Totò e Carolina, 1955
INCONTRI RAVVICINATI
CON TOTÒ E LA CENSURA
DEGLI ANNI CINQUANTA
di Andrea Sanseverino
Venezia 1959, XXIV Mostra d’Arte Cinematografica.
È la giornata del 7 settembre, quella in cui la giuria
presieduta dal critico e teorico del cinema Luigi Chiarini deve
assegnare il premio più ambito, il Leone d’oro per
il miglio film in concorso. La scelta si risolve in un ex-equo
tra due pellicole accomunate dalla medesima idea che sostiene il
soggetto, ovvero il riscatto morale di persone inclini alla furberia e
la cui esistenza termina con la morte per fucilazione. Da un lato
c’è Il generale Della Rovere,
film tratto dall’omonimo libro di Indro Montanelli e che vide
all’opera nello stesso lavoro due indiscussi protagonisti del
cinema italiano nel suo insieme, ma in particolar modo di quel fenomeno
culturale che fu il neorealismo, ossia Rossellini e Vittorio De Sica,
rispettivamente, dietro e davanti la macchina da presa;
dall’altra c’è La grande
guerra (1959), diretto da Mario Monicelli, esponente di
primo piano di quell’altra straordinaria avventura del cinema
di casa nostra che fu la commedia all’italiana. La divisione
della posta ebbe un duplice significato: sotto un piano sia individuale
che generazionale lasciava intendere che il cinema di Monicelli e tanti
altri autori poteva giocarsela con i grandi; dall’altro, che,
come avvenne per il secondo conflitto mondiale, anche la tragedia che
iniziò con lo sparo di Sarajevo nel 1914 e che vide la
partecipazione dell’Italia l’anno seguente, poteva
essere oggetto d’attenzione dei nostri autori. Prima di
questo film, infatti, non c’era stata nessuna opera di
spessore che trattasse quest’argomento nonostante fossero
passati quarant’anni dalla conclusione del conflitto, il che
era indizio di un clima di serrata censura su certi temi (Casiraghi,
1995). Il cineasta viareggino ebbe infatti un tormentato rapporto con
le volontà governative e con parte della pubblica opinione
fin dai tempi delle co-regie con Steno e in particolar modo negli anni
Cinquanta.
Era il 1951 quando uscì nelle
sale Totò e i re di Roma, sesta
esperienza con il regista romano e la seconda con il comico partenopeo
nel ruolo di protagonista, film nel quale i futuri maestri della
commedia all’italiana incontrarono la letteratura russa,
appuntamento rinnovato un anno più tardi con Il
cappotto (1952), tratto da un racconto di Nikolaj
Vasil’evič Gogol’ e interpretato da un altro grande
della rivista, Renato Rascel, per la regia di Alberto Lattuada, con il
quale Monicelli aveva condiviso le prime esperienze con la macchina da
presa, ai tempi del cortometraggio Cuore rivelatore,
dal genio di Edgar Allan Poe. Con Lattuada, Monicelli aveva anche assaporato
il gusto amaro dell’invadenza delle istituzioni, dato che il
quindicinale d’avanguardia
“Camminare…”, nel cui comitato di
redazione i due erano presenti nel biennio 1932-33, incontrò
il veto del Ministero della Cultura Popolare, poiché non in
linea con la propaganda del regime di Mussolini. In Totò
e i re di Roma, ispirato ai racconti La morte
dell'impiegato e Esami di promozione di Anton
Čechov, il quasi cavaliere Ettore
Pappalardo conduce una vita sulla soglia dell’indigenza,
emblema delle aspre condizioni di vita di gran parte dei nostri
connazionali nel secondo dopoguerra, a tal punto che lo storico Lucio
Villari, commentando quegli anni difficili, trovò opportuno
riportare un’inquietante frase di un documento ufficiale
della Commissione interministeriale per la ricostruzione, secondo cui
si registrava “un abbassamento del tenore di vita a livelli
tali da far temere per l’esistenza stessa del popolo
italiano” (Villari, 1982, p. 12). Ammalato di cuore e con a
carico una moglie e cinque figlie, il protagonista vanta
trent’anni di onesto lavoro come servitore dello Stato.
