IGNAZIO FILIPPO SEMMELWEIS
ovvero la vertigine della verità
di Livio Santoro
È così che la società ha fatto
strangolare nei suoi manicomi
tutti quelli di cui aveva voluto sbarazzarsi
o da cui ha voluto proteggersi,
in quanto avevano rifiutato
di farsi complici in certe emerite porcherie.
Antonin Artaud
Van Gogh. Il suicidato della società
“La clinica” sostiene Michel Foucault
“non costituisce né una vera scienza né
una falsa scienza, benché in nome dei nostri criteri
contemporanei possiamo attribuirci il diritto di riconoscere come veri
alcuni dei suoi enunciati e come falsi alcuni altri” (Foucault, 2007, p. 64). Come tutte le altre scienze, la clinica
è regolata dalla storia, dalle infinite connessioni che la
legano all’ordine discorsivo e che ne modificano volta per
volta i vettori. Come tutte le altre scienze, la medicina crea le sue
stesse verità, se ne fa forte e le introduce in quel sistema
di riproduzione del reale guidato dalle anonime ma onnipresenti
ingerenze del Potere. Inoltre, a sentire quanto suggerito dal furore
dell’iconoclasta Ivan Illich, la medicina conserva al suo
interno, come elemento costitutivo imprescindibile, una dimensione
innegabilmente iatrogena in cui elementi eterogenei (umani e non) come
gli ospedali, le mani e i gesti dei profeti di Esculapio, i farmaci e
le pratiche di assoggettamento del malato, non fanno altro che creare
quelle condizioni per cui si rende necessario il suo stesso intervento.
La medicina di Illich è iatrogena, cioè forgia
essa stessa la malattia ponendone i criteri identificativi, in quanto
è costruita su un complesso di male pratiche,
dove queste ultime le sono intimamente organiche, tasselli
dell’impalcatura di una necessaria metodologia messa a
suggello della sua stessa sopravvivenza (Illich, 1977).
Ecco, allora, che la medicina, nell’uno e nell’altro
caso, ossia nelle prudenti discussioni di Foucault che
l’ancorano all’onnipresenza del Potere e nella
cieca rabbia di Illich che l’ancora, invece, alla violenza
del dominio, si dimostra fallibile, o quantomeno costruita su linee di
demarcazione mutevoli e arbitrarie. In ogni epoca ha le sue leggi e
prova testardamente a rispettarle, in ogni epoca si dà in
base a certi criteri determinati e cangianti. Come tutto il resto
d’altronde. Allo stesso modo anche l’oggetto
principale della medicina, la malattia, si adegua a questo inevitabile
adagio. Lungi dall’appartenere ad un’origine
trascendentale (come fosse una scaturigine di un nucleo ontologicamente
stabile e definitivo), la malattia è un fatto storico, che
si pone in relazione all’asse vita-morte (che diventa
vita-malattia-morte) solo a partire da un certo momento, ovvero da quel
passaggio avvenuto in Europa tra il Diciottesimo ed il Diciannovesimo
in cui prende definitivamente a sostanziarsi lo sguardo medico
(Foucault, 1998). Per come la conosciamo oggi, la medicina clinica si
è presa a strutturare a partire da quest’epoca
precisa, cioè da quando il corpo, come oggetto concreto e
palpabile, ha colmato la vacua eredità delle vecchie
ingerenze dettate da quel pudore precedentemente imposto da una fossile
morale dal raffermo gusto episcopale. È in questo modo che
si è preso a ispezionare i corpi vivi, per esempio
attraverso alcune splendide ed illuminate strumentazioni materiali come
lo stetoscopio (ibidem, p. 177). Così,
allo stesso tempo, si è preso anche a sezionare i corpi
morti, oramai lontani dalle vecchie definizioni sacrali che li facevano
oggetti inviolabili, stati antropologici nulli a visibilità
azzerata. Sicché la clinica, posta nel sistema di mutamento
di regole condizionato da quella frattura epistemologica che
l’ha generata, sembra abbia seguito un imperativo ipertrofico
e furioso: quell’imperativo della scienza, della certezza
dello sguardo positivo, che cominciava a dettare con insistenza,
attraverso la voce di Marie François Bichat, e al modo di un
nuovo comandamento secolarizzato, la seguente legge: Aprite
qualche cadavere! (ibidem, pp. 136-160).
