MALESSERE DELL'ARTE E INTERVENTI D'URGENZA
a cura di Antonello Tolve e Eugenio Viola
08. ALCUNE LINEE |
Il problema della gerontocrazia
in Italia è annoso e si avvita su se stesso. Ingenuo
aspettarsi da un Governo di ultrasessantenni (in media) politiche
lungimiranti e attente alle esigenze di generazioni che hanno una forma
mentis completamente differente dalla loro. Ragion per cui,
è uno dei fatti più noti, molti giovani cervelli
sono fuggiti e pochissimi tornano (e men che meno giungono
dall’estero).
Nell’ambito dell’arte, o almeno in alcuni
ruoli “potenti” del suo sistema, la situazione
è la medesima: spadroneggiano curatori come Germano Celant
(nato nel 1940) e Achille Bonito Oliva (nato nel 1939) con i loro
rispettivi “movimenti”, celebrati in occasione dei
150 anni dell’Unità d’Italia (Arte
Povera e Transavanguardia: si parla degli anni Sessanta e Settanta).
Certo, qualche sprazzo, anzi più d’uno, si vede,
ad esempio nel quadro delle nomine alla direzione dei musei. Peccato
tuttavia che, nella gran parte dei casi, vi sia un altro vizio, non
meno biasimevole: quello della nomina direttamente politica, dello
spoil system, del favore reciproco fra amministrazioni dello stesso
colore politico ecc.
Tornando alle questioni anagrafiche: una situazione non
dissimile si riscontra nell’ambito delle gallerie private. Le
più potenti sono pure quelle più
“anziane”, e lo si vede nelle partecipazioni alle
fiere internazionali più rilevanti, dove i nomi (e talora i
cognomi) sono in gran parte “storici”. In altri
Paesi la situazione è ben più dinamica: certo le
realtà più consolidate esistono, ma
all’interno di un sistema che si rinnova con maggiore
frequenza, soprattutto grazie a un humus intermedio, collocato fra le
accademie e quelle stesse gallerie consolidate, che ospita quel che nel
calcio si chiamerebbe vivaio. Un sottobosco di vitale importanza, dove
crescono gli artisti, i curatori, i critici, i giornalisti, le riviste,
gli spazi non profit, i blogger, i collezionisti ecc.
Proprio l’anomala latitanza di tale stadio intermedio è parte dell’anomalia italiana. Certo non è l’unico Paese a esserne privo, ma si tratta pur sempre di un caso interessante da studiare, poiché presenta caratteristiche peculiari. Una di esse concerne il settore editoriale. Soltanto in Italia, infatti, esiste un numero tanto elevato di pubblicazioni di settore, se teniamo conto della “popolazione” a cui fanno riferimento. Siamo cioè un Paese dove le riviste storiche come Flash Art, Segno, Juliet continuano a essere pubblicate, al di là della maggior o minore fortuna editoriale. Dove pullulano le riviste trasversali, di “cultura” insomma, ma che dell’arte fanno il loro perno (da Next Exit a Drome passando per Nero). Dove soprattutto continuano a nascere (e spesso, nel volgere di pochi anni, a morire) riviste di settore più o meno specializzate che coprono un arco assai diversificato di potenziali lettori, dallo studente d’accademia che è attratto da Arte a quello più professionale che legge Il Giornale dell’Arte a quello più di “tendenza” che predilige Mousse a quello più curioso che sceglie Artribune.
Il problema è che i lettori, anche nelle più rosee previsioni, sono pochi, terribilmente pochi. Si tratta pur sempre di una nicchia (e non apriamo qui la questione del perché sia una nicchia, nel Paese che dovrebbe puntare tutto o quasi sulla cultura, artistica in primo luogo), e dunque il mercato si satura sempre più. Ora, un mercato saturo e di nicchia si espone a rischi evidenti: uno su tutti è che l’investitore, l’inserzionista, lo sponsor – insomma, chi fa vivere economicamente la pubblicazione – o distribuisca “a pioggia” i propri denari (prescindendo perciò dalla qualità del prodotto) oppure ragioni per affinità e conoscenze (prescindendo ancora una volta dalla qualità del prodotto, o meglio, in questo caso, dalla mutevolezza della qualità stessa). In entrambi i casi, il rischio è che, paradossalmente, la saturazione possa proseguire all’infinito, e che gli inquinamenti della deontologia professionale aumentino in proporzione (non è un caso che il “genere” della stroncatura in Italia sia pressoché estinto).
