Uno tra i maggiori simboli di identificazione culturale del
nostro tempo è senza dubbio il cibo. Non tanto nel senso,
ovvio, che latitudini, paesi, comunità, gruppi religiosi
diversi hanno prodotti alimentari caratteristici e altrettante pratiche
di preparazione e di consumazione. Corre l’obbligo di
precisare, infatti, che le tradizioni alimentari sono difficilmente
osservabili nella loro purezza e località poiché
sono state alterate e contaminate da molteplici fattori: in primo luogo
dall’industrializzazione, che ha in un certo senso
meccanizzato e reso asettiche e impersonali quando non anonime e
lontane, molte fasi quotidiane relative alla preparazione e alla
consumazione del cibo; in secondo luogo, e in modo del tutto
complementare, la globalizzazione, che da un lato ha disseminato
specifiche usanze alimentari in ogni angolo del pianeta, tale per cui
si mangia indiano in Inghilterra, francese negli Stati Uniti, la pizza
a Budapest, il sushi a Roma; dall’altro, essa ha livellato e
omogeneizzato gusti e abitudini in ogni parte del mondo, al punto tale
che la diffusione mondiale della nota catena di fast food McDonald, che
propone infinite varietà di hamburger, è
responsabile di un’estensione semantica che, scavalcando i
confini alimentari, individua nella mcdonaldizzazione un processo,
sostanzialmente tendente al basso, di omologazione, omogeneizzazione e
diffusione di una cultura unica (Ritzer 1997). Ciò
che invece implica l’identificazione tra cibo e cultura
è il significato simbolico che accompagna in molti casi la
produzione, la preparazione e la consumazione del cibo. Questo infatti
diventa il veicolo, lo strumento materiale, per testimoniare
consapevolezza, attenzione e cura nei confronti di alcuni temi cruciali
della nostra epoca, come l’ecologia, la
sostenibilità, l’equità, la salute, la
riscoperta della natura e dell’autenticità. In
altri termini la cultura del cibo, della sua qualità, quando
non della sua eccellenza, diventa un elemento di distinzione che,
seguendo almeno in parte la lezione di Pierre Bourdieu, identifica, e
separa da altri, gruppi che condividono i medesimi stili di vita
(Bourdieu, 1983). Così, l’accesso ai prodotti di
coltivazione biologica, il rifiuto degli Ogm, la scelta delle
lenticchie di Ustica, del sale rosa dell’Himalaya, dei porri
di Cervere o dei limoni di Amalfi, non è solo una questione
di gusto o di salute. È, innanzitutto,
l’espressione di un’identità culturale
che spesso fatica a trovare altre vie di manifestazione. Afferente ad
una sfera del tutto particolare, che sovrappone necessità,
privato, ma anche svago e tempo libero, il cibo diventa il terreno di
esibizione esclusiva delle convinzioni più profonde e
identitarie, che arrivano anche a toccare la sfera del religioso.
Sembrerebbe dunque che le innumerevoli manifestazioni eno-gastronomiche
che attraversano in latitudine e longitudine la nostra penisola (ma
anche altre province dell’occidente), le Dop, le Doc, le
guide a tema, le rubriche televisive, gli inserti, il proliferare della
stampa specializzata e di alcune iniziative di risonanza mondiale come
il salone del gusto di Torino, Terra Madre e
l’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo,
siano i segni di una celebrazione del gusto e del cibo che colloca
questo aspetto, insieme cruciale e ordinario, della vita
dell’uomo in una dimensione di sacralità. È
bene ricordare che ciò non costituirebbe ancora
un’eccezionalità tipica della nostra epoca,
infatti la relazione tra il cibo e il sacro si perde nella notte dei
tempi. Tuttavia, ciò che costituisce una differenza
sensibile è il contesto di scarsità,
sovrabbondanza o addirittura spreco, in cui tale relazione si colloca. Come
ha ben analizzato Émile Durkheim, il sacro e il profano sono
elementi di una stessa realtà sociale, che non sono tali una
volta per tutte, ma possono variare di segno a seconda della valenza
assegnata loro dalla collettività. A partire da questo
assunto, il sacro può diventare profano e viceversa, il puro
può diventare impuro, soprattutto essi devono rimanere
separati, benché complementari (Durkheim, 1963). Questa
ambiguità costitutiva che lega il sacro e il profano, ha il
suo momento di maggiore incisività e drammaticità
nel rituale, un particolare segmento spazio-temporale che interrompe la
normalità della vita della collettività. In
questa fase di eccezionalità, il sacro e il profano entrano
in relazione grazie alla mediazione di officianti autorizzati che
compiono azioni simboliche utilizzando elementi sacri, vale a dire
oggetti, elementi o esseri animati, i quali cessano di appartenere alla
sfera dell’uso comune e acquisiscono proprietà
straordinarie, vale a dire producono effetti efficaci grazie alle
pratiche di simbolizzazione. Durante queste celebrazioni anche i cibi
possono essere soggetti a trasfigurazioni: o assumendo
qualità straordinarie, si pensi ad esempio al caso
dell’eucarestia, o abbandonando temporaneamente divieti di
cui, per motivi diversi, alcuni alimenti sono normalmente oggetto, ed
è questo il caso di contesti di scarsità, in cui
una condizione oggettiva – profana – (la
rarità di un particolare prodotto) è inserita
“razionalmente” nella sfera del sacro.
