ANCHE LE ANIME DOVRANNO
VENIRE ALLE MANI
di Giovanni de Leva
“Sans le maréchal des logis Destouches,
il n’y aurait jamais eu Céline” [Senza
il sottufficiale Destouches, non ci sarebbe mai stato Céline]:
come ammette lo stesso autore in un’intervista del 1939
(Godard, 1981, p. 1181), l’esperienza bellica costituisce una
sorta di motore immobile dell’opera di Louis-Ferdinand
Céline. Non solo rappresenta infatti il punto di partenza
del Voyage au bout de la nuit (Céline, 2002), ma anche il tragico credito che, stando alla conclusiva
decisione d’arruolarsi, dovrà riscuotere il
protagonista del successivo Mort à
crédit (Céline, 2010),
nonché l’oggetto del progettato Casse-pipe
(Céline, 1995), e infine il presupposto delle
avventure londinesi di Guignol’s band (Céline, 1996). Oltre a garantire il raccordo tra un romanzo e
l’altro, si può sostenere che la Grande Guerra
determini i caratteri distintivi del personaggio e della narrativa
céliniana.
Non è un caso, allora, che
tra i pochi modelli dichiarati da Céline per il Voyage
il più ricorrente sia proprio Le feu (Barbusse,
1918) di Henri Barbusse, l’opera di maggiore riferimento per
tutta la successiva letteratura della Grande Guerra. Una derivazione
apparentemente paradossale, considerando le opposte posizioni politiche
degli autori nonché i rispettivi risultati letterari, che
diventa invece comprensibile alla luce del comune antimilitarismo. Tra
la pubblicazione del Feu e quella del Voyage
corre poi una ricca produzione letteraria, che spiega come
dall’intento di testimonianza dichiarato da Barbusse sin dal
sottotitolo di Journal d’un escouade si
possa passare agli estremi espressionistici di Céline. Il
quale, come si tenterà di dimostrare, più che
ricalcare il modello sembra rileggerlo attraverso quella che definisce
“l’enorme école freudienne” [l’immensa
scuola freudiana] (Godard, 1981, p. 1109), per riscriverlo
poi dalla prospettiva d’un narratore che ha perduto tanto la
capacità di comprendere l’evento storico nella sua
totalità, quanto qualunque speranza in un futuro
riscatto.
A fronte della condanna senza appello
della guerra, Barbusse aveva rintracciato invece i valori in grado di
sopravvivere alla catastrofe, a cui similmente si sarebbero aggrappati
gli autori successivi. L’amicizia, gli affetti, la memoria,
addirittura l’umorismo, a quanto aveva avuto modo
d’osservare tra i commilitoni, parevano infatti resistere
alla riduzione allo stato primitivo comportata dalla guerra. La
comunione coi soldati ossia l’incontro col popolo, tale per
cui il soggetto del Feu è
‘noi’ e non l’io del narratore
protagonista, offre dunque per Barbusse una via di salvezza. Di qui la
conclusione dell’opera, il simbolico diluvio cui segue
“un’alba di speranza” (Barbusse, 1918, p.
357), il risveglio dei superstiti che prendono coscienza di come sia
necessario ottenere l’uguaglianza tra gli uomini
perché la Grande Guerra diventi l’ultimo conflitto.
Non
è certo da simili aperture che prende le mosse
Céline, che anzi, come si vedrà, assegna
tutt’altra accezione al motivo dell’alba.
L’eredità del Feu sembra
consistere piuttosto nella regressione allo stadio primitivo o,
più in generale, nella degradazione fisica e morale imposta
dalla guerra: “Ad ogni modo, cos’è che
siamo noi da due anni a questa parte? Dei miseri incredibili
disgraziati, ma anche dei selvaggi, dei bruti, dei banditi, dei
sudicioni” (Barbusse, 1918, p. 342). Una citazione questa che
si potrebbe tranquillamente attribuire a Céline, tanto bene
si adatta ai suoi personaggi, infelici quanto selvaggi o meglio
inselvatichiti, inaspettatamente brutali, fuorilegge e spesso crudeli.
Quasi che la condizione di reduce possa essere estesa al protagonista
tipo della narrativa céliniana, che abbia o meno calcato il
fronte.
Fuor di dubbio risulta invece la coincidenza tra
l’avvento della guerra e l’avvio del Voyage:
non è certo un caso che a sollecitare Bardamu ad
intraprendere la narrazione sia proprio il compagno che vorrebbe
persuaderlo del valore della razza francese e, di conseguenza, della
necessità di sacrificarsi in difesa della patria.
