LA PORTATA… DISSACRANTE DEL POSTMODERNO
di Fiorenza Gamba |
foto di Ambra Zeni | ||
Così dalle prescrizioni degli esperti, dai dogmi dei guru del sapore e dell’autenticità si riproduce una ritualità personale che appare, malgrado le intenzioni, sempre più inautentica e, sempre più spesso, ridicola, perché semplice imitazione alla quale gli attori stessi sono incapaci di attribuire un significato. E poiché in questa società dello spettacolo la normalità è una delle peggiori disgrazie che possano capitare, dalla spesa alla modalità di consumo, dalle stoviglie agli utensili, il sacro è a portata di mano. Il cibo sacro, quindi, è il cibo di tutti i giorni. Dimentichi di quel contatto che il sacro apre con un mondo altro, soprannaturale, non comune – in senso laicamente religioso – anche la più semplice tavola calda è ormai in grado di celebrare la sacralità dei prodotti che offre, li trasfigura in un flusso ininterrotto che ci accompagna dal caffé del mattino a quello della sera. A sottolineare il declino della normalità in favore dell’eccesso e dell’eccezionalità permanenti è l’uso iperbolico della sineddoche prodotto dal linguaggio sacro del cibo: il pomodoro è ormai solo pachino, la mozzarella obbligatoriamente bufala (sorvolando sul doppio senso), la carne bovina fassone o chianina, per non fare che qualche esempio. Una vera e propria linea di demarcazione che separa i normali dagli iniziati e tra questi stabilisce una rigida gerarchia: il mancato riconoscimento di una definizione comporta il declassamento immediato nell’inferiore girone dei normali. Inserita di diritto in questo processo è la moltiplicazione degli strumenti per officiare il culto di questa cultura del cibo. Un semplice oggetto di uso comune, come il bicchiere, si specializza e si diversifica nella forma e nelle funzioni, uno strumento capace di mettere alla prova la competenza, l’affidabilità e anche la fedeltà stessa dell’officiante. L’anonimo bicchiere quindi, diventa un calice da degustazione, diverso a seconda che debba contenere un vino bianco, poco o molto strutturato, oppure un vino rosso, giovane o invecchiato, o ancora uno spumante, dolce o secco, o un passito, e tale meticolosa e fondamentale divisione è osservata con rigore, o semplicemente imitata (non senza grossolani errori) dal grande ristorante come dalla tavola calda e dai privati, nei pasti normali e fast di tutti i giorni come nelle occasioni più solenni e slow. Anche al pasto più normale della quotidianità è assicurata la sua quota di ritualità sacra, e si consuma all’insegna dell’eccesso, quantitativo e qualitativo. Nemmeno l’acqua sfugge all’eccesso infinito di eccezionalità. “L’acqua è inodore, incolore e insapore” è un assioma ormai falsificato. Al contrario, le acque hanno classificazioni complesse, definite da sapori e caratteristiche particolari. Un ventaglio di qualità e sfumature che sono trasmesse attraverso esoterici corsi di degustazione, in cui si può apprendere a riconoscere, scegliere e infine abbinare la giusta acqua al giusto piatto. Tali e differenti esempi, particolarmente frammentari e incompleti, oltre a costituire le istantanee della nostra contemporaneità, non fanno altro che avvalorare un’ipotesi avanzata da Bauman già da tempo e che può essere un’utile chiave di lettura per comprendere questa desacralizzazione del cibo che assume il valore di sacralizzazione vicaria. | ||
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