Naturalmente, in questo caso siamo ancora di fronte ad una dimensione
religiosa del sacro, forse ormai del tutto scomparsa, difficile quindi
da osservare nei contesti a noi abituali. Tuttavia, si possono
osservare forme di ritualità testimoni del perdurare del
sacro anche in contesti secolarizzati e più estesi, in cui
non solo la funzione di coesione sociale svolta dal rituale viene
mantenuta, ma ad essa si aggiunge una capacità di
trasformazione dell’esperienza svolta grazie al significato
simbolico che esso assume nei diversi ambiti dell’esistenza
in cui è impegnato l’individuo (Douglas, 1975). In
questa estensione della sacralità si possono leggere
correttamente pratiche alimentari che riguardano il passato, anche
quello relativamente recente delle società contadine. Qui la
prescrizione alimentare non è più associata
strettamente alla sfera religiosa ma segue più da vicino il
ciclo delle stagioni e le contingenti condizioni di abbondanza (quando
non di sovrabbondanza) o di ristrettezza. A scandire questa dinamica i
rituali costituiscono segmenti spazio-temporali più o meno
brevi il cui segno distintivo è l’eccesso e la cui
conclusione riporta la collettività alla
normalità, per quanto questa sia talvolta anche dura e
faticosa. In questa prospettiva l’eccesso alimentare,
quantitativo o qualitativo, rientra in una dimensione di celebrazione
sacra, la cui effervescenza rende ancora
più compatta la comunità che vi partecipa.
Certo, proseguendo in questa direzione, anche la
contemporaneità si contraddistingue per
l’esistenza per quanto riguarda il cibo di una netta
separazione tra il sacro e il profano o, per usare le categorie di Mary
Douglas tra il puro e l’impuro: da un lato
l’agricoltura biologica, il turismo eno-gastronomico, le
certificazioni per le nicchie agro-alimentari, dall’altro gli
Ogm, i pesticidi, la diossina, i mangimi, gli estrogeni. Tuttavia si
delinea una differenza significativa, perché i processi di
contaminazione e purificazione tra le due categorie non sono quasi mai
espliciti ed evidenti; al contrario, la trasformazione assume spesso le
vesti dell’inganno. Così non sono le azioni
simboliche del rituale che trasformano, anche solo temporaneamente, il
profano, l’impuro nel sacro, puro. Nella contemporanea
sacralità del cibo l’impuro invade subdolamente il
puro e con effetti tanto più durevoli – e dannosi
– quanto più ignorati: i falsi prodotti biologici,
la cui percentuale è altissima, sono in realtà
l’affermazione di pratiche negative. In questo caso la
ritualità svolta dalla parola, vale a dire definizioni,
diciture, certificazioni che dovrebbero assicurare la
sacralità, non è una procedura simbolica, ma una
pratica di copertura di più ampi e materiali interessi
economici. Come nel sacro, anche nella ritualizzazione contemporanea
uno stesso elemento può avere valenza positiva o negativa,
ma, diversamente rispetto al sacro, non sempre si tratta di
un valore assegnato consapevolmente e congiuntamente dalla
collettività. Altri elementi ci indicano come il
presupposto della sacralità del cibo, vigente nella
contemporaneità, presenti aspetti problematici che mettono
in dubbio la correttezza di tale affermazione. Infatti, è
possibile individuare manifestazioni di un’altrettanto
evidente dissacrazione del cibo come, ad esempio, la diffusione del
fast food, il dilagare di un certo snobismo gastronomico che culmina
nella gastronomia molecolare e, infine, la diffusione di malattie
legate alla sovralimentazione. L’abitudine del fast food,
fortemente radicata a livello globale, anche se variamente declinata in
ambito locale, è probabilmente il caso più
lampante di come esista nella contemporaneità una forte