È infatti archivista capo in pianta stabile del gruppo C al
Ministero e l’ostentazione di tali credenziali lo fa
precursore di tanti personaggi vessati che farciscono la narrativa e il
cinema italiani e, con essi, l’immaginario di noi tutti.
Basti pensare ad Antonio Mombelli de Il maestro di Vigevano,
un libro del 1962 di Luciano Mastronardi, portato sul grande schermo
nel 1963 da Elio Petri, che si avvalse della collaborazione di Age e
Scarpelli e l’interpretazione di un maturo Alberto Sordi.
Insegnante di scuola elementare in uno dei più operosi
Comuni lombardi, egli dichiara la propri appartenenza al gruppo B,
quarto scatto, coefficiente 271 e, con enfasi, 19 anni di servizio: una
vita di sacrifici costellata da familiari attratti dal rapido e
disonesto guadagno, colleghi invidiosi e per questo cattivi,
industriali furbi e soprattutto dalla pervasiva presenza del direttore
della scuola, il Professor Pereghi, del quale Mombelli subisce anche
l’arrogante ignoranza. È infatti costretto davanti
alla scolaresca a imitare Roderigo de Triana, il marinaio della Pinta
che per primo avvistò terra, su esortazione del direttore
che gli porge un cannocchiale per amplificare l’effetto della
messinscena, sebbene la scoperta del nuovo mondo sia avventa 72 anni
prima della nascita di Galileo Galilei, inventore del prezioso
strumento e la riscossa, nella quale Mombelli mette brutalmente il
direttore davanti al madornale errore, non può che avvenire
attraverso un atto di pura fantasia. Rispetto al maestro di Vigevano, a
dire il vero, Ettore Pappalardo non ha lo stesso spessore culturale,
anzi grava sul suo trentennale lavoro (e sull’aspirata
gratifica di un cavalierato) una terribile macchia, in quanto occupa da
tempo un posto al Ministero senza aver alcun titolo di studio e
ottenuto nel 1922, grazie alla complicità di un cugino
centurione della Milizia. Confessata la sua negligenza al capufficio,
è esortato da questi a prendersi la licenza elementare e
proprio in una delle più esilaranti scene, ma comunque
venata di tanta tristezza, si consuma uno degli interventi
più rimarchevoli della censura di quei tempi. Sollecitato a
dire il nome di un pachiderma da un maestro (un giovane Sordi, ma
già esperto comico) che prova rancore verso di lui per una
disavventura ministeriale, Ettore Pappalardo risponde Bartali, ma a ben
guardare il labiale di Totò, s’intuisce un altro
nome, quello di Alcide De Gasperi. Pare che a sostituire il nome del
noto statista con quello del celebre ciclista fu il doppiaggio in
extremis dell’attore Carlo Croccolo, che,
soprattutto in seguito, avrebbe prestato la voce al suo più
famoso concittadino, il quale, a causa di gravi problemi alla vista,
era difatti impedito a doppiare se stesso nelle scene riprese in
esterno che non erano agevolate dalla presa diretta del sonoro.
Nell’attesa di terne e quaterne servite in sogno,
magari regalate dalla tanto odiata suocera già passata a
miglior vita, Pappalardo trova piacevole conforto nella visione
dell’avvenente segretaria di sua eccellenza, rischiando di
rompersi l’osso del collo cadendo da una scala per ammirarne
le forme, consolazione che lo fa antesignano di un altro tartassato,
ossia quel Fantozzi, nato dalla penna di Paolo Villaggio e dalla regia
di Luciano Salce, che perennemente attratto da una poco avvenente
signorina Silvani, fatidica miss quarto piano, consuma i suoi anni
nella inquietante Italpetrolcemetermotessilfarmometalchimica, della
quale è matricola 7820/8 bis.
