MALESSERE DELL'ARTE E INTERVENTI D'URGENZA
a cura di Antonello Tolve e Eugenio Viola
07. OPERE E PREMI, |
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Ci sono domande così banali che raramente capita di
porsi e tantomeno di rivolgere ad altri. Naturalmente evitare
banalità è una cosa apprezzabile. Ma quando la
domandina – proprio quella che forse ci era anche passata per
la testa e si era opportunamente evitata – salta fuori per
opera del solito incauto interlocutore, può non essere
facile ricacciarla nel limbo indistinto delle cose che guardiamo,
facciamo o accettiamo senza porci appunto molte domande e senza dare di
conseguenza molte risposte. Quindi eccola qua: che senso ha premiare un
artista e/o un’opera d’arte? Non ricordiamo chi
l’aveva posta, ma ricordiamo bene di aver tentato di far
finta di niente. Il questionante – in effetti non
così inutile – doveva essersi accorto della nostra
difficoltà e non mancò l’occasione di
sfruttare il vantaggio ottenuto, insistendo sul fatto che
sull’argomento si dovessero avere idee chiare data la nostra
posizione, il nostro ruolo e quello che avevamo scritto e detto in
diverse occasioni. Ci lusingava. Un trucco per evitare che ce la
cavassimo con uno sdegnato silenzio. La domanda aveva per la
verità innescato, in maniera non sappiamo quanto
intenzionale da parte dell’infido interlocutore, una serie di
riflessioni sulla natura dell’opera d’arte e sulle
sue eventuali differenze con gli altri risultati dell’ingegno
umano. Nessuno ad esempio si sognerebbe di porre domande del genere a
proposito della letteratura, del cinema, del teatro, della musica,
della danza e così via. In effetti, almeno a noi, non era
mai capitato nemmeno per quel che concerne le arti visive, anche se ne
riconosciamo nello specifico la qualità
problematica.
Ecco, dunque, la domanda che consegue, sempre quella, è: perché le arti visive godono, si fa per dire, di questa problematicità? Le risposte alla prima e a questa, per la verità si sovrappongono in modo inevitabile.
Diciamo, tanto per iniziare, che premiare un’opera d’arte significa naturalmente riconoscerne i valori.
Il plurale è d’obbligo, perché com’è noto i punti di vista sono diversi e i valori gli corrispondono. Nel bene e nel male. Nel senso che teoricamente non sarebbe ad esempio affatto impossibile trovarsi davanti ad una giuria in cui i giudizi su di un’opera andassero dal positivo al negativo per le stesse identiche ragioni. Un quadro, tanto per dire una cosa decisamente banale, potrebbe essere considerato bello, nel senso di portatore della classica piacevolezza estetica, e per questo essere tanto meritorio di premiazione da parte di alcuni giurati, quanto dell’esatto contrario da parte di altri. È un caso estremo, lo sappiamo, ed in effetti non così realistico, nel senso che in generale le giurie vengono opportunamente assemblate per non trovarsi appunto in situazioni eccessivamente conflittuali. Ma l’esempio rende bene la spinosa questione di fondo relativa alla pressoché totale scomparsa di categorie di giudizio alle quali fare riferimento comune per giudicare un’opera d’arte. Inoltre, per come si sono andate conformando le cose nel sistema generale dell’arte e nei microsistemi conseguenti, la sola diversità di linguaggi con cui sono realizzate le opere d’arte, può in molti casi essere ragione di preventivo giudizio, negativo o positivo, impendendo qualsiasi ragionamento comparativo sui contenuti ma, anche e prima, sulla forma data all’elaborazione. Una cosa del genere non succede in letteratura o nel cinema ad esempio, e nemmeno nella musica. La divisione in generi, quasi scomparsa in letteratura e di conseguenza anche nel cinema, non crea infatti impossibilità comparative. La scrittura con cui è realizzato un romanzo, prima di essere classificata in generi, vale evidentemente come denominatore comune. Un video, una foto, un’installazione, un quadro, una scultura, possono avere, almeno nelle pianificazioni curatoriali, più di una difficoltà a convivere sulla stessa scena espositiva e ancor di più del premio di turno superperformante.
La problematicità dell’arte attuale si specchia com’è ovvio nella problematicità dei vari e disarticolati giudizi possibili.
Quale premio per l’arte? Dunque. Certo non il
riconoscimento di un’astratta superiorità
dell’opera vincente, il cui eventuale valore è
viziato tanto dall’instancabile problematicità a
cui abbiamo accennato, e nondimeno dall’effetto
dell’assemblaggio praticato per la composizione
dell’operative crew del premio. Eppure
premiare l’arte oggi ha un valore sostanziale non
destituibile, né accantonabile. In primo luogo premiare
l’arte significa riconoscerle un ruolo di persistenza
sperimentale e quindi di diretta insistenza nel nostro quotidiano, che
è vitale per essa ma non di meno per noi (dove con questo
noi si intende tutti quelli che guardano l’arte e soprattutto
guardano all’arte). In secondo luogo e non per paradosso,
premiare l’arte significa oggi consentirle di disporre di uno
spazio e di un’energia (finanziaria) per la ricerca che
è virtualmente libera dai condizionamenti e dai ricatti di
altre tipologie di sostegno più connesse al mercato. Il
sistema dei premi in cui denaro, residenze, pubblicazioni, di volta in
volta danno opportunità differenti, sta immettendo energia
pulita nel sistema più ampio dell’arte. La stessa
questione delle giurie con abito troppo simile, è di fatto
superato dalla quantità dei premi che anche nel nostro
paese, per fortuna, stanno creando delle condizioni di
pluralità che non possiamo che sostenere. Anche un brutto
premio, pensato, organizzato e selezionato male, ha secondo noi
un’importanza decisiva nelle dinamiche dell’artesistema
in cui viviamo. Va da sé che tutto ciò
non implica una mancata utilizzazione del giudizio, almeno per chi
scrive, e questo sia per le idee che il premio sostiene sia per gli
artisti che vi partecipano, come dell’opera che risulta
vincente. Ma questo vale proprio per tutti, dal Turner Prize in
giù.