spinta dissacratoria nei confronti del cibo. Contrapposti alla
scansione lenta del rituale, al raccoglimento che esso implica, i
diversi momenti del consumo del cibo non solo soddisfano la medesima
fretta, ma implicano anche la contestualizzazione in luoghi inadatti,
scomodi, rumorosi, in cui spesso si è costretti a mangiare
in piedi, senza alcuna soluzione di continuità rispetto alle
attività abituali, profane. Non c’è
alcuna separazione tra attività e contesti: il lavoro, il
telefono, invadono lo spazio già angusto del fast food
cancellando anche il più remoto residuo di
sacralità, relegando il cibo ad un marginale, anche
se purtroppo necessario, ruolo di sfondo. Si mangia qualcosa
(cosa e in che modo non conta), cercando solo di minimizzare
i danni che questa interruzione arreca al flusso delle occupazioni
quotidiane. L’attenzione che in questo contesto il cibo in
quanto tale riesce a catturare ha la sua ragion d’essere solo
in relazione al sistema di attività in cui
l’individuo è inserito, le qualità
rispetto alle quali viene scelto – leggerezza,
quantità, sostanziosità, economicità
– sono in funzione dell’attività
interrotta che si riprenderà a svolgere dopo avere consumato
il pasto. Se la dissacrazione che viene perpetrata nei fast food
può essere ricondotta, per eccesso di semplificazione, ad
una pratica di massa, ci sono anche nicchie elitarie in cui si
raggiungono gli stessi effetti, partendo però da presupposti
diametralmente opposti, come è il caso
d’avanguardia della cucina molecolare. Qui
velocità, economicità, standardizzazione del
gusto sono bandite, sostituite apparentemente da un’aurea di
sacralità. Infatti, l’officiante autorizzato, il
gourmet, lo chef di fama, in un ambiente di sacralità
assoluta trasforma un materiale ordinario in uno strumento simbolico
dotato di qualità soprannaturali nel senso letterale del
termine. In questo modo oggetti alimentari banali e universalmente
riconoscibili come la pasta al pomodoro, l’arrosto, il
gelato, sono opportunamente trattati, trasformati e deformati, tramite
azoto, atmosfera modificata, e via così in elementi
misteriosi, di cui è impossibile riconoscere le normali
qualità organolettiche, vale a dire colore, odore, sapore,
consistenza, forma; capaci di condurre ad un’esperienza del
gusto pura, essenziale, e destinata a pochi eletti. Tuttavia, in questo
preciso contesto il sacro è solo apparente. Al contrario,
anche questa è una dissacrazione del cibo. Nel sacro il cibo
è trasfigurato dall’esterno ad opera delle azioni
dell’officiante perché ad esso vengono attribuiti,
infusi, poteri straordinari: nel rituale dell’eucarestia, ad
esempio, l’ostia di pane rimane immutata da un punto di vista
organolettico per tutta la durata del rituale, ciò che si
trasforma, in virtù di un’attribuzione simbolica,
è il suo significato. Nella cucina molecolare è
il materiale alimentare che viene trasformato, in virtù di
un’azione pratico-materiale, in ogni suo aspetto, il che ne
rende problematico, alla fine, il significato, poiché si
genera un’inversione. Infatti, nel sacro è il
rituale che determina la trasformazione simbolica, mentre nel caso
elitario dell’avanguardia gastronomica è la
trasformazione fisica che attiva (o perlomeno lascia presupporne
l’attivazione) un rituale. Ma c’è ancora
un altro aspetto che registra la dilagante dissacrazione del cibo, ed
è relativo all’aumento costante ed esponenziale
delle patologie associabili alla malnutrizione, in particolare alla
sovralimentazione, di cui il diabete è forse la
manifestazione più emblematica. Il rapporto tra cibo e
popolazione nel mondo occidentale può essere, almeno finora,
