LA PORTATA… DISSACRANTE DEL POSTMODERNO
di Fiorenza Gamba |
foto di Ambra Zeni | ||
E tanto più l’eccesso è lontano dalla sacralità, tanto più esso si afferma come sacralità aberrante e vicaria, come desacralizzazione. Il cibo diventa quindi oggetto di una pseudo ritualità quasi quotidiana, che diventa quasi iterazione, per celebrare il mito dell’autentico, del legame con l’origine, con la natura. Un legame difficilmente esteriorizzabile e ripercorribile attraverso altre ricostruzioni culturali, soprattutto quando le incertezze, le ansie, le catastrofi che caratterizzano la contemporaneità spingono minacciosamente gli uomini in una direzione completamente opposta, non quella del mito dell’origine e della natura, bensì quella del mito dell’apocalisse. In tale contesto il cibo diventa un ganglio vitale attraverso cui passa l’affermazione della propria identità individuale e collettiva, ma anche una forma di sopravvivenza comune. Inoltre, è un elemento della cultura che passa attraverso il trattamento della desacralizzazione. Uno degli aspetti più interessanti di questa desacralizzazione è il fatto che il cibo non è più elemento di una liturgia totalizzante, come ad esempio nell’eucaristia, in cui il cibo diventa simbolo non solo del corpo della divinità, ma anche momento fondamentale di tutto il sistema religioso. Nella desacralizzazione diventa esso stesso liturgia autonoma e completa di cui esistono officianti, partecipanti, oggetti e simboli sacri, il cui unico compito è quello di celebrarlo. Si tratta di un chiaro esempio di secolarizzazione del sacro, che si insedia in specifici settori della vita sociale e in virtù di tale spostamento viene adattato ed attualizzato alle nuove esigenze, in cui la ritualità si confonde sempre di più con l’iterazione (Segalen 2002). La desacralizzazione del cibo, che si manifesta come sacralità apparente, può essere inserita nell’ambito più esteso di una climatologia dell’eccezionale e dell’eccesso che costituisce l’atmosfera dei nostri tempi moderni. Il consumo ritualizzato del cibo è un eccesso infinito del quale manca qualsiasi indizio di razionalizzazione sociale, poiché scarsità e abbondanza non sono più indicatori significativi dei cicli di vita. Al loro posto il consumo continuo, lo spreco, l’eccezionalità seriale sono un gioco di specchi, un rimando all’infinito di cui è diventa arduo svelare il significato. L’eccesso è una condizione di normalità, in cui l’isolamento spazio-temporale è cancellato. Non c’è più il pranzo della domenica, la torta di compleanno, il cibo di carnevale o quello della Quaresima; anche il venerdì magro è stato ormai abolito dalle istituzioni che gestiscono il sacro religioso – la Chiesa cattolica – e demandato agli usi privati; come asseriva una vecchia pubblicità “ogni giorno è una festa”. E anche considerando la secolarizzazione del sacro, emerge sempre più chiaramente come si tratti, anche in questo caso, di desacralizzazione. Ogni momento di relazione con il cibo è sacro, e tale rapporto non rappresenta l’eccezionalità, ma la norma, dalla quale non emerge alcune significato sociale profondo, ma, nella migliore delle ipotesi, una costruzione identitaria che passa per la coltivazione del gusto, quando invece non si riduca ad una superficiale quanto accondiscendente imitazione di atteggiamenti che favorisce le tendenze del momento imposte da precisi, per quanto legittimi, interessi economici. | ||
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