MALESSERE DELL'ARTE E INTERVENTI D'URGENZA
a cura di Antonello Tolve e Eugenio Viola
02. GLI IMPEGNI |
Da anni assistiamo a una proliferazione di correnti, tendenze ed etichette più o meno effimere, alla nascita di nuove categorie artistiche ed estetiche, nonché alla moltiplicazione di mostre, biennali e fiere. Eventi concatenati, legati a un sistema dell’arte che si nutre pantagruelicamente degli effetti della globalizzazione. Paul Virilio (nella foto, a destra) parla, non a caso, del Grande Panico, in gran parte generato dalla digitalizzazione dei media e dalla conseguente virtualizzazione del mondo, oramai sempre più caratterizzato dall’ibridazione fra stili e culture e dalla rapidità delle trasformazioni sociali ed economiche in atto. Un’orgia visiva che acceca, dove “l’accelerazione della realtà contemporanea […] rimette in questione ogni rappresentazione” enfatizzando il “turnover di un’arte in permanente transito” (Virilio, 2007).
Yves Michaud sostiene che sia la stessa varietà dei discorsi a giustificare la pluralità e il rapido alternarsi delle mode. Un’attitudine riconducibile al potere che hanno oggi curatori, conservatori, direttori di museo e organizzatori di eventi, tesi a tenere costantemente “updated” il pubblico, orientandone la visione tramite mostre, acquisizioni, giurie e quant’altro gravita intorno al sistema. Particolarmente gli strali del filosofo francese si scagliano contro il ruolo del curatore, che “dirige il proprio centro d’arte o museo con un’accozzaglia di educato terrorismo, titubante competenza e doti comunicative” (Michaud, 2008). Un giudizio pesantemente negativo, che indurrebbe a pensare il sistema dell’arte nell’ottica di una patinata mondanità di superficie, dove i commissari sono tutti intenti “a cercare per mari e per monti qualcosa cui nessuno aveva pensato, a scoprire gli artisti fino ad allora ignorati, a immaginare qualche inedito escamotage per la mostra e a progettare nuove politiche di collezione” (Michaud, 2007). Una posizione estrema che prende atto, radicalmente, di un cambiamento del ruolo e delle specificità del curatore, figura dibattuta e di non facile comprensione per i non addetti ai lavori, a volte oggetto di confusione di attribuzioni e competenze anche all’interno del micro-cosmo dell’arte. In Europa, ad esempio, viviamo da sempre una commistione delle due funzioni legate alla verbalizzazione e alla visualizzazione, per ricordare due termini cari a Jean-Christophe Ammann, mentre in America, tranne sparuti casi, le due funzioni sono sempre rimaste, rigorosamente, distinte.
Non a caso, in Italia e in Europa, una generazione di critici ha intrecciato indissolubilmente esercizio teorico e scrittura espositiva: Pierre Restany, Germano Celant e Achille Bonito Oliva sono figure che hanno messo insieme veri e propri movimenti, ma si pensi anche a grandi curatori come Harald Szeemann, Norman Rosenthal e Jan Hoet, la cui pratica ha lasciato, senza alcun dubbio, un segno indelebile. Oggi la situazione è indubbiamente diversa, il trend dominante è quello di un generale affievolimento dell’istanza critica a favore di un’ipertrofia curatoriale, quasi pantagruelica, che col tempo ha messo in discussione anche il ruolo “monolitico” del curatore. La dittatura dello spettatore, sotto il cui segno Francesco Bonami ha inaugurato la Biennale di Venezia del 2003, è – in questo senso – esemplare di una tendenza. D’altronde, quello di un’arte senza teoria è un fenomeno indubbio e da più parti lamentato, progressivamente rimpiazzato da una strategia meno impegnata, ad opera di una generazione formata da curatori rampanti, attenta spesso più alle mode del momento che ai contenuti. Mario Perniola sostiene, ad esempio, che la teoria sembri scomparire a vantaggio di un esercizio critico ignaro di ogni metodologia, spinto verso una regressione al livello del mero gusto personale (Perniola, 2000). Una “progressiva messa in questione del ruolo e della funzione della critica d’arte” è lamentata anche da Angelo Trimarco, senza considerare gli eccessi di quella che si potrebbe definire una visione “apocalittica” della critica, da Jean Baudrillard a Paul Virilio, da Zygmunt Bauman al sulfureo Yves Michaud, che ha tracciato una linea continua scandita dalla sequenza, inesorabile, avanguardia-post-moderno-fine dell’arte.