La situazione qui tratteggiata è esemplarmente analizzabile qualora si restringa il campo d’indagine alle pubblicazioni cosiddette freepress. Il loro numero è impressionante e in molti casi copre la medesima micro-area d’interesse, o almeno interseca ampiamente la propria readership con altre riviste. Il risultato è che, imprenditorialmente parlando, si tratta nella maggioranza dei casi di economie di basso cabotaggio, costrette a rivolgersi ad ambiti produttivi più o meno attigui per “far tornare i conti” (organizzazione di eventi, pubblicazione di cataloghi ecc.). La conseguenza è una ancor maggiore esposizione all’inquinamento di cui sopra, dovuta anche a una seconda questione: difficilmente, infatti, un’economia di questo genere permette di retribuire tutti coloro che collaborano con la pubblicazione, che dunque attinge in gran parte a professionisti che avranno naturalmente e legittimamente anche altri impegni e interessi, che con ogni probabilità prima o poi confliggeranno con “l’obiettività” della rivista (si badi: stiamo parlando di un ambito che raccoglie poche migliaia di professionisti, dunque si tratta di una conseguenza fisiologica, o per meglio dire teratologica).
Ora, tenendo sempre presente che i rischi e le anomalie sin
qui descritte restano scogli da evitare e che sono ben presenti nella
situazione editoriale nostrana, riteniamo che vi sia spazio per solcare
quattro strade:
1. La rivista di settore dal taglio internazionale:
è una scelta che permette di evitare in parte le pastoie
della strozzatura localista e implica l’utilizzo almeno anche
della lingua inglese. Comporta naturalmente maggiori costi di gestione
e distribuzione, nonché una concorrenza a questo punto
continentale se non planetaria. A ciò si aggiunge il rischio
rappresentato dalla tendenza a imporre la propria autorevolezza
rivolgendosi a “firme” consolidate, ricadendo
perciò nella spirale della (futura) gerontocrazia.
2. La rivista di settore meno rigidamente specializzata, dal
taglio più giornalistico (a scanso di equivoci: si tratta
della scelta che abbiamo operato personalmente, prima lavorando per Exibart
e poi co-fondando il progetto Artribune): in questo
caso si punta ad ampliare il proprio “parco” di
lettori rivolgendosi a discipline contigue all’arte
contemporanea (dall’architettura al design, dal cinema ai
fumetti), cercando di risolvere in questo modo la questione
dell’«imbuto» economico e allo stesso
tempo di alleggerire l’eventuale pressione da parte degli
investitori che operano nel campo dell’arte contemporanea,
adottando altresì uno “stile” per
l’appunto giornalistico, che coniughi la critica
d’arte all’informazione rapida e puntuale, e per
ciò il più possibile obiettiva e ad ampio spettro.
3. La rivista d’artista: è un ambito che
in Italia sta ricevendo nuova linfa negli ultimi anni e che
può almeno in parte sopperire alla mancanza di un adeguato
numero di spazi non profit et similia, che
permettano cioè di dilatare il tempo che intercorre tra la
formazione primaria dell’artista e l’immissione nel
circuito più rudemente mercantile dell’arte.
È un ausilio importante alla formazione
“continua” e all’elaborazione delle
poetiche. Il rischio è che si trasformi in un mero strumento
di autopromozione.
4. Il blog “militante”: si tratta di una
strada pressoché vergine in Italia, ma che riveste un ruolo
importante in altri Paesi. È uno strumento duttile e
può iniettare energie fresche nel sistema, e ciò
avviene nei casi più disparati, che sia redatto in maniera
palese da un operatore dell’arte o che sia espressione di un
singolo o di un gruppo che lavora in maniera anonima. Anche in questo
caso il rischio è rappresentato dalla deriva del puro
marketing, ma al netto di quest’ultimo ha generalmente
offerto risultati considerevoli per la “salute” del
sistema nel suo complesso, anche se magari solo per brevi periodi e
contingenze.
Due brevissime note conclusive: in questo testo si è parlato di “rivista” per semplicità, ma con ciò non si intende soltanto una pubblicazione periodica su supporto cartaceo, bensì un progetto editoriale continuativo espresso nei media più differenti. In secundis: il fatto che chi scrive sia un operatore del settore, e proprio nell’ambito editoriale, è un sintomo di quanto ogni nicchia non sia esente da conflitti d’interesse. Si dovrà perciò investire nella fiducia verso il proprio interlocutore e considerare il valore aggiunto di quella che in antropologia viene definita “osservazione partecipante”.