celine_1915 Céline, 1915

QUEL PUNKETTONE
DI LOUIS-FERDINAND

di Francesco Zago


Pensate a un grosso pezzo di carta vetrata, di quella abrasiva, bella spessa, a grana grossa. Ecco, Céline è il virtuoso della carta vetrata. Per questo Céline è punk. Diciamolo pure, a costo di cadere in un flagrante anacronismo, o in un madornale errore critico. Perché ovviamente il dottor Destouches non poteva sapere nulla del punk così come lo conosciamo noi oggi, perché non erano certo gli anni Settanta e Ottanta. Ma Céline è un autentico punk nell’atteggiamento, nella postura – persino fisica, tanto che pare di vederlo uscire letteralmente dalle pagine, di sentirlo nelle orecchie – del perenne incazzato. Astioso, gesticolante, eccessivo, persecutorio.
Certo qualcosa divide nella sostanza Céline da, tanto per fare un esempio, Sid Vicious: laddove il punk ha celebrato l’incapacità di suonare come espediente espressivo, l’autore del Viaggio al termine della notte è un vero funambolo della penna (o della carta vetrata, se preferite). Ma quasi tutte le sue opere, più o meno note o celebrate, hanno così tanti tratti in comune con certa cultura giovanile più vicina alla nostra epoca che – con buona pace della critica letteraria e musicologica – è quantomeno affascinante immaginare il viso di Céline distorto dallo stesso ghigno arrogante di Sid, o di vedere il dottor Destouches tra le file di un Punk Front ante litteram, alfiere del nichilismo più sconfortante, antisemita e collaborazionista (non dimentichiamo lo sfoggio di simboli neonazisti da parte proprio del leader dei Sex Pistols, ma non solo. La provocazione più autentica può servirsi anche dell’offesa più orrenda, inqualificabile, insostenibile. A ogni modo, non ci si dilungherà qui sull’annosa questione dell’antisemitismo di Céline: basti suggerire l’accostamento).
Se conoscete già lo scrittore, sapete di cosa stiamo parlando. Se non avete mai letto nulla di Céline, allora vi suggerisco di partire da un libretto modesto nelle proporzioni quanto sferzante nelle intenzioni. Ben diverso nella mole dai grandi capolavori di Céline, i Colloqui con il professor Y non sono da meno quanto a livore tragicomico del Viaggio o di Morte a credito. Anzi. In poche pagine l’autore riesce a prendersela con tutto e tutti: inveisce, par di vederlo abbaiare, sputazzare, gesticolare, farsi paonazzo. Le sue ossessive recriminazioni non risparmiano nessuno, attraverso la figura ridicola del suo intervistatore, vero e proprio capro espiatorio, il povero Colonnello Réséda, alias professor Y (via via apostrofato dal suo fantasioso interlocutore come, fra le altre cose: “cagaculo”, “incapace”, “troia”, “porcone”, di nuovo “troia”, “pisciarolo”, “fottuto intervistatore dei miei coglioni”, “sozzo finto essere”, e via dicendo). Le pessime condizioni della prostata del Colonnello lo mettono in una condizione perlomeno imbarazzante; in sostanza, non fa che pisciarsi addosso, con grave disappunto (come se non gli bastasse!) di Céline. L’escalation conclusiva dell’intervista/invettiva va di pari passo con l’allargarsi della pozza di urina prodotta dal Colonnello, in un crescendo ritmico degno di Stanlio e Ollio. Lo scrittore ce l’ha con, in ordine sparso: l’editoria, i giovani, le “idee” (“io non ho idee! neanche mezza! per me non c’è niente di più volgare, di più ordinario, di più disgustoso delle idee”) e i “messaggi”, le emozioni e la letteratura che vorrebbe suscitarle, il pubblico (“bestia, minorato psichico e via dicendo”, i “lettori francesi sono snob, fessi e servili”) e gli scrittori (quelli francesi sono “tutti morti”, quelli stranieri “non esistono”) che cercano di assecondarne i gusti, i “cantanti d’amore” (“cancheri marci del lirismo”). Di passaggio, non dimentica i pittori, i turisti (“non c’è caio più coglione d’un turista”), il cinema, perfino la chirurgia estetica (uno dei fulminanti casi di preveggenza di Céline: “tutto l’obitorio di natiche impalate, coscie impalate, zinne operate, nasi accorciati, e chili di ciglia!”).
Lo scrittore sembra perfino crogiolarsi nella propria maledizione, negli insulti e nelle accuse, nella galera a cui è stato costretto per le sue “invenzioni”, per la sporcizia e l’odio che trasudano dalle sue pagine. Céline è immodesto, egocentrico, aristocratico, tracima disprezzo (il suo interlocutore lo definisce “un’immondizia vivente per principio”), e se ne vanta: lui sì che ha il coraggio di mostrare l’”io perpetuo”, “l’indecenza! l’esibizionismo!”