Forse non bisognerebbe essere così catastrofici: indubbiamente andiamo verso una sempre maggiore diversificazione, si confondono i ruoli all’interno del panorama culturale contemporaneo, fisiologicamente sempre più sfaccettato e ibridato. Lo spazio dell’arte si allarga e le sue figure professionali si adeguano. È un processo che coinvolge tutti gli attori coinvolti all’interno di questo sistema, i cui ruoli diventano fluidi e interscambiabili: numerosi artisti saltuariamente diventano curatori e sviluppano propri progetti a partire da strategie concettuali creative, dove la selezione di opere e artisti sono in linea con un discorso pluralista su meccanismi sociali, storici e culturali del nostro tempo, da Maurizio Cattelan a Jeff Koons, da Rirkrit Tiravanija a Fred Wilson, da Coco Fusco a Pablo Helguera. Artisti-curatori che propugnano una curatela “creativa”, dove la prima depone la propria “autorità” diventando processo di scambio creativo. Non solo gli artisti, sempre in prima linea nell’intercettare e promuovere i cambiamenti, ma anche critici e curatori si aprono a luoghi ibridi per esporre, dando origine a territori espositivi e di produzione al di fuori dell’ambito istituzionale. Parallelamente muta il mondo dell’editoria con l’invasione dei free press e dei web-magazine. I collezionisti a volte diventano galleristi o aprono fondazioni. Nascono istituzioni temporanee. Si celebrano una serie di “matrimoni morganatici” che prescindono da protocolli e modelli precostituiti.
In questo universo magmatico e in continua evoluzione, si ha ancora la fortuna di vedere mostre caratterizzate da una scrittura espositiva che si pone come ipotesi critico-progettuale alternativa. Per quanto ci riguarda, pur sentendoci essenzialmente un curatore, riteniamo imprescindibile la funzione critica, consideriamo le due attività complementari e non necessariamente inconciliabili. Per questo motivo abbiamo sempre cercato di tenere uniti, per quanto possibile, profilo teorico e scrittura espositiva. Consideriamo le mostre come una sorta di saggio visivo, la visualizzazione, appunto, di un discorso pregresso. Le urgenze della curatela attualmente risiedono, a nostro avviso, nel recupero di una dimensione etica e socialmente impegnata del ruolo del curatore.
L’urgenza è dunque quella di affrontare in maniera rigorosa e consapevole, oltre le singole strategie particolaristiche, l’istanza espositiva. In un ambiente che ai più sembra votato al disimpegno avvertiamo la necessità di dissentire, di enucleare delle emergenze tematiche che indagano, in maniera anche provocatoria, purché coraggiosa e dialettica, le lacerazioni e le inquietudini della contemporaneità.
La sfida è portare avanti un lavoro eticamente coerente, anche se scomodo, radicale. Crediamo che l’arte debba essere scomoda, debba necessariamente fornire letture alternative. Riteniamo anzi sia oggi la sua unica ragion d’essere, poiché viviamo una società iper-estetizzata che rischia di anestetizzarci. Se è vero, come dice ancora Michaud, che “l’arte è diventata ormai l’etere della vita ed è passata allo stato gassoso” (Michaud, 2007), una teoria e una pratica curatoriale eticamente responsabili devono ribaltare polemicamente questa prospettiva e rimettere in questione, oltre il caos mediatico imperante dell’informazione globale, il ruolo impegnato dell’arte e dell’artista.
LETTURE
× Michaud Yves, L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica, Edizioni Idea, Roma, 2007.
× Michaud Yves, L’artista e i commissari, Edizioni Idea, Roma, 2008.
× Perniola Mario, L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino, 2000.
× Trimarco Angelo, Galassia. Avanguardia e postmodernità, Editori Riuniti, Roma, 2006.
× Virilio Paul, L’arte dell’accecamento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.