letto in chiave di abbondanza, nel senso che tutti dispongono di tale
risorsa in quantità più che sufficiente. Un esame
più analitico mette però in evidenza come si
tratti di un’abbondanza che presenta modalità e
caratteristiche sensibilmente differenti nei diversi casi,
benché, tutto sommato, i suoi effetti siano da considerarsi
del tutto simili. L’accesso al e il consumo di cibo
può essere quindi considerato come un continuum
in cui ad un estremo stanno quelle fasce di popolazione che
accedono per il loro livello di reddito ad un
consumo di qualità e che per questo motivo, possono
indulgere nella ricerca di piaceri del gusto sempre più
elevati ed esclusivi; all’altro estremo stanno invece quelle
fasce che per le limitate possibilità di cui dispongono
accedono al cibo di costo ridotto e di qualità inferiore in
cui si abbassano le percentuali dei nutrienti ed aumentano
vertiginosamente quelle delle calorie. È evidente che
quest’ultimo gruppo è esposto in maniera massiccia
ad un eccesso di calorie e di grassi responsabili di favorire una serie
di patologie legate alla sovralimentazione, che passando
dall’obesità, dall’ipertensione, dalla
colesterolemia, possono sfociare nel diabete, ormai quasi una pandemia,
particolarmente subdola perché manifesta sintomi tardivi.
Per contro, anche se in maniera meno evidente, l’altro
gruppo, quello elitario, soggiace di fatto quasi allo stesso danno. In
questo caso la scelta del cibo è accurata, di
qualità, ma la ricerca del piacere nella sfera del gusto e,
in questa sfera, la ricerca di piaceri sempre più intensi,
come acutamente ha osservato Zygmunt Bauman (Bauman, 1999) porta ad
eccessi altrettanto dannosi non per la scadente qualità del
cibo, ma per l’eccessiva moltiplicazione delle occasioni di
consumo, dando vita a situazioni paradossali, tutte postmoderne, in cui
la seduzione del piacere del cibo deve essere temperata, quasi
annullata, dal rigore delle diete e dell’esercizio fisico. Se
il cibo sacro acquisisce la capacità di purificare, di
guarire, di salvare, nel caso della sovralimentazione, al contrario,
esso diventa veicolo profano di malattie, ed espressione evidente di
dissacrazione. Questi sono solo alcuni casi esemplari, cui si potrebbe
obiettare che lungi dal decretare la desacralizzazione contemporanea
del cibo, altro non fanno se non sottolineare la
contraddittorietà ed ambiguità della
contemporanea cultura del cibo. Indubbiamente paradossi e
contraddizioni sono aspetti che definiscono anche questa importante
sfera culturale. Tuttavia, non sono poche le tracce che fanno
ragionevolmente dubitare dell’autenticità della
sacralità del cibo. Vista da vicino, si tratta piuttosto di
una sacralità apparente o simulata, o meglio, svuotata,
nella quale permangono gli aspetti esteriori, vale a dire le azioni, la
liturgia, ma vengono a mancare le condizioni fondamentali e i
significati, tali per cui il legame simbolico e le funzioni del sacro
restano estranei. In particolare, si dissolvono le cesure
spazio/temporali tramite cui il sacro ha sempre intagliato la
ripetitività e la regolarità della vita
quotidiana. L’eccezionalità,
l’effervescenza del rituale non svolgono più
alcuna funzione sociale, non svolgono un’azione capace di
rafforzare la coesione della comunità. Nella nostra
contemporaneità l’eccesso, che nel sacro era
rigidamente definito entro ristretti limiti spazio/temporali,
oltrepassa per sempre questi limiti, diventa infinito. Esso non
è più un aspetto complementare e circoscritto
della scarsità, al contrario, dilaga – a
dire il vero non soltanto in campo alimentare – senza alcuna
possibilità di controllo riducendo la sacralità
ad un riflesso ormai deformato, un simulacro. E tanto più
