U no tra i maggiori simboli di identificazione culturale del
nostro tempo è senza dubbio il cibo. Non tanto nel senso,
ovvio, che latitudini, paesi, comunità, gruppi religiosi
diversi hanno prodotti alimentari caratteristici e altrettante pratiche
di preparazione e di consumazione. Corre l’obbligo di
precisare, infatti, che le tradizioni alimentari sono difficilmente
osservabili nella loro purezza e località poiché
sono state alterate e contaminate da molteplici fattori: in primo luogo
dall’industrializzazione, che ha in un certo senso
meccanizzato e reso asettiche e impersonali quando non anonime e
lontane, molte fasi quotidiane relative alla preparazione e alla
consumazione del cibo; in secondo luogo, e in modo del tutto
complementare, la globalizzazione, che da un lato ha disseminato
specifiche usanze alimentari in ogni angolo del pianeta, tale per cui
si mangia indiano in Inghilterra, francese negli Stati Uniti, la pizza
a Budapest, il sushi a Roma; dall’altro, essa ha livellato e
omogeneizzato gusti e abitudini in ogni parte del mondo, al punto tale
che la diffusione mondiale della nota catena di fast food McDonald, che
propone infinite varietà di hamburger, è
responsabile di un’estensione semantica che, scavalcando i
confini alimentari, individua nella mcdonaldizzazione un processo,
sostanzialmente tendente al basso, di omologazione, omogeneizzazione e
diffusione di una cultura unica (Ritzer 1997). Ciò
che invece implica l’identificazione tra cibo e cultura
è il significato simbolico che accompagna in molti casi la
produzione, la preparazione e la consumazione del cibo. Questo infatti
diventa il veicolo, lo strumento materiale, per testimoniare
consapevolezza, attenzione e cura nei confronti di alcuni temi cruciali
della nostra epoca, come l’ecologia, la
sostenibilità, l’equità, la salute, la
riscoperta della natura e dell’autenticità. In
altri termini la cultura del cibo, della sua qualità, quando
non della sua eccellenza, diventa un elemento di distinzione che,
seguendo almeno in parte la lezione di Pierre Bourdieu, identifica, e
separa da altri, gruppi che condividono i medesimi stili di vita
(Bourdieu, 1983). Così, l’accesso ai prodotti di
coltivazione biologica, il rifiuto degli Ogm, la scelta delle
lenticchie di Ustica, del sale rosa dell’Himalaya, dei porri
di Cervere o dei limoni di Amalfi, non è solo una questione
di gusto o di salute. È, innanzitutto,
l’espressione di un’identità culturale
che spesso fatica a trovare altre vie di manifestazione. Afferente ad
una sfera del tutto particolare, che sovrappone necessità,
privato, ma anche svago e tempo libero, il cibo diventa il terreno di
esibizione esclusiva delle convinzioni più profonde e
identitarie, che arrivano anche a toccare la sfera del religioso.
Sembrerebbe dunque che le innumerevoli manifestazioni eno-gastronomiche
che attraversano in latitudine e longitudine la nostra penisola (ma
anche altre province dell’occidente), le Dop, le Doc, le
guide a tema, le rubriche televisive, gli inserti, il proliferare della
stampa specializzata e di alcune iniziative di risonanza mondiale come
il salone del gusto di Torino, Terra Madre e
l’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo,
siano i segni di una celebrazione del gusto e del cibo che colloca
questo aspetto, insieme cruciale e ordinario, della vita
dell’uomo in una dimensione di sacralità. |