Ulteriore, magra,
risorsa del personaggio è quella di trincerare le proprie
delusioni e la voglia di riscatto dietro frasi come “E poi
uno dice che si butta a sinistra” e “Adda
venì...”, che la censura perdonò forse
perché, con la sconfitta del Fronte Democratico alle
elezioni del 18 aprile 1948, quelle in cui la Democrazia Cristiana
sfiorava la maggioranza assoluta dei voti, inaugurando la stagione del
centrismo di De Gasperi, la sinistra aveva detto addio a ogni
possibilità di governo, mentre l’adesione al Patto
Atlantico nel 1949 sanciva l’ufficiale allontanamento
dell’Italia dal Paese del socialismo reale.
Il
sodalizio con Totò, che il regista paragonò per
la sua vis comica a Charlie Chaplin, Buster Keaton
e i fratelli Marx, proseguì anche nella sua prima esperienza
lavorativa senza Steno, Totò e Carolina (1955).
L’incontro professionale con l’attore risale al
1949, con Totò cerca casa, film
comico-grottesco che a suo modo affrontava uno dei problemi
più sentiti del dopoguerra, e non solo, dalle famiglie
italiane, quello relativo alla crisi degli alloggi, sebbene Roma,
città in cui il film è ambientato, vivesse una
situazione favorevole rispetto ad altre realtà, soprattutto
quelle meridionali: se nella capitale si registravano in media tre
persone ogni due stanze, altrove la situazione era decisamente
più drammatica, con due-tre persone per stanza, includendo
nel conto anche la cucina (Villari, ivi). Se questo film molto
apprezzato dal pubblico fu tratto da Il custode,
una commedia di Alfredo Moscariello, Totò e
Carolina nasceva invece da un soggetto di Ennio Flaiano.
Monicelli, Age e Scarpelli lo scrissero insieme a Rodolfo Sonego, che
aveva collaborato anche alla sceneggiatura de La spiaggia,
film di Lattuada del 1954 che meritò
anche di essere discusso in Parlamento e che condivise il non
invidiabile primato del maggior numero di tagli subiti negli anni
Cinquanta da parte dei censori proprio con Totò e
Carolina. Quest’ultimo fu sforbiciato per una
quarantina di volte e, sebbene già pronto per uscire nelle
sale nel 1953, viene proiettato solo due anni più tardi. Nel
mezzo, precisamente nell’aprile del 1954, i produttori,
temendo aperte conflittualità con le direttive governative,
stabilirono di dar vita a una commissione di autocensura
“composta da affidabili incompetenti” (Di
Giammatteo, 1998, p. 426), decisione che rese ancora più
arduo il lavoro per gli autori del grande schermo del nostro Paese. A
molti non piaceva infatti l’idea che Totò avesse
smesso i panni del ladruncolo di infimo ordine di Guardie e
Ladri (1951), personaggio che preannuncia la maldestra gang
de I soliti ignoti (1958), accostato da sempre
all’esordio della commedia all’italiana, per
vestire una divisa e interpretare il ruolo dell’agente di
pubblica sicurezza Caccavallo Antonio, vedovo e con animo sensibile, da
artista, precisamente da scultore, che nel tempo libero modella non
certo costosissimo marmo, ma semplici molliche di pane. Come il
protagonista di Totò e i re di Roma,
anch’egli aspira a un avanzamento di carriera: alla nomina al
titolo di Cavaliere del lavoro di Pappalardo, si sostituisce il
desiderio di un cavallo per l’appiedato poliziotto, con
conseguente aumento di retribuzione di novemila lire mensili. La
promozione però è compromessa proprio
dall’incontro con la sventurata Carolina (Anna Maria
Ferrero), che, a seguito di una delusione d’amore e di una
prossima gravidanza non voluta, tenta il suicido, tema ricorrente nei
lavori di Flaiano e fenomeno considerato da una pubblicazione della
Presidenza del Consiglio una vera piaga del tempo: nonostante fossero
sopravvissuti alle privazioni, ai bombardamenti, ai rastrellamenti e
alle rappresaglie, non pochi italiani avevano posto fine alle loro
esistenze in maniera tragicamente volontaria, registrando in quel
periodo duemila-tremila suicidi l’anno (Villari).