Nazionalismo e patriottismo vengono invece immediatamente sconfessati
da Bardamu, che a sua volta convince l’amico dello
sfruttamento sociale sotteso alla guerra, finché, al
passaggio d’un reggimento comandato da un colonnello a
cavallo, il protagonista fa “uno zompo
dall’entusiasmo” per arruolarsi “a passo
di corsa” (Céline, 2002, p.
13). Lo slancio alla vista di un’immagine tanto convenzionale
e a dispetto della consapevolezza di ciò che la guerra
nasconde potrebbe sembrare la prima delle tante stravaganze del
personaggio; in realtà, facendo riferimento alla letteratura
della Grande Guerra, si vede come dietro all’atteggiamento di
Bardamu ci sia piuttosto un intento satirico. Costante è in
effetti l’iniziale entusiasmo del narratore o del
protagonista, nella maggior parte dei casi volontario, convinto
d’avere l’occasione di rivivere i tradizionali
valori eroici – un’illusione cui non fu immune
neanche lo stesso Destouches, a quanto dimostrano le sue lettere dal
fronte; né sono poche le testimonianze di chi, al di
là d’ogni dubbio, decide comunque di partire per
il fronte. La parodia di Céline ha in ogni caso
l’effetto di sottrarre qualunque motivazione politica o
sociale all’arruolamento di Bardamu, che si ritrova in guerra
per inseguire nient’altro che un’apparizione
dell’eroismo, e per di più stereotipata.
Ugualmente
ridotta all’essenziale risulta la prima immagine del
conflitto, che sembra contenere in nuce i caratteri
principali dell’intera avventura bellica. Si tratta del
singolare battesimo del fuoco di Bardamu, sperduto in una deserta via
di campagna e costretto a tenere il registro del colonnello sotto i
colpi dei cecchini. Spogliato d’ogni ideologia
nazionalistica, lo scontro coi tedeschi perde immediatamente di senso
– “Per quanto lontano cercassi nella memoria, gli
avevo fatto niente io ai tedeschi” (ibidem,
p. 15) – come pure, più in generale, la
guerra in sé – “La guerra insomma era
tutto quello che non si capiva” (ibidem).
Al consueto autore del racconto di guerra, Barbusse in primis,
che s’interroga sul senso della tragedia, Céline
comincia dunque coll’opporre un narratore che dà
per presupposta l’insensatezza del conflitto. Ne deriva una
prospettiva degradata rispetto a quella più comune nella
letteratura di guerra, un cambio di registro dal tragico al tragicomico
o al grottesco che non risparmia neppure le immagini cruente, come
dimostra la descrizione della prima morte cui Bardamu ha modo
d’assistere: “Non aveva più la testa.
Nient’altro che un’apertura sopra il collo, con del
sangue dentro che borbottava con dei gluglù come la
marmellata nella pentola.” (Ibidem, p. 21).
Altra
sostanziale differenza è l’isolamento del
protagonista, privato sin dal principio del conforto dei commilitoni:
“… ma si aveva il tempo di fraternizzare
nemmeno” (ibidem, p. 18). Si tratta
d’un carattere peculiare, confermato per di più
dall’emarginazione che sconterà il Ferdinand di Casse-pipe,
e che sembra distinguere quindi Céline dalla gran parte
della letteratura di guerra. Per quanto netto sia l’intento
antimilitaristico d’un racconto, è assai raro
infatti riscontrare un narratore o un protagonista che non trovi
sostegno nel contatto con i commilitoni, in special modo se pari grado;
comune è al contrario il caso in cui il plotone venga
idealizzato in un modello di società, spesso contrapposto
alla patria. La comunione con i soldati, infatti, non garantisce
soltanto un sollievo alla vita di trincea ma, come si è
visto in Barbusse, comporta l’incontro con un popolo immune
alla brutalità del conflitto, la scoperta dunque
d’un potenziale protagonista d’un dopoguerra
migliore. Nulla di tutto ciò in Céline, che da
una parte priva Bardamu d’ogni forma di cameratismo,
negandogli così la possibilità stessa di
rintracciare valori resistenti alla guerra, e dall’altra
parte, nel ritratto dei civili, anticipa il tenore della futura pace:
ne è un esempio l’episodio della visita alla
famiglia di contadini, pronta a contrattare il prezzo del vino sul
letto di morte del figlio. Precipitato in un gioco che non ammette
regole né compagni, Bardamu si ritrova esposto dunque alla
volontà dei superiori senza alcuna mediazione. Comandanti e
generali risultano poi altrettante personificazioni dei vizi
maggiormente deplorati dagli autori di guerra:
l’ottusità nel caso del colonnello, la
crudeltà in quello del comandante Pinçon o la
difesa del privilegio per il generale des Entrayes non sembrano infatti
delle semplici qualità negative quanto piuttosto delle vere
e proprie ragioni d’essere, quasi si tratti di maschere
anziché di personaggi.
