MALESSERE DELL'ARTE E INTERVENTI D'URGENZA
a cura di Antonello Tolve e Eugenio Viola
10. GALLERIE, MERCATO |
L’associazione mercato-sperimentazione sembra essere ancora oggi un binomio antitetico. Tradizionalmente irriducibile: basti pensare alla posizione di Theodor Adorno, secondo il quale l’unica arte possibile è un’arte completamente refrattaria al mercato, o a quella opposta di Karl Marx, che considera l’opera d’arte in virtù del suo valore commerciale, passando per quella di Walter Benjamin, che riconosce invece nelle nuove tecnologie riproduttive una progressiva democratizzazione dell’arte. La difficoltà di colmare il divario tra la commercializzazione dell’opera d’arte e la sperimentazione è dettato dall’allontanamento sempre più marcato dell’opera d’arte stessa dalla “oggettualità”. Tale progressiva separazione, iniziata ormai al principio dello scorso secolo, va sempre più approfondendosi, allargando la sfera delle arti visive a tutti i campi del sapere. Una trasversalità che rende progressivamente più labili i confini dell’arte e sempre più difficile una categorizzazione e una, conseguente, commercializzazione.
È sempre più evidente la diffusione di un’arte a carattere sociale, partecipativo, performativo e ovviamente politico che molto spesso poco o nulla lascia di tangibile alle sue spalle, talvolta la documentazione, che solo in alcuni casi viene “eletta” ad opera stessa. Un fenomeno presente da molti decenni nella storia dell’arte, e anch’esso nel tempo palesemente fagocitato dal mercato, oggi tornato prepotentemente alla ribalta, anche se è difficile prevedere in prospettiva progressiva quanto a lungo reggerà nel mercato e nelle highlight delle aste internazionali. È questo il caso di un’arte che, al di là del linguaggio utilizzato, mira alla partecipazione collettiva, alla presa di coscienza, alla denuncia, alla posizione di domanda, decisamente lontana da un’estetica compiaciuta e compiacente, e quindi difficilmente posizionabile in un ambito economico. Tornando alla commercializzazione dell’arte, è doveroso un distinguo tra le due figure chiave del mercato: il mercante e il gallerista. Il primo persegue fondamentalmente l’aspetto economico dell’arte, il cui credo principale risiede nella monetizzazione dell’oggetto ARTE – e qui ci si potrebbe dilungare dissertando sull’opportunità di valutare l’arte alla stregua di un’altra qualsiasi merce, in quanto depositaria inevitabilmente di un valore economico che va al di là della sua presunta aura, almeno in una società capitalistica. Il secondo esercita un ruolo attivo nella crescita dell’artista, nelle sue produzioni fino alla gestione strategica del collezionismo, cui comunque alla fine mira. Il gallerista condivide con l’artista uno sguardo visionario, è un compagno di strada. Rischia in prima persona partecipando, se non alla fase demiurgica, alla decodificazione e successiva effettiva collocazione nell’emisfero tangibile della realtà, e quindi anche del mercato. Alcune brillanti fiere d’arte contemporanea, come un tempo le famigerate Esposizioni Universali, tentano oggi di combinare – e in qualche modo di nobilitare – l’aspetto del commercio con quello della sperimentazione. Realtà diversificate che, a dispetto della crisi mondiale, continuano a crescere per numero e dimensioni in Italia come all’estero, dalla più rinomata Art Basel alla più giovane Frieze, senza tralasciare la nostrana Artissima Torino, che offrono al pubblico sezioni a carattere progettuale e curatoriale, con lo scopo di mostrare uno spaccato su alcune specificità artistiche o tendenze presumibilmente meno commercializzabili.
Il pubblico di una fiera, composto da potenziali compratori ma
non solo, è così in qualche modo
guidato in una “giugla di merci”, grazie a
pre-selezioni di esperti che hanno l’obbiettivo di
offrire un taglio non meramente commerciale di un happening mondano
come una fiera. Nonostante la contraddizione in fieri
tra commercio e sperimentazione sia ormai abbastanza frequente, perfino
in Italia i nuovi linguaggi riescono ad infiltrarsi nei templi
più consacrati e invalicabili dell’arte.
L’esigenza di sperimentazione, di indagine diretta sul
presente, ha determinato, non a caso, l’apertura di spazi ad
hoc quali Project Room, Video
Room, Laboratori Multimediali, ed altro,
sia all’interno di gallerie altisonanti che di istituzioni
storicizzate. È, questo, un modo per i Musei di offrire da
un lato uno spaccato sulla contemporaneità più
avanzata, ancora non codificata dalla storia, dall’altro di
instaurare una dinamica produttiva con le energie più
giovani, e per le gallerie di coniugare le doppia esigenza di vendita e
di novità – in entrambi i casi
“addestrando” dolcemente il pubblico, coadiuvato
dall’attività di critici e curatori. La storia ci
insegna che le gallerie private hanno molto spesso anticipato il ruolo
delle istituzioni legittimando con largo anticipo le sperimentazioni
degli artisti. L’Italia in questo ambito ha sempre sofferto
di eccessivo accademismo-conservatorismo soprattutto a causa
dell’assenza di una politica sistematica di indagine sul
contemporaneo e la mancanza di una strategia centrale per la fondazione
di spazi più elastici e duttili come il modello francese dei
Plateau o quello tedesco delle Kunsthalle.
Realtà invece sempre più diffuse sia in Europa
che in America sono gli spazi no profit, spesso
fondati direttamente da artisti o collettivi, che nel dichiararsi
aprioristicamente senza scopo di lucro danno sfogo liberamente alla
creatività e ad offerte culturali trasversali in maniera,
almeno a prima vista, del tutto avulsa dal riscontro
economico.
L’esigenza di colmare le
divergenze tra commercializzazione dell’arte e
sperimentazione di nuovi linguaggi non può però
essere affidata esclusivamente alla lungimiranza e
visionarietà del soggetto privato, sia esso gallerista o
collezionista illuminato. L’urgenza, a
nostro avviso, è proprio in questa effettiva
difficoltà – in questa zona grigia. È
in questo caso che l’istituzione culturale, e nella
fattispecie museale – alla stregua per altro di ogni altro
ambito di ricerca intellettuale – dovrebbe intervenire
supportando la produzione e ovviamente la conseguente conservazione o
musealizzazione di opere “non tradizionali”, il cui
soggetto finale deve essere, presumibilmente, non un unico
collezionista, ma l’intera comunità.