughs, avesse scritto i romanzi di Tarzan.

 

Il gioco dello scrittore si chiarisce appena inizia la lettura del racconto, in cui Lord Greystoke, ovvero Tarzan, tiene una requisitoria alla Camera dei Lords contro gli “stronzi capitalisti”. Seguendo un flusso frammentario, frutto dell’immaginaria trascrizione di registrazioni realizzata da Bruce il Brachiale, il racconto è concepito con la medesima tecnica del cut-up messa a punto da William Burroughs (sulla scorta di Brion Gysin), e dunque procede per icastici flash di immagini, giochi di parole (spesso intraducibili), laterali rimandi ipertestuali. Non mancano i riferimenti ai miti della controcultura del tempo, ad esempio gli orgoni della bioenergetica reichiana. La scintilla – giocare sull’omonimia di Edgar Rice e William Burroughs – appare geniale poiché genera un corto circuito tra le istanze letterarie del primo e quelle del secondo, ovvero tra il campione di una scrittura industriale, capace come nessun altro di tradurre la materia oscura del Mito nella macchina dell’industria culturale, e il più rappresentativo esponente di quella dissonanza avanguardista nota come “Beat Generation”, votata al rifiuto della società di massa e delle sue forme.
Due logiche, due visioni del mondo, che apparirebbero tra loro inconciliabili. Eppure, proprio contaminando la potenza visionaria di una scrittura seriale votata all’iperdeclinazione audiovisiva (quintessenza della cultura di massa) con la ricerca estrema dell’espressione di un senso altro e de-massificato dell’agire artistico, Farmer afferma la possibilità di superare il vecchio quadro dei conflitti affermato dalle strategie della teoria critica. Tra le mani dello scrittore di Peoria, un testimone epocale che andrebbe riscoperto e sottratto all’oblio che oggi lo occulta, Tarzan diviene il momento di rottura delle ideologie sulla distinzione tra cultura di massa e cultura d’élite, dunque la frattura su cui si riassetta la possibilità di una identità culturale postmoderna. Nello straordinario sincretismo concepito da Farmer, in cui convivono la ricerca stilistica e la memoria profonda di un immaginario sedimentato su molteplici piani linguistici, il breve racconto su Tarzan diviene il punto d’equilibrio che ci permette di accedere a un significato nuovo della cultura di massa, e di intuirne il tramonto nell’ambito di un movimento complessivo della società e del suo rappresentarsi nelle forme narrative.

 


 

LETTURE

Farmer Philip José, I cavalieri del salario purpureo,
in Ellison Harlan (a cura di), Dangerous Visions, Mondadori, Milano, 1991.

Farmer Philip José, Il dannato figlio della giungla impasticcato,
in Spinrad Norman (a cura di), Cristalli di futuro, “Galassia” 211, La Tribuna, Piacenza, 1976.

 

space