È
bene ricordare che ciò non costituirebbe ancora
un’eccezionalità tipica della nostra epoca,
infatti la relazione tra il cibo e il sacro si perde nella notte dei
tempi. Tuttavia, ciò che costituisce una differenza
sensibile è il contesto di scarsità,
sovrabbondanza o addirittura spreco, in cui tale relazione si colloca. Come
ha ben analizzato Émile Durkheim, il sacro e il profano sono
elementi di una stessa realtà sociale, che non sono tali una
volta per tutte, ma possono variare di segno a seconda della valenza
assegnata loro dalla collettività. A partire da questo
assunto, il sacro può diventare profano e viceversa, il puro
può diventare impuro, soprattutto essi devono rimanere
separati, benché complementari (Durkheim, 1963). Questa
ambiguità costitutiva che lega il sacro e il profano, ha il
suo momento di maggiore incisività e drammaticità
nel rituale, un particolare segmento spazio-temporale che interrompe la
normalità della vita della collettività. In
questa fase di eccezionalità, il sacro e il profano entrano
in relazione grazie alla mediazione di officianti autorizzati che
compiono azioni simboliche utilizzando elementi sacri, vale a dire
oggetti, elementi o esseri animati, i quali cessano di appartenere alla
sfera dell’uso comune e acquisiscono proprietà
straordinarie, vale a dire producono effetti efficaci grazie alle
pratiche di simbolizzazione. Durante queste celebrazioni anche i cibi
possono essere soggetti a trasfigurazioni: o assumendo
qualità straordinarie, si pensi ad esempio al caso
dell’eucarestia, o abbandonando temporaneamente divieti di
cui, per motivi diversi, alcuni alimenti sono normalmente oggetto, ed
è questo il caso di contesti di scarsità, in cui
una condizione oggettiva – profana – (la
rarità di un particolare prodotto) è inserita
“razionalmente” nella sfera del sacro.
Naturalmente, in questo caso siamo ancora di fronte ad una dimensione
religiosa del sacro, forse ormai del tutto scomparsa, difficile quindi
da osservare nei contesti a noi abituali. Tuttavia, si possono
osservare forme di ritualità testimoni del perdurare del
sacro anche in contesti secolarizzati e più estesi, in cui
non solo la funzione di coesione sociale svolta dal rituale viene
mantenuta, ma ad essa si aggiunge una capacità di
trasformazione dell’esperienza svolta grazie al significato
simbolico che esso assume nei diversi ambiti dell’esistenza
in cui è impegnato l’individuo (Douglas, 1975). In
questa estensione della sacralità si possono leggere
correttamente pratiche alimentari che riguardano il passato, anche
quello relativamente recente delle società contadine. Qui la
prescrizione alimentare non è più associata
strettamente alla sfera religiosa ma segue più da vicino il
ciclo delle stagioni e le contingenti condizioni di abbondanza (quando
non di sovrabbondanza) o di ristrettezza. A scandire questa dinamica i
rituali costituiscono segmenti spazio-temporali più o meno
brevi il cui segno distintivo è l’eccesso e la cui
conclusione riporta la collettività alla
normalità, per quanto questa sia talvolta anche dura e
faticosa. In questa prospettiva l’eccesso alimentare,
quantitativo o qualitativo, rientra in una dimensione di celebrazione
sacra, la cui effervescenza rende ancora
più compatta la comunità che vi partecipa. |