l’eccesso è lontano dalla sacralità,
tanto più esso si afferma come sacralità
aberrante e vicaria, come desacralizzazione. Il cibo diventa quindi
oggetto di una pseudo ritualità quasi quotidiana, che
diventa quasi iterazione, per celebrare il mito
dell’autentico, del legame con l’origine, con la
natura. Un legame difficilmente esteriorizzabile e ripercorribile
attraverso altre ricostruzioni culturali, soprattutto quando le
incertezze, le ansie, le catastrofi che caratterizzano la
contemporaneità spingono minacciosamente gli uomini in una
direzione completamente opposta, non quella del mito
dell’origine e della natura, bensì quella del mito
dell’apocalisse. In tale contesto il cibo diventa un ganglio
vitale attraverso cui passa l’affermazione della propria
identità individuale e collettiva, ma anche una forma di
sopravvivenza comune. Inoltre, è un elemento della cultura
che passa attraverso il trattamento della desacralizzazione. Uno degli
aspetti più interessanti di questa desacralizzazione
è il fatto che il cibo non è più
elemento di una liturgia totalizzante, come ad esempio
nell’eucaristia, in cui il cibo diventa simbolo non solo del
corpo della divinità, ma anche momento fondamentale di tutto
il sistema religioso. Nella desacralizzazione diventa esso stesso
liturgia autonoma e completa di cui esistono officianti, partecipanti,
oggetti e simboli sacri, il cui unico compito è quello di
celebrarlo. Si tratta di un chiaro esempio di secolarizzazione del
sacro, che si insedia in specifici settori della vita sociale e in
virtù di tale spostamento viene adattato ed attualizzato
alle nuove esigenze, in cui la ritualità si
confonde sempre di più con l’iterazione (Segalen
2002). La desacralizzazione del cibo, che si manifesta come
sacralità apparente, può essere inserita
nell’ambito più esteso di una climatologia
dell’eccezionale e dell’eccesso che costituisce
l’atmosfera dei nostri tempi moderni. Il consumo ritualizzato
del cibo è un eccesso infinito del quale manca qualsiasi
indizio di razionalizzazione sociale, poiché
scarsità e abbondanza non sono più indicatori
significativi dei cicli di vita. Al loro posto il consumo continuo, lo
spreco, l’eccezionalità seriale sono un gioco di
specchi, un rimando all’infinito di cui è diventa
arduo svelare il significato. L’eccesso è una
condizione di normalità, in cui l’isolamento
spazio-temporale è cancellato. Non c’è
più il pranzo della domenica, la torta di compleanno, il
cibo di carnevale o quello della Quaresima; anche il venerdì
magro è stato ormai abolito dalle istituzioni che gestiscono
il sacro religioso – la Chiesa cattolica – e
demandato agli usi privati; come asseriva una vecchia
pubblicità “ogni giorno è una
festa”. E anche considerando la secolarizzazione
del sacro, emerge sempre più chiaramente come si tratti,
anche in questo caso, di desacralizzazione. Ogni momento di relazione
con il cibo è sacro, e tale rapporto non rappresenta
l’eccezionalità, ma la norma, dalla quale non
emerge alcune significato sociale profondo, ma, nella migliore delle
ipotesi, una costruzione identitaria che passa per la coltivazione del
gusto, quando invece non si riduca ad una superficiale quanto
accondiscendente imitazione di atteggiamenti che favorisce le tendenze
del momento imposte da precisi, per quanto legittimi, interessi
economici. Così dalle prescrizioni degli esperti, dai dogmi
dei guru del sapore e dell’autenticità si
riproduce una ritualità personale che appare, malgrado le
intenzioni, sempre più inautentica e, sempre più
spesso, ridicola, perché semplice imitazione alla quale gli
attori stessi sono incapaci di attribuire un significato. E