È proprio alla luce d’un simile contesto, a contatto cioè con il colonnello che lo tiene sotto il tiro dei cecchini, che Bardamu intraprende quella riflessione sull’eroismo la cui radicalità distingue il Voyage nel corpus della letteratura di guerra. L’immagine eroica per inseguire la quale il protagonista si era arruolato, infatti, svela immediatamente il proprio rovescio: agli occhi del protagonista, lo sprezzo del pericolo con cui il colonnello passeggia tra i proiettili non è altro che mancanza d’immaginazione – “Il colonnello, era dunque un mostro! Adesso, ne ero convinto, peggio di un cane, non s’immaginava la sua dipartita!” (ibidem, p. 17). Stando alle lettere che Destouches invia dall’Africa nel 1916, proprio il coraggio come “manque d’imagination qui confine à la misère psychique” [mancanza d’immaginazione che rasenta la miseria psichica] (Godard, 1981, p. 1185) era stato il punto di partenza per il ripensamento dell’esperienza bellica, fino a quel momento giustificata invece secondo un tradizionale concetto del dovere. Se rischiare la propria vita ha esclusivamente a che fare con un difetto d’immaginazione, ugualmente estraneo al coraggio risulta poi lo scontro col nemico, ricercato più per ragioni inconsce, come sfogo cioè di pulsioni omicide, che non per intenti patriottici o cavallereschi. La critica dell’eroismo non si esaurisce tuttavia in tale reintepretazione freudiana ma trova compimento nella ricostruzione storica che, durante il ricovero a Issy-les-Moulineaux, verrà offerta a Bardamu dal professor Princhard in termini che si direbbero ante litteram foucaultiani. La tesi è infatti che la Grande Guerra costituisca il punto d’arrivo d’un processo iniziato con la Rivoluzione francese, quando al disinteresse dell’Ancien Régime nei confronti del popolo sarebbero subentrati un’attenzione e un coinvolgemento crescenti, con l’intento di ottenere una massa di cittadini-soldati, cioè di “soldati a gratis” (Céline, 2002, p. 69); l’«invenzione» ottocentesca della patria avrebbe fornito poi la bandiera indispensabile a muovere gli eserciti moderni: “In seguito, poiché il sistema era ottimo, ci si mise a fabbricare eroi in serie, che costavano sempre meno, perché il sistema si perfezionava. Se ne sono trovati tutti bene. Bismarck, i due Napoleoni, Barrès” (ibidem). È però il primo conflitto mondiale a portare all’apice la produzione seriale di eroi, come dimostra indirettamente proprio il luogo da cui Princhard parla, o, più precisamente, il passaggio di Bardamu dal ricovero di Issy-les-Moulineaux a quello di Bicêtre. Il primo istituto è infatti di tipo tradizionale, improntato alla scoperta dei simulatori, “organizzato apposta per [...] spingere con le buone o con le cattive a confessare”, così che “ne uscivi [...] per andare o al manicomio, o al fronte, o ancora molto spesso al muro” (ibidem, p. 61); da Bicêtre, invece, l’unica via d’uscita riporta in prima linea, essendo la clinica “specializzata nella guarigione di eroi inetti del nostro tipo” (ibidem, p. 82). Dall’indagine di sospetti si passa quindi alla cura di malati; da una psicologia che rinchiude ad una psichiatria che invece ‘guarisce’; dalla suddivisione degli uomini in folli, abili o traditori alla reintroduzione nell’unica tipologia del soldato combattente. Nella successione da un istituto all’altro, Céline rappresenta insomma un’evoluzione delle discipline mediche cui la Grande Guerra effettivamente diede impulso (Gibelli, 1986); è allora, si direbbe, che la produzione di “eroi in serie” si specializza tanto da coinvolgere l’interiorità degli individui, perché, parafrasando la conclusione di Céline alla postfazione 1933 del Voyage, “anche le anime dovranno venire alle mani” (Pontiggia, 2001, p. 49).