Tuttavia tale cruciale comandamento non proviene soltanto da un
modificato ordine morale, tutt’altro. Esso proviene da una
nuova evidenza nosologica, dalle chiare connessioni che
l’anatomia patologica, nel suo ragionamento incentrato sui
tessuti e sugli organi, impone alla medicina.
In questo scenario la morte comincia ad essere assunta su una
diversa piattaforma antropologica rispetto al passato, e allo stesso
tempo prende a dialogare con la vita, da coprotagonista, se
così possiamo dire, della medesima commedia: tra di esse, la
malattia. Ma è pur vero che tutto questo, per come ne
abbiamo parlato, rappresenta uno scenario generale, un palco regolato
dalle leggi di una regia anonima e sostanzialmente opaca. Su tale palco
i singoli soggetti, generalmente, tendono nel tempo ad attestarsi su
linee di passività, di adeguamento, come una truppa di
caproni sordi e inebetiti a seguire senza sosta la sferza del bastone
del pastore, incapaci di darsi un’etica singolare, di seguire
un proprio stile. Come si potrebbe dire continuando a brutalizzare
Foucault, si tratta di individui assoggettati,
ancora statici e testardamente indecisi nella doppia esposizione ai due
bordi di un precipizio epistemologico (la rottura di cui sopra abbiamo
già parlato). D’altronde non sono soltanto i
soggetti a decidere di sé: le soglie della loro stessa
soggettivazione sono fissate dal potere, proprio fin dove, tuttavia,
non subentra un certo stile etico o estetico che, al di fuori del
potere, produca come una derivata la stessa soggettività
(Foucault, 2011; Deleuze, 2002, p. 134).
Tra tutti questi
individui assoggettati nel cruciale passaggio di cui stiamo raccontando
e da cui s’è generato lo sguardo medico in tutte
le sue capacità, tra tutti questi inconsapevoli protagonisti
della storia grande che ha fatto il nostro mondo,
alcuni hanno più di altri assunto sulle proprie spalle il
fardello della contraddizione e l’alea del reale,
incorporando in se stessi la profondità del precipizio, la
vertigine di una soggettivazione inattuale, rifiutata senza appello da
un discorso che ancora va formandosi: individui che hanno rifiutato
l’assoggettamento delle verità discorsive. Costoro
hanno vagato nelle trame irriconoscibili del potere, ne sono stati
fagocitati e a volte negati, hanno spesso subito lo scacco dello
stigma; sempre si sono fatti testimoni di una versione della
verità inconciliabile, e addirittura antagonista rispetto a
quella del potere e del suo discorso. Nella clinica, nella prima
formalizzazione del discorso medico, e restiamo in quel passaggio tra
il secolo Diciottesimo e il Diciannovesimo che abbiamo ricordato, uno
di questi inattuali protagonisti della storia, di questi profili
reietti e teratologici, di questi protagonisti dell’alea del
precipizio, viene oggi ricordato con il nome sensazionale di Ignazio
Filippo Semmelweis. A questi, Louis-Ferdinand Céline, uno
che già di per sé avrebbe covato un manifesto
rancore nei confronti della medicina e del suo potere, ha dedicato una
breve memoria, un profondo grido che ricorda l’uomo alle
prese con un doppio precipizio: quello del potere nella sua ostinazione
e quello della soggettività che vive il proprio afflato
veritativo nelle costrizioni di uno stato inattuale.
Eccolo, Semmelweis, cadere proprio in quella frattura cha
abbiamo già descritto, presentarsi all’inizio del
secolo Diciannovesimo, al centro dell’Europa e della Terra:
“In una delle più colorite città del
mondo, nacque Ignazio Filippo Semmelweis, quarto figlio di un
droghiere, a Budapest sul Danubio, nel profilo della chiesa di Santo
Stefano, nel cuore dell’estate, esattamente il 18 luglio
1818” (Céline, 2006, p 17).