poiché in questa società dello
spettacolo la normalità è una delle
peggiori disgrazie che possano capitare, dalla spesa alla
modalità di consumo, dalle stoviglie agli utensili, il sacro
è a portata di mano. Il cibo sacro, quindi, è il
cibo di tutti i giorni. Dimentichi di quel contatto che il sacro apre
con un mondo altro, soprannaturale, non comune – in senso
laicamente religioso – anche la più semplice
tavola calda è ormai in grado di celebrare la
sacralità dei prodotti che offre, li trasfigura in un flusso
ininterrotto che ci accompagna dal caffé del mattino a
quello della sera. A sottolineare il declino della
normalità in favore dell’eccesso e
dell’eccezionalità permanenti è
l’uso iperbolico della sineddoche prodotto dal linguaggio
sacro del cibo: il pomodoro è ormai solo pachino, la
mozzarella obbligatoriamente bufala (sorvolando sul doppio senso), la
carne bovina fassone o chianina, per non fare che qualche esempio. Una
vera e propria linea di demarcazione che separa i normali dagli
iniziati e tra questi stabilisce una rigida gerarchia: il mancato
riconoscimento di una definizione comporta il declassamento immediato
nell’inferiore girone dei normali. Inserita di diritto in
questo processo è la moltiplicazione degli strumenti per
officiare il culto di questa cultura del cibo. Un semplice oggetto di
uso comune, come il bicchiere, si specializza e si
diversifica nella forma e nelle funzioni, uno strumento
capace di mettere alla prova la competenza,
l’affidabilità e anche la fedeltà
stessa dell’officiante. L’anonimo bicchiere quindi,
diventa un calice da degustazione, diverso a seconda che debba
contenere un vino bianco, poco o molto strutturato, oppure un vino
rosso, giovane o invecchiato, o ancora uno spumante, dolce o secco, o
un passito, e tale meticolosa e fondamentale divisione è
osservata con rigore, o semplicemente imitata (non senza grossolani
errori) dal grande ristorante come dalla tavola calda e dai privati,
nei pasti normali e fast di tutti i giorni come nelle occasioni
più solenni e slow. Anche al pasto più normale
della quotidianità è assicurata la sua quota di
ritualità sacra, e si consuma all’insegna
dell’eccesso, quantitativo e qualitativo. Nemmeno
l’acqua sfugge all’eccesso infinito di
eccezionalità. “L’acqua è
inodore, incolore e insapore” è un assioma ormai
falsificato. Al contrario, le acque hanno
classificazioni complesse, definite da sapori e caratteristiche
particolari. Un ventaglio di qualità e sfumature che sono
trasmesse attraverso esoterici corsi di degustazione, in cui si
può apprendere a riconoscere, scegliere e infine abbinare la
giusta acqua al giusto piatto. Tali e differenti esempi,
particolarmente frammentari e incompleti, oltre a costituire
le istantanee della nostra contemporaneità, non fanno altro
che avvalorare un’ipotesi avanzata da Bauman già
da tempo e che può essere un’utile chiave di
lettura per comprendere questa desacralizzazione del cibo che assume il
valore di sacralizzazione vicaria. A seguire Bauman, una delle
differenze tra l’uomo moderno e l’uomo postmoderno
risiede nel fatto che mentre il primo è definibile come un
approvvigionatore di beni, come un corpo che consuma il necessario al
proprio sostentamento, il secondo si caratterizza come cercatore di
sensazioni, vale a dire come corpo che, in quanto recettore
“assorbe e assimila esperienze, e la sua attitudine e
capacità ad essere stimolato lo trasforma in strumento di
piacere”. In questa esperienza sensibile, fondamentale
è la qualità delle sensazioni “che
devono essere intense e profondamente gratificanti,
‘emozionanti’, ‘affascinanti’,
‘incantevoli’,
‘estasianti’” (Bauman 1999, p. 113).