Nell’accompagnamento forzato della giovane al paese
d’origine, i due incontrano una serie di individui meschini e
farisei, che il cinema duplicava dalla realtà stessa di
quegli anni, dei quali oggi in verità abbiamo scarsa
conoscenza. E dello stesso film, dall’integrità
ormai compromessa, conosciamo effettivamente poco. Oltre ai tagli alle
scene che determinarono una notevole diminuzione della durata, ci fu
quello dello stesso titolo, che infatti originariamente era Totò,
Carolina e la Bandiera rossa, ma sfidare apertamente la
censura su questo piano era quanto meno assai azzardato. Vanno inoltre
ricordati anche i cambiamenti imposti al lavoro montato,
poiché anche qui, come per Totò e i re
di Roma, il sonoro fu manomesso e un “Abbasso i
padroni!” divenne un “Viva
l’amore!”, “mentre a un gruppo di operai
che cantano Bandiera Rossa viene imposta la soluzione della variante
patriottica Di qua e di là del Piave”
(Brunetta, 2001, p. 91). A descrivere una situazione storica
caratterizzata da forti limitazioni delle libertà
costituzionali, incluse quelle d’espressione, è
tuttavia nel film un altro indizio, un’eloquente scritta
posta a seguito dei titoli di testa che recita: “Il
personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene
al mondo della pura fantasia. Il fatto stesso che la vicenda sia
vissuta da Totò, trasporta il tutto in un mondo e su un
piano particolare. Gli eventuali riflessi nella realtà non
hanno riferimenti precisi, e sono sempre riscattati da quel clima
dell'irreale che non intacca minimamente la riconoscenza e il rispetto
che ogni cittadino deve alle forze di Polizia”. Tanta
precauzione era espressione di un amara constatazione: la repubblica
che nasceva dalla tragedia della guerra e della dittatura non era
avulsa da un preoccupante clima repressivo, nel quale si distinse una
delle figure più discusse del centrismo degasperiano, il
ministro dell’Interno Mario Scelba. Nome legato, ironia del
destino, alla legge numero 645 del 20 giugno del 1952, al cui articolo
4 è sancito come reato l’apologia del fascismo, fu
ricordato per il famigerato impiego dei reparti mobili della Polizia di
Stato, la “Celere”, per la gestione
dell’ordine pubblico. In dieci anni saranno 110 i lavoratori
e 11 gli agenti ammazzati durante le dimostrazioni e due gli episodi
più drammatici, il 30 ottobre del 1949 a Melissa, nella
provincia crotonese, e il 9 gennaio dell’anno successivo a
Modena (“Ordine pubblico: la clava di Scelba”,
1982).
Non peccheremmo troppo d’imprecisione,
qualora collocassimo film come Totò e i re di Roma
e Totò e Carolina in quel
luogo di transito tra il neorealismo rosa, che, sul piano dei contenuti
non poteva, né sicuramente voleva, avere la pretesa, come
Rossellini, De Sica e Zavattini, di dare della realtà
italiana uno sguardo in profondità degli aspetti meno
appetibili, e la commedia all’italiana, in cui molte
personalità operarono all’insegna dello sferzante castigat
ridendo mores. Le battaglie che hanno accompagnato queste
opere però rendono ai nostri occhi verosimile quel clima
ferocemente polemico che accompagnò la realizzazione e la
proiezione de La grande guerra, critiche veementi
da parte di molti esponenti della classe dirigente alla quale si
aggiunsero per la verità quelle di alcuni intellettuali di
quegli anni, dalle serie preoccupazioni di Giuseppe Marotta alle
più vibranti parole di Carlo Emilio Gadda, testimone diretto
del conflitto (Porro, 2008; Ferzetti, 2009). Dalla premiazione del 1960
seguiranno altri capolavori che porteranno Monicelli ad attraversare
molti generi e a dirigere i migliori interpreti, un lavoro che sempre
la Mostra premierà nel 1991 con il Leone d’oro
alla carriera, suggello di un’avventura che proprio sulle
sponde del lido veneziano aveva raccolto i primi consensi: nel 1935
aveva vinto il primo premio a una mostra per i film a passo ridotto con
I ragazzi della via Paal, realizzato con il cugino
Alberto Mondadori, quando non era ancora ventenne.
LETTURE
× Brunetta