A cospetto d’una realtà di guerra
refrattaria ai concetti di patriottismo, cameratismo e coraggio, e che
dunque non sembra avere senso se non in se stessa, la reazione di
Bardamu è la paura. Si tratta d’un tema centrale
nella letteratura di guerra, ma che Céline porta alle
estreme conseguenze. Se generalmente la paura del personaggio serve
all’autore per smentire la retorica bellica oppure, in alcuni
casi, per misurare lo spaesamento davanti agli inediti caratteri
industriali del conflitto, in Céline rappresenta invece una
scelta del protagonista, una via di scampo e addirittura una visione
del mondo. Resosi conto che nella guerra moderna l’eroismo
non è una virtù cavalleresca ma una tara omicida,
che non garantisce affatto l’espressione del proprio valore
ma al contrario l’assoggettamento ad
un’identità estranea, Bardamu sceglie
d’avere paura, d’abbandonare cioè ogni
residua idealità per concentrarsi esclusivamente sulla
salvezza della propria pelle. Si potrebbe quindi sostenere che la
corporeità tanto spesso a-storicamente intesa come tema
dominante dell’opera céliniana sia frutto in
realtà dell’esperienza bellica; similmente, il
‘neo-picaresco’ inaugurato secondo alcuni (Hann,
1995; Policastro 2004; Fusillo, 2010) dal Voyage,
in cui effettivamente ricorrono temi e strutture tipici del romanzo del
pìcaro – la lotta per la sussistenza, il
vagabondaggio, la solitidine e il disincanto –, pare trovare
origine in una guerra che mostra al personaggio come al di fuori della
propria salvezza non ci sia che vuota retorica, una follia modernamente
organizzata e il totale isolamento. Che la paura garantisca invece una
via di scampo è lo stesso Bardamu a dichiararlo, dopo
l’umiliante perorazione patriottica grazie alla quale riesce
a sfuggire ad un linciaggio: “È forse di paura che
il più delle volte si ha bisogno per cavarsi
d’impaccio nella vita. Quanto a me, non ho mai voluto altre
armi da quel giorno, o altre virtù”
(Céline, 2002, p. 116). Assecondando la propria
vigliaccheria, Bardamu discende dunque volontariamente in quello che
Northrop Frye definisce il “modo ironico”,
caratterizzato da un eroe “inferiore a noi per forza o per
intelligenza”, da cui deriva
“l’impressione di osservare dall’alto una
scena di impedimento, frustrazione o assurdità”
(Frye, 1971, p. 46). A distinguere il Voyage e a
costituire una conseguenza dell’esperienza bellica
è tuttavia la giustificazione dello stesso personaggio, che
si situa nel modo ironico in nome d’una esplicita visione del
mondo: “Gli uomini quando stanno in salute, poco da dire, ti
fanno paura... Soprattutto dopo la guerra... [...] Quando sono in
piedi, pensano ad ammazzarti... Mentre quando sono malati, poco da dire
sono meno temibili. [...] E allora te, non è proprio per
questo che sei diventato medico? [...] Cercando, mi resi conto che
aveva forse ragione Robinson” (Céline, 2002, p.
292).
Il risultato della spoliazione imposta dalla guerra che,
come si è visto, priva il personaggio d’ogni
sostegno umano, di qualunque fede in un riscatto individuale o
collettivo, e infine della propria dignità come fosse
d’impaccio, può essere riassunto con la medesima
definizione che dà Céline dell’intero
romanzo: “L’homme est nu,
dépouillé de tout, même de sa foi en
lui. C’est ça, mon livre” [L’uomo
è nudo, spogliato di tutto, anche della fede in se stesso.
È questo il mio libro] (Godard, 1981, p. 1138).