Di nuovo: il
Semmelweis di Céline, che compare così, in un
ambiente totale quale la città e allo stesso tempo minimo
quale la drogheria di un babbo bottegaio, acquisirà sulle
sue spalle l’onere aleturgico di uno
stile etico determinato e cocciuto, catturato da una parte dalla
necessità della verità, del dire la
verità stessa, e dall’altra costretto nelle maglie
strette e asfittiche di un discorso, quello della clinica, ancora
testardamente concentrato su un’auto-legittimazione olfattiva
da cui trarre l’esercizio del proprio potere.
Céline è il suo Semmelweis, e allo stesso modo di
quel Ferdinand Bardamu che in più occasioni – per
fare solo due esempi: la ruvida entrata di Morte a credito
(Céline, 1997) e la descrizione del ricovero disciplinare di
Issy-les-Moulineaux (Céline, 1992; si veda anche de Leva, in
questo stesso numero) – verrà al conflitto con la
medicina, anch’egli si situa precisamente in quella soglia
interstiziale che definisce i margini del precipizio di cui abbiamo
già parlato. Semmelweis (come lo stesso Céline e
come Bardamu) è lì precisamente per dire la
verità, la sua verità, per assumersene il
coraggio, esattamente come quei parresiasti
descritti da Foucault (2011) che stabiliscono con l’etica le
soglie della soggettivazione. La linea continua della produzione di
Céline, in altri termini, prende il via, e non
s’intenda solo cronologicamente, dalle urla aleturgiche di
Semmelweis, dal carico della sua stessa verità.
Sicché quel medico nato a Budapest nel 1818 che avrebbe
sconfitto, inascoltato in vita, la febbre puerperale, non
può essere altri che il primo vero personaggio della prosa
céliniana. Perché porta con sé una
specifica verità, tanto grande e totale da prendere il
sopravvento su tutto il resto, sulla sua stessa debolezza. Proprio da
Semmelweis, Bardamu imparerà a ritirarsi, ad accompagnare la
miseria dell’uomo senza farsene carico, passando
dantescamente oltre. Semmelweis, con la sua sconfitta ed il suo
sacrificio indica al suo epigono certamente più famoso la
strada da percorrere.
C’aveva la debolezza
imposta dall’evidenza, Semmelweis, ma da
un’evidenza inattuale, un’evidenza ancora sconfitta
dalla vecchia verità medica degli odori cancerosi, la stessa
verità che ha disegnato le diaboliche maschere dei medici
veneziani. Troppo forte quest’evidenza, troppo dissimile
dalle linee accettate e condivise dalla clinica: “Ostetricia
e Chirurgia rifiutarono con slancio quasi unanime, con odio,
l’immenso progresso che veniva loro offerto. Esse si
appoggiavano a bizzarre suscettibilità per potersene restare
nei pantani delle sciocchezze purulente, accanto al giuoco dei casi
mortali” (Céline, 2006, p. 70). Troppo debole
Semmelweis, sopraffatto dalla forza della sua verità
nell’affrontare il potere della medicina:
“Là dove Semmelweis si è spezzato, non
c’è dubbio che la maggior parte di noi sarebbe
riuscita, ricorrendo alla semplice prudenza, a delicatezze elementari.
Egli non aveva, o trascurava, così sembra,
l’indispensabile discernimento delle futili leggi della sua
epoca, di tutte le epoche del resto, al di fuori delle quali la
stupidità è una forza indomabile” (ibidem,
p. 42). La debolezza di Semmelweis fu proprio quella di farsi
trascinare violentemente dalla foga della sua verità.
