MALESSERE DELL'ARTE E INTERVENTI D'URGENZA
a cura di Antonello Tolve e Eugenio Viola
01. VISIONI CRITICHE, |
L’alba del terzo millennio si prospetta sempre
più nebulosa e spettrale. Condizionata da
un’assenza di riflessione – e di nuclei teorici
– in grado di garantire critiche radicali ad un sistema
mondializzato attento a costruire una dottrina ufficiale
(altamente omogenea, monotona e monocroma) con lo scopo di
devitalizzare la sfera collettiva, di misurare la “salute
mentale e morale dei singoli” (Abbate, 1966), di costruire un
pensiero di massa a senso unico. O meglio un noi
privo di reale coesione, coesistenza, compartecipazione. Un noi
deflorato nella sua essenza, deturpato e marginalizzato, scheletrizzato
e sclerotizzato. Ridotto ad un vero e proprio social-show
che elabora, con estrema attenzione, quello che Ottiero Ottieri ha
definito essere un radicale prosciugamento della coscienza
collettiva (Ottieri, 1966).
Il dibattito si è
ridotto, oggigiorno, ad un caotico multiloquio snervante che non solo
sottrae al colloquio il colloquiare, ma frantuma il discorso, sgretola
i rapporti interpersonali e sminuisce la vivacità
intellettuale.
Mentre si cerca disperatamente un
futuro a tempo indeterminato e le incertezze
dell’economia planetaria rivelano e rilevano alcune imponenti
bandierine di pericolo su acque apparentemente tranquille (almeno
è quanto fanno credere alcuni capi di stato) ma piene di
insidie, la quotidianità è inghiottita in molti vortici
spazzatura – o in ballate della moda,
per dirla con Luigi Tenco – utili a soggiogare il pensiero
critico e ad indirizzarlo verso un progetto davvero pernicioso e
allarmante. Un pensiero la cui piattezza spinge la società
in una fanatica uniformità e in un adeguamento delle masse
al – sempre più folle e smisurato –
potere di turno. Ad un potere che si dimostra scettico, appunto, nei
confronti dell’intelligenza internazionale.
Che la
critica d’arte viva, oggi, una grave perdita di
gravità, non è certo cosa nuova. Che si prediliga
l’operatore culturale e l’organizzatore
di eventi (il più delle volte privi di educazione
alle arti e ai gusti del contemporaneo) al curatore, allo storico o al
teorico, è ormai accertato (anche perché
stabilito dai mammuth e dalle multinazionali dell’arte). Che
la fatina mediatica inoculi nell’uomo il germe della
decomposizione riflessiva e lobotomizzi con cura ogni eventuale
dissenso è così lampante da non turbare
più il benessere del singolo individuo
(o della collettività). Anche perché tutto
è diventato semplicemente acritico (Dorfles,
2008). È digerito con i dolci veleni della persuasione: di
una persuasione attraverso la quale ogni singolo è
sottomesso ad una industria culturale volutamente antieducativa.
Questo
stato delle cose è voluto – lo sappiamo
– da un sistema di controllo internazionale che mira a creare
un meccanismo di paura o di emozione frenetica per
offuscare la riflessione, per soggiogare i pensieri liberi, per
governare e spingere le coscienze verso ovili ben architettati, verso
un surrogato del pensiero e verso una pseudoresponsabilità
innocua, passiva, distratta.
L’emozione del tifo sportivo e del totocalcio, ha
suggerito a suo tempo Cesare Brandi – forse memore della
sorprendente riflessione proposta nel 1884 da Matilde Serao sulla vasta
allucinazione di un gioco, il lotto, che si prende
le anime – manovra “la vita quotidiana di
ciascuno” (Brandi, 1979).
Con
un’esposizione perfetta sull’orizzonte oceanico del
contemporaneo, l’arte apre, fortunatamente, irrinunciabili
riflessioni sul traffico internazionale della cultura per rigenerare la
responsabilità dell’uomo di fronte alle
polimodalità occulte che traumatizzano la civiltà
con lo scopo di iniettare, poco a poco e senza scrupoli, la paura del
pensiero. La paura di pensare.