È possibile tentare tuttavia un passo ulteriore, rifacendosi
alla conclusione dell’esperienza bellica, quando per la prima
volta compare Robinson, indicato dallo stesso autore come il doppio del
protagonista: “Dopo anni e anni, mi ricordo ancora benissimo
il momento, la figuretta che esce dall’erba, come facevano le
sagome dei soldati al tirassegno d’una volta, alle
fiere.” (Céline, 2002, p. 42). Se si considera
come sia proprio davanti al tirassegno d’una fiera che
Bardamu subirà lo shock all’origine del ricovero,
ci si rende conto che il riferimento costituisce più
d’una semplice analogia. La sagoma di cartapesta sembra
rappresentare invece l’ultimo stadio
dell’“eroe ironico” ossia
dell’“homme [...] dépouillé
de tout” prodotto dalla guerra, e non solo in quanto inerme e
sotto tiro ma anche perché governato dall’esterno,
in balia d’un potere che per la prima volta tenta di muoverne
i fili psichici e fisici. Ad un terribile teatro delle marionette
assomiglia in effetti la grande guerra di Céline, frutto
d’una rappresentazione stilizzata, ottenuta per mezzo di
successive sottrazioni. Similmente, scampato ad un conflitto dove il
sangue conta quanto la marmellata, popolato da eroi prodotti in serie e
da superiori animati esclusivamente dalla crudeltà, il
protagonista scopre d’essersi a sua volta ridotto ad una
marionetta. Uno statuto che potrebbe estendersi peraltro ai personaggi
posteriori, sorta di Guignol’s band,
com’è appunto soprannominato il gruppo cui il
reduce Ferdinand si unisce nel romanzo omonimo. Fuor di dubbio risulta
invece la posizione del conflitto nell’opera di
Céline, da intendersi quale principio anziché
fine d’un mondo, origine cioè d’una
realtà al tempo stesso storica e narrativa; di qui il motivo
dell’alba che, in un richiamo diretto a Barbusse, segna il
termine del viaggio di Bardamu in guerra. Contrariamente al Feu,
e similmente invece alla conclusione del Voyage au bout de la
nuit, l’alba però non illumina affatto
una prospettiva di speranza, rischiarando invece in tutta la sua
ampiezza la terra desolata attraversata dal protagonista e consegnata
dal conflitto al dopoguerra. Esattamente quanto accade nella
conclusione di Casse-pipe, dove sono gli squilli
del “trombetta” Karvic a risvegliare quella che si
potrebbe definire l’alba del Novecento secondo
Céline: “Karvic ha lanciato il finale, due appelli
acuti... tutto in punta di tromba... due frecce verso i tetti... Allora
tutt’intorno a noi ha fatto venir fuori come degli occhi...
delle cose nella nebbia... mille finestre... a guardarti... dei
riflessi credo... dei riflessi... Faceva quasi giorno adesso.
Impallidiva dall’alto... dai tetti... e tutto
l’accantonamento... I muri... la calce... Karvic si
è radunato di corsa, scrollava la sua musica correndo, per
la bava, le gocce” (Céline, 1995, p. 133).
LETTURE
× Barbusse H., Le feu, 1916, trad. it. Il fuoco, Sonzogno, Milano, 1918.
× Céline L.F., Voyage au bout de la nuit, 1932, trad. it. Viaggio al termine della notte, MDS Books, Roma 2002.
× Céline L.F., Mort à crédit, 1936, trad. it. Morte a credito, Garzanti, Milano 2010.
× Céline L.F., Guignol’s band, 1944, trad. it. Guignol’s band, Einaudi, Torino 1996.
× Céline L.F., Casse-pipe, 1936-1948, trad. it. Casse-pipe, Einaudi, Torino, 1995.
× Frye N., Anatomy of Criticism, 1957, trad. it. Anatomia della critica, Einaudi, Torino, 1971.
× Fusillo M., “Tutto l’inconscio se la squaglia davanti a voi”. Su Céline e il neopicarseco, in A. Matucci e S. Micali (a cura di), I colori della narrativa, Aracne, Roma, 2010, pp. 269-280.
× Gibelli A., L’esperienza di guerra. Fonti
medico-psichiatriche e antropologiche, in D. Leoni e C. Zadra
(a cura di),
La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini,
Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 49-72.
× Godard H., Notice, in L. F. Céline, Romans I, a cura di H. Godard, Gallimard, Paris, 1981, pp. 1131-1280.
× Hann T., Postérité du Picaresque au XXe Siècle, Van Gorcum, Assen, 1995.
× Policastro G., “A la casa
lòbrega y oscura”: l’incontro del
personaggio con la morte nel romanzo picaresco,
in O.
Innocenti (a cura di), Incontri. Quaderni di Synapsis III,
Le Monnier, Firenze, 2004, pp. 83-97.
× Pontiggia G. (a cura di), Céline e l’attualità letteraria, SE, Milano, 2001.