L’IMPOTENZA-ONNIPOTENZA
AL TERMINE DELLA NOTTE
di Luca Bifulco
Se il viaggio con cui Louis-Ferdinand Céline, ed il
lettore che lo accompagna, sondano il termine della notte è
stato considerato una narrazione paradigmatica della
modernità, la ragione va cercata anche – forse
soprattutto – nella sua capacità di porre
sottotraccia una delle questioni fondamentali della società
moderna: le articolate conseguenze dell’affermazione
dell’individuo. La vita di Bardamu, il
medico protagonista e alter ego dello stesso Céline,
lambisce in effetti i territori più significativi
dell’esperienza moderna, dalla Grande Guerra alla fabbrica,
dalla trama coloniale alla realtà della metropoli o della
complessa periferia urbana. Eppure, la sua presa sul mondo è
plasmata da una consistente dose di ironia, cinismo, senso di
decadenza, tormento, ma anche distacco e ricerca di
singolarità. È nelle peripezie di questo sguardo,
ricco di aporie e snodature sfuggenti, che emerge e viene rappresentato
il frutto dell’individualizzazione nella società
occidentale.
Come valenti studiosi hanno dimostrato, questo
lungo processo socio-storico, che ha condotto alla pretesa di ogni
persona di reclamare la propria unicità, è
emanazione dell’affrancamento dell’uomo occidentale
dalla dipendenza ma anche dalla protezione di realtà
trascendenti e divine. La conoscenza, il controllo del mondo reso
possibile da scienza e tecnica hanno infatti portato all’idea
di poter governare razionalmente la realtà, di poter
disegnare e dominare il divenire (cfr. sull’argomento anche
Cavicchia Scalamonti, 2007). Un’illusione di onnipotenza,
sostiene Horst-Eberhard Richter in un suo bel saggio, del tutto
narcisistica, che ha però caricato sugli uomini
responsabilità insostenibili, anche perché
ingiustificate e destinate ad essere spesso disattese (cfr. Richter,
2001). Perciò alla volontà di autorità
sul mondo si sono intrecciati, in maniera tanto ironica quanto
indissolubile, il timore e la sensazione di debolezza e
incapacità. E per questo è lecito parlare di
complesso narcisistico di impotenza-onnipotenza, ovvero di
un’ambivalenza potenzialmente traumatica.
Un complesso che, oltre ad essere riverberato nelle forme e nella storia
della cultura, della politica, dell’organizzazione sociale,
sembra essersi poi inoltrato nell’esistenza di ogni
individuo. Perché, anche in ossequio all’esigenza
di unicità, ognuno è chiamato a forgiare
autonomamente la propria biografia (cfr. Beck, 2008), ad
autorealizzarsi, a concepire di suo pugno il significato di
realtà invece complicate e spesso inafferrabili. Ma, di
fronte alla pluralità contraddittoria del reale, e smarrito
il conforto – forse castrante, ma in qualche misura
rassicurante – della razionalità classica,
è presumibile che l’individuo si trovi di fronte
ad una forte difficoltà nell’attribuire valori
netti e riconosciuti, nel dominare gli eventi, pur avvertendone la
responsabilità. In fondo, per questo il riparo fornito dagli
assoluti dei totalitarismi, che davano risposte certe benché
liberticide, o la messa al bando di ogni ambivalenza – come
lo straniero, l’ebreo, il diverso, ecc. – hanno
spesso potuto fare breccia nelle persone.
Così, a
suo modo, anche il rifugio nel nichilismo di Bardamu diviene una
risposta diffusa al disagio provocato dal peso di dover creare il senso
delle cose. Un atteggiamento, insomma, tipico del Novecento.
Ciò rende il protagonista del romanzo di Céline
una sorta di portavoce delle istanze del suo tempo.
Quella che
egli affronta è una specie di diserzione dinanzi alle zone
di crisi che gli si aprono attorno. Bardamu penetra nei vuoti, nelle
carenze dell’esperienza moderna, dove domina
l’impossibilità di imporre significati propri,
dove aleggia il pericolo dell’impersonalità. Dove,
insomma, la responsabilità di concepire e farsi carico dei
valori e dei propri criteri diviene per tanti motivi vana e
impraticabile. Per questo il distacco, l’accettazione ironica
e cinica della propria inconsistenza, assume i contorni di una via
quasi salvifica. Schiacciato dall’obbligo di scelta, e
dall’insufficienza del proprio arbitrio di fronte
all’inestricabile contraddittorietà del mondo,
allora ci si può abbandonare all’impotenza, che
prende i tratti ora dell’edonismo, ora della gratuita ma
turbata cura dei più indigenti, ora della strafottenza, ora
della percezione di inadeguatezza, ora dell’istinto di
conservazione, ora dell’insoddisfazione, ora di un senso di
abbandono, ora dell’inquieta fuga dalla colpa.
Le tenebre della notte che avvolge Bardamu accompagnano proprio i territori di vuoto e di molteplice indeterminatezza della sua epoca. Così, ad esempio, la realtà desolata delle regioni coloniali rappresenta quello che Stephen Kern chiamerebbe uno “spazio positivo negativo” (Kern, 1995). La desolazione del luogo, quel nulla che ti circonda, non è semplice assenza, ma assume un significato rilevante. Stringe il protagonista, lo pervade e si infiltra nella sua coscienza. Ed è il costante richiamo della solitudine che il suo distacco ironico inevitabilmente comporta.