In grado di sfuggire ai campi
di concentramento progettati dalle amministrazioni contemporanee,
l’arte – e con lei alcuni campi del sapere scampati
al male dell’intrattenimento culturale
(dall’industria del passatempo e del divertimento che ottunde
la ragione) – produce farmaci utili a leggere le urgenze del
proprio presente. Genera palinsesti educativi che depurano la
realtà per dar luogo a progetti civici che ritornano
nuovamente all’isola felice dell’educazione
estetica e artistica. Un’educazione che forse è
l’unica àncora di salvataggio, l’unico break
up, l’unica terapia capace di frenare la peste
mediatica e demagogica che devitalizza la civiltà.
La
Cittadellarte inaugurata da Michelangelo Pistoletto
nel 1998, il Parco d’Arte Vivente
elaborato da Piero Gilardi nel 2002, il prezioso lavoro del collettivo
Studio Azzurro e il recente programma concepito da Giuseppe Stampone
con la Global Education e con il progetto Solstizio,
indicano, in un presente che adombra il passato e brucia il futuro, una
riappropriazione – lungo i sentieri dell’educazione
all’arte e con l’arte (da un punto di vista pedagogico
e andragogico) – del senso pubblico, di
un sistema scolastico (volutamente privatizzato e svuotato) necessario
a sviluppare quell’indispensabile pensiero critico di fronte
alle cose della quotidianità.
All’abbandono
e all’incuria della scuola e dei luoghi pubblici,
l’arte risponde, in questo modo, con una massiccia formula
educativa (una formula che si prende cura dei luoghi e dei suoi
abitanti) per reclamare un futuro migliore attraverso la
creatività. Una creatività che, lo ha suggerito
per tempo Gianni Rodari, “è sinonimo di pensiero
divergente, cioè capace di rompere continuamente gli schemi
dell’esperienza”. Difatti è
“creativa una mente sempre al lavoro, sempre a far domande, a
scoprire problemi dove gli altri trovano risposte soddisfacenti, a suo
agio nelle situazioni fluide nelle quali gli altri fiutano solo
pericoli, capace di giudizi autonomi e indipendenti (anche dal padre,
dal professore e dalla società), che rifiuta il codificato,
che rimanipola oggetti e concetti senza lasciarsi inibire da
conformismi. Tutte queste qualità”, conclude
Rodari, “si manifestano nel processo creativo”
(Rodari, 1973). Così, proprio oggi che la cultura
è diventata una cooltura (dove il cool
è l’impronta più importante per la
riuscita dello spettacolo di turno) e alcuni pensano
che il turista amante dell’arte possa essere definito un culturista,
l’immaginazione – e il modello creativo ad essa
collegato – si mostra come l’unico baluardo capace
di risvegliare le coscienze e di organizzare un discorso (uno spazio
critico e un programma teorico) per le generazioni future.
Ritornare
al fantastico vuol dire allora risolvere – o magari
semplicemente risvegliare – i drammi della storia
contemporanea e di una politica che ha smesso di fare politica per
giocare con le vite dello Stato. Dove lo Stato è convivio
collettivo, unione di ogni individuo, condivisione, azione e reazione,
pulsante pluralità che trattiene nel proprio seno il germe
sano della singolarità critica, della rarità
creativa, dell’unicità riflessiva.
LETTURE
× Abbate Michele, Libertà e società di massa, Laterza, Bari, 1966.
× Brandi Cesare, Scritti sull’arte contemporanea II, Einaudi, Torino, 1979.
× Dorfles Gillo, L'intervallo perduto, Einaudi, Torino, 1980.
× Ottieri Ottiero, L’irrealtà quotidiana, Bompiani, Milano, 1966.
× Rodari Gianni, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino, 1973.
× Serao Matilde, Il ventre di Napoli, Imagaenaria, Ischia Ponte (Na), 2010.