 

È lo stile celiniano del “metrò emotivo”, il “nero metrò”, “quest’abisso sporco, puzzolente e pratico”, un mostro metallico e sotterraneo che travolge ogni cosa, che corre all’impazzata su binari distorti, “profilati su misura”, i lettori “stipati, chiusi a chiave, doppio giro!”, costretti a subire violenza dallo scrittore, “stipati ‘ammucchiati emotivi’!” Céline professa l’”ultraprecisione emotiva”, la cacofonia del linguaggio parlato ritrascritta sulla pagina, gelosa delle sue irregolarità, della sua patina lurida e fatiscente. Ma i vagoni emotivi di Céline sono fatti per deragliare e ribaltarsi: “Basta un niente… e salta tutto! […] Binari costruiti apposta, che sembrano dritti e non lo sono”. E poi, ecco il nocciolo della questione, il nesso tra stile ed emozione, tra strumenti e artigianato della scrittura e quel grumo viscerale e indefinibile di cui tutti, scrittori, lettori e critici, si beano fino alla noia: “i binari sono dritti solo nell’emozione!” I binari dritti sono il classicismo, i cliché, i modelli preconfezionati dell’editoria (e dell’arte in genere), e soprattutto l’espediente cui ogni “artista” ricorre sapientemente: esprimere l’emozione e suscitare l’emozione, degradata a passatempo, fremito domenicale e borghese, adatto a tutti, per ogni palato (oggi la televisione e gran parte del cinema commerciale sembrano incarnare questo demone dell’emozione a tutti i costi, dell’espressività vuota e codificata). Scomodo, eretico, anarchico, blasfemo, sovvertitore: perché non vedere in questo irrimediabile rifiuto di ogni forma di romanticismo e sentimentalismo (in tutti i sensi possibili, e senza un’alternativa che non sia la violenza verbale) una conferma della vena punk, cattiva, eretica di Céline? (Buttiamola lì: vi dicono niente nomi come John King, autore fra l’altro di Human Punk, e Irvine Welsh? Con le debite differenze, non vi sembrano parecchio vicini a Céline, prima di tutto nel frantumare la lingua scritta e accademica, nell’eliminarne le cadenze, i ritmi, i sillogismi della trama, sostituendoli con il parossismo e l’allucinazione, lasciando esplodere la vita e il desiderio cocente che la anima?)
Il modo in cui Gianni Celati parla dei Colloqui (nella “Nota” conclusiva all’edizione Einaudi) potrebbe applicarsi tranquillamente al più blasfemo e irriverente dei punkettoni: “In questo senso, per questa sua interna vocazione al travestimento completo, al carnevale catastrofico, l’opera di Céline si colloca naturalmente in uno spazio underground, ed è tanto più estrema (il che significa meno socialmente integrabile) di tante forme di letteratura ‘bassa’ giocate su un’astuzia intellettualistica” (in Céline, 2009). Ci sembra che qui Celati abbia visto davvero giusto; perfino l’immagine del “metrò emotivo”, scomodo, sgangherato, notturno, su cui insiste a lungo Céline richiama le atmosfere urbane, degradate e sotterranee, tanto care al punk e ai nipotini di Sex Pistols e Clash. (Si rimanda a quella “Nota” per le conseguenze critiche di questa impostazione, sull’idea di “maschera” céliniana, sulla non-identità tra la parola scritta e le opinioni concrete, quotidiane del “Céline in carne e ossa”.)

 

Non si è tirato in ballo il punk tanto per fare, ma anche per sfatare un mito, o semplicemente un luogo comune. Alcuni hanno segnalato, e forse in parte giustamente, il parallelismo tra il linguaggio di Céline e il jazz. Può darsi che sia così. Ma non ci sembra che tale accostamento sia dei più riusciti. In primo luogo perché il jazz – almeno un certo jazz, quello degli anni Trenta e Quaranta – non aiuta a chiarire meglio una lingua, quella di Céline, così unica, irriducibile a modelli letterari e, a maggior ragione, extraletterari. (A mo’ di corollario, ci sembra importante aggiungere, la lingua di Céline non aiuta certo a capire meglio il jazz.) In secondo luogo, credo che il paragone calzerebbe se si riuscisse a vedere in una pagina dello scrittore una parafrasi, una riscrittura, una riproduzione, in una qualunque misura consapevole ed esplicita, del linguaggio jazzistico. (Fra parentesi, continuiamo a parlare di “jazz”: come si può paragonare lo stile di un autore a un’entità tanto vaga, un’etichetta del tutto astratta? Né basta, come qualcuno sarà stato sicuramente tentato di fare, appigliarsi al più ritrito dei luoghi comuni popolar-musicologici, cioè che il jazz è musica “sincopata”… Un’espressione incomprensibile: a parte forse il canto gregoriano, dalla fine del Medioevo a oggi non c’è musicista che non abbia rinunciato alla sincope nella propria scrittura. Dove c’è tactus, dove c’è pulsazione, c’è anche la sincope. Pare sia un espediente inevitabile. Se poi si tenta la carta dell’improvvisazione, in quanto tratto distintivo, questo sì, della pratica jazzistica in genere, siamo completamente fuori strada: non c’è scrittura più calcolata e dettagliata di quella di Céline.)
Detto questo, mettiamo da parte per un momento il jazz, e rileggiamo Céline come un esteta ante litteram del punk, del disordine espressivo e debordante (si può essere calcolati ed eccessivi? Céline fu un maestro in tal senso, e quindi maestro della contraddizione). E non perché la sua scrittura sia appena appena assimilabile al punk in quanto genere musicale (di per sé fra i più poveri e privi di sviluppo, va detto, almeno in termini strettamente tecnici). Ma per le migliaia di voci distorte, urlanti, biascicanti, con cui Céline investe il lettore: l’assenza totale di compromessi, l’angheria verbale, meglio se gratuita. Come con grande efficacia scrive Michele Mari in I demoni e la pasta sfoglia, Céline, “grande untore di indefinibili sgradevolezze […] si immola come un capro espiatorio che sussuma tutta la bassezza del mondo, e salvi se stesso e il mondo trasformando quel male in stile” (Mari, 2010, p.257). E infine: “In ogni caso ci troviamo di fronte a uno scrittore che come nessun altro artista ha posto la questione del manierismo in termini di abiezione, tanto che la sua sigla, i suoi proverbiali tre puntini, ci appaiono come smagliature di un tessuto, punture di insetti velenosi, reazioni a un vaccino, punti chirurgici, melanomi, ictus, o qualsiasi altra cosa sia estranea alla nostra ingenua idea di salute, di benessere, di conservazione e autoconservazione. Perché quei puntini, ce lo dice l’etimologia, sono abietti, sono gettati via, sono il segno di un continuo sacrificio di sé”.
In altre parole, il jazzista mi sembra troppo “educato”, sofisticato, perfino “pulitino” (pur non ignorando le vicende di droga e alcol di Charlie Parker, i denti sfasciati di Chet Baker, la tragica fine di Pastorius, e chi più ne ha più ne metta), mentre il punk è sistematicamente, geneticamente rozzo, sporco, eretico, attaccabrighe, bestemmiatore, sgradevole, grottesco ma mai comico, tantomeno divertente. Uguale: Louis-Ferdinand Céline.
Il dottor Destouches, in quanto medico, ha deciso consapevolmente di “mettere le mani” nelle turpitudini peggiori del corpo umano – fisico e metaforico – con lo stesso piglio eroico e strafottente di quel dottor Semmelweis protagonista della tesi di laurea in medicina di Cèline. Il personaggio reale si confonde con la pagina; l’io narrante e onnipresente – testimone di una sproporzionata parabola autobiografica – coincide con l’uomo Céline. Proprio come Semmelweis – irruento, caparbio, ma incompreso e perseguitato – finisce per essere infettato dopo aver scoperto l’origine della febbre puerperale, Céline “è un martire-missionario votato allo scandalo e al paradosso” sostiene Mari. “Per questo, lui fobico igienista, sguazza nella sporcizia, perché solo dal basso l’agonismo può essere antivirale; per questo è persecutore e perseguitato, guerrafondaio e pacifista, dandy e straccione, sempre sincero e sempre falso […] egli è lo scrittore che come nessun altro ha insieme ammesso e negato il perturbante nella propria pagina, una pagina senza dimensione simbolica perché in essa tutto è sintomo” (Mari, cit. p. 256). E tutto questo, aggiungiamo, senza neppure il filtro, freudiano e junghiano, dell’anima, dell’Io o di chissà quale altro schermo “psicologico”: l’uomo è il suo corpo e basta, anatomico, organico, orribile e ridicolo. Se la letteratura è il mezzo con cui si esprime – si anatomizza, si descrive, si disseziona – il corpo, la letteratura stessa non può che raccontarne le malattie, i morbi, le deformità, le aberrazioni. Non c’è racconto interiore, flusso di coscienza o altro, ma sintomatologia e anamnesi di un corpo che sembra impossibile guarire.

 

LETTURE

× Céline L.F., Entretiens avec le Professeur Y, 1955, trad. it. Colloqui con il professor Y, Einaudi, Torino, 2009.

× Céline L.F., Semmelweis,  1924, trad. it. Il dottor Semmelweis, Adelphi, Milano, 1975.

× Mari M., I demoni e la pasta sfoglia, Cavallo di Ferro, Roma, 2010.