In maniera analoga, la Grande Guerra, vissuta perlopiù ai bordi o nella notte oscura ma per certi versi rassicurante, si presenta distintamente agli occhi di Bardamu come paralisi della volontà, meschina e grottesca sospensione del tempo e dell’azione, inutile massacro. Il protagonista avverte l’alito dell’orrore, la sua oscenità. E la notte qui diviene una protezione contraddittoria. Così come solo uno sguardo distaccato e avido di paradossi e cinismo può esorcizzare il silenzio della coscienza, l’assenza di parole significative che il trauma bellico genera. Non solo, ma esso è forse l’unica rivincita dell’individuo, della sua singolarità, di fronte all’anonimato della morte di massa, all’impotenza che annichilisce qualsiasi senso di autorità, di unicità del sé, gettando luce sull’angoscia del fallimento narcisistico.
Non meno spersonalizzanti possono risultare la fabbrica fordista e la metropoli, ambienti centrali della modernità che Bardamu abita e sperimenta compiutamente. Da una parte l’esperienza della subordinazione al regime del lavoro industriale che, denuncerebbe György Lukács, rischia di accantonare le “proprietà qualitative, umano-individuali del lavoratore” (Lukács, 1991, p. 114). Dall’altro il contesto della grande città, labirintica, caotica, anonima, ricca di suggestioni transitorie e spettacolari, che fa del transitorio e del fugace la propria cifra. Nei suoi “santuari dell’effimero”, i suoi passaggi plurali e contraddittori, tutto sembra fuggir via (Rella, 1981, pp. 97-101). Anche l’idea di solidità dell’Io, che – opinione diffusa nella modernità – pare smarrirsi nello spaesamento complessivo, compromettendo l’idea di governo cosciente del divenire.
Infine, il degrado della periferia francese, lo stato di
abbandono sia sociale che umano, che invalida la vanagloria
dell’idea di progresso, ormai impaludato nella miseria della
condizione dell’uomo. La fiducia nel dominio razionale delle
cose deve ormai fare i conti con il suo fallimento. Lo stesso oltraggio
colpisce l’orgoglio del pensiero scientifico e della
disciplina medica, la cui baldanza viene ampiamente sminuita dal
tagliente sarcasmo dell’opera. Anche qui il legame turbolento
tra onnipotenza ed impotenza emerge in tutto il suo travagliato vigore.
E l’individuo, in questa realtà, pare come
irretito, ridimensionato nella sua volontà e determinazione.
In effetti, nell’insieme, Céline coglie probabilmente
un lamento diffuso di tipo identitario. Di fatto, proprio tra Otto e
Novecento nel pensiero occidentale si diffondono a dismisura necrologi
dell’Io come realtà salda e durevole (cfr. Burrow,
2002). Con buona pace dell’idea di bontà,
autenticità e coerenza del carattere e della
personalità. Uno schiaffo in chiave narcisistica non
indifferente. Per non parlare dell’ambivalenza inquieta che
emerge quando l’inconscio guadagna la ribalta
dell’attenzione sociale e si erge a protagonista
dell’esistenza. Garante estremo
dell’individualità,
dell’unicità della persona, esso rivela
però un atroce contraltare: la sua
ingovernabilità. Uno smacco clamoroso per
l’orgoglio e la volontà di potenza, specie delle
élites. Allora le strade da percorrere non sono poi tante.
Una è quella di abbandonarsi allo sconforto per la
difficoltà di realizzarsi come volontà, di
esprimere la propria direzione. Un’altra è,
all’opposto, quella di avvalersi della deresponsabilizzazione
che l’inconscio mette su un piatto d’argento, per
tentare di proclamarsi innocenti permanenti, di indossare gli abiti
dell’infante perpetuo e privo di macchia (cfr., in tal caso,
Bruckner, 2001).
Non è inverosimile pensare che
Bardamu in qualche misura incorpori entrambi gli orientamenti. La sua
condizione, che da un certo punto di vista fa da specchio alla miseria
che lo circonda, è quella di uno smarrimento sostanziale e
prolungato. Forse solo la morte, negazione della negazione, pare capace
di annientare – in modo paradossale – il vuoto
stesso. Per questo, solo un altro personaggio chiave del romanzo,
Robinson – un doppio atipico del protagonista che ne
condivide tutti gli accenti d’inquietudine – con la
sua capacità di pensare la propria dipartita e di morire
sembra aver avuto la possibilità di determinare la propria
direzione. Quasi come se nella fine di tutto si celasse il nucleo
più poderoso e vincente della scelta; come se nella mancanza
di senso dell’epilogo fatale si riuscisse a stanare, una
volta e per tutte, l’ipocrisia di un’esistenza dai
significati impercorribili. A pensarci bene, un’ironica
rivincita dell’individuo su se stesso.
LETTURE
× Beck U., Eigenes
Leben. Ausflüge in die unbekannte Gesellschaft, in der wir
leben,
1997, trad. it. Costruire la propria vita,
il Mulino, Bologna 2008.
× Bruckner P., La tentation de l’innocence, 1995, trad. it. La tentazione dell’innocenza, Ipermedium libri, Napoli 2001.
× Burrow J. W., The Crisis of Reason. European
Thought, 1848-1914,
2000, trad. it. La crisi della
ragione. Il pensiero europeo 1848-1914, il Mulino, Bologna
2002.
× Cavicchia Scalamonti A., La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium libri, Napoli 2007.
× Kern S., The Culture of Time and Space 1880-1918,
1983, trad. it. Il tempo e lo spazio.
La percezione del mondo tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 1995.
× Lukács G., Geschichte und
Klassenbewusstsein. Studien über marxistische Dialektik,
1923, trad. it. Storia e coscienza di classe,
SugarCo, Milano 1991.
× Rella F., Miti e figure del moderno. Letteratura, arte e filosofia, Feltrinelli, Milano 1981.
× Richter H.-E., Der Gotteskomplex, 1979, trad. it. Il complesso di Dio, Ipermedium libri, Napoli 2001.