Tuttavia, proprio perché risultato di
un’esperienza vissuta, soggettiva, quindi difficilmente
comunicabile e ancora meno misurabile, la sensazione più
intensa rimane un’ideale non solo irraggiungibile, ma anche
inconoscibile. L’insoddisfazione e il senso di inadeguatezza
(incapacità di registrare il massimo piacere) che ne deriva
possono essere tenute a bada e incanalate anche grazie alle forme di
sacralizzazione vicaria a cui abbiamo accennato. Per certi aspetti si
tratta di una sacralizzazione aberrante, poiché
l’uomo incorpora come sacre ritualità che non
appartengono al sacro in senso stretto, né ad una versione
secolarizzata del sacro. Si tratta di quella sacralità
apparente di cui è costellata la vita dell’uomo
postmoderno e che Siegfried Kracauer, già nei primi decenni
del XX secolo, ascriveva alla modernità nella forma di
quelle piccole ritualità meccaniche che scandiscono la
quotidianità urbana (cfr. Kracauer 1982 e 2002). La cultura
del cibo, la celebrazione del gusto a cui pare non si possa sfuggire,
si connota dunque come un’esperienza estetica,
un’avventura sensibile – senza dimenticare la sua
implicazione economica – che testimonia la pratica
dell’eccesso infinito tipica del clima culturale in cui siamo
immersi. Ma, al di là del fatto che si tratti spesso di un
comportamento di tendenza e non di un’autentica
esperienza del sacro, anzi, al contrario, di una forma di
desacralizzazione del cibo, non ci impedisce di riconoscerne
l’importanza e la potenzialità, sia pur ambigue e
contraddittorie, che tale pratica riveste per la società
dell’incertezza di cui facciamo parte. Forse
l’apertura intravista da Bauman è troppo
ottimista: la ricerca del piacere, la pratica di assaporare il mondo
porrebbe il soggetto, in quanto collezionista di sensazioni, in una
posizione di apertura, di tolleranza verso
l’alterità; e tale atteggiamento si costituirebbe,
almeno in potenza, come disponibilità etica, come
responsabilità (Bauman 1999, p.125). Il nostro punto di
vista evidenzia aspetti diversi, pur rimanendo vicino
all’analisi di Bauman. Infatti, ciò che per noi
assume una valenza positiva è il fatto che desacralizzazione
e riduzione a fenomeno di moda della cultura del cibo abbiano, anche in
modo del tutto involontario, un effetto di sensibilizzazione nei
confronti dell’isola climatica che in
quanto esseri umani localizzati abitiamo, quindi
un’attenzione all’altro non solo in quanto
appartenente alla nostra stessa specie, ma in quanto animale o elemento
naturale, in una stretta dipendenza di modalità di
interazione (Sloterdijk, 2005). Questo effetto però, e in
questo risiede la differenza da Bauman, non consiste in una
possibilità esistente in potenza e auspicata; ma si
realizza, in virtù di una casualità che impasta,
come Sloterdijk mostra insuperabilmente, contingenza e
volontà, derive collettive e iniziative personali, e che
parte proprio dagli eccessi e dalle aberrazioni di una forma di
desacralizzazione contemporanea. Dobbiamo quindi rassegnarci
all’inefficacia delle polarizzazioni alle quali siamo
abituati, a immaginare categorie altre, a dipanare
l’intricata matassa del senso non avendo a disposizione che
materiali ambigui e paradossali di cui l’eccesso infinito a
cui ci pone davanti la cultura del cibo non è che un
esempio, ma anche la prossima sfida.
:: letture ::
— Bauman Z., La società
dell’incertezza, Bologna, il Mulino, 1999.
— Bourdieu P., La distinction, 1979,
trad . it. La distinzione, Bologna, il Mulino,1983.
— Douglas M., Purity and Danger. An Analysis of
Concepts of Pollution and Taboo, 1966, trad. it. Purezza
e pericolo: un’analisi dei concetti di contaminazione e di
tabù, Bologna, Il Mulino, 1975.
— Durkheim E. Les formes
élémentaires de la vie religieuse,
1912, trad . it. Le forme elementari della vita
religiosa, Milano, Edizioni di comunità, 1963.
— Kracauer S., The Salaried Masses: Duty and
Distraction in Weimar Germany, , trad. it., La
fabbrica del disimpegno, 1998, Napoli, L’Ancora del
Mediterraneo, 2002.
— Kracauer S., Das Ornament der Masse
Straßen in Berlin und Anderswo, 1963-1964, trad .
it. La massa come ornamento, Napoli,
Prismi, 1982.
— Ritzer G., The McDonaldization of Society,
1993, trad . it. Il mondo alla McDonald’s,
Bologna, il Mulino, 1997.
— Segalen M. (1998), Rites et rituels contenporains,
1998, trad. it. Riti e rituali contemporanei,
Bologna, il Mulino, 2002.
— Sloterdijk P. (2003), Écumes.
Sphères III, Paris, Hachette, 2005.
|