Questa
l’evidenza di Semmelweis, la sua verità: la vita e
la morte non sono la stessa cosa, sicché le si tratti in
maniera differente, le si tocchi con mani differenti. Conclusione
semplice, d’accordo, ma non quando gli stessi medici che
hanno appena praticato un’autopsia, con le stesse mani che
hanno sezionato la morte, accolgono la vita dei neonati nel loro primo
tragitto uterino. Semmelweis sapeva, immaginava, che proprio in quella
leggerezza stava la causa della febbre puerperale, in quella
trasmissione di infettanti materiali che comprometteva la vita delle
puerpere adeguandola subito alla morte. Aprite qualche
cadavere!: quel comandamento sancito dal medico Bichat si
portava dietro uno strascico bruno, come se la morte avesse voluto
vendicarsi con la tracotanza dell’uomo che aveva osato
ispezionarla; e il fatto che questa morte veniva inconsapevolmente
inflitta a chi dava la vita, ebbene racconta di quanto i fatti, nella
loro implicita ed inevitabile assenza di morale, possano affidarsi
invece all’ironia.
Semmelweis è tutto
questo: medico illuminato, uomo debole, precursore di uno stile
letterario, ombra del suo autore, folle rinchiuso, portatore di una
verità accecante, testimone di un precipizio epistemologico.
Non a caso il medico di Budapest, scontratosi con
l’indifferenza del potere, e con la debolezza che non gli ha
permesso di reggere alla forza devastante della sua stessa
verità, fa la stessa fine dei folli, anche loro parresiasti
(Fimiani, 1997, p. 35), anche loro carichi di un’onerosa
verità inascoltata e in uno stato coevo inascoltabile, come
Antonin Artaud. Allora questo gioco di corrispondenze, che pone
Céline accanto a Semmelweis ci riporta un quarto nome, quel
Vincent Van Gogh che Artaud (2006), di per sé, ha scelto
come suo specchio, come portavoce della sua verità.
Semmelweis, come Van Gogh e come Artaud si rifiutarono di farsi
complici della società nelle sue “emerite
porcherie” (ibidem, p. 17). Semmelweis
come Van Gogh, Artaud come Céline, tutti a vivere del
sacrificio della loro propria verità, in un continuo
affrontamento soggettivo nei confronti della dimensione discorsiva del
potere. Inattuali perché precursori e fautori di una
verità che sarebbe poi stata ascoltata, o quasi…
LETTURE
× Artaud A., Van Gogh le suicidé de la societé, trad. it. Van Gogh, il suicidato della società, Adelphi, Milano, 2006.
× Céline L.F., Voyage au bout de la nuit, 1932, trad. it. Viaggio al termine della note, Corbaccio, Milano, 1992.
× Céline L.F., Mort à crédit, 1936, trad. it. Morte a credito, Tea, Milano, 1997.
× Céline L.F., Semmelweis (1818-1865), 1924, trad. it. Il Dottor Semmelweis, Adelphi, Milano, 2006.
× de Leva G. Anche le anime dovranno venire alle mani, in “Quaderni d’Altri Tempi”, n. 34, settembre-ottobre 2011.
× Deleuze G., Foucault, 1986, trad. it. Foucault, Cronopio, Napoli, 2002.
× Fimiani M., Foucault e Kant. Critica clinica etica, La Città del Sole, Napoli, 1997.
× Foucault M., Naissance de la clinique. Une
archéologie du regard médical,
1963,
trad. it. Nascita della clinica. Una archeologia dello
sguardo medico, Einaudi, Torino, 1998.
× Foucault M., Sur l’archéologie
des sciences. Réponse au Cercle
d’épistémologie, 1968, trad.
it.
Sull’archeologia delle scienze. Risposta al
circolo di epistemologia, in ID Il sapere e la
storia, Ombre Corte, Verona, 2007.
× Foucault M., L’herméneutique du
sujet. Cours au Collége de France 1981-1982, 2001,
trad. it. L’ermeneutica del soggetto. Corso al
Collége de France (1981-1982), Feltrinelli,
Milano, 2011.
× Foucault M., L’herméneutique du
sujet. Cours au Collége de France 1981-1982, 2001,
trad. it.
L’ermeneutica del soggetto. Corso al
Collége de France (1981-1982), Feltrinelli,
Milano, 2011.
× Illich I., 1976, Limits to Medicine –
Medical Nemesis: the Expropriation of Health trad. it.
Nemesi
medica. L’espropriazione della salute, Mondadori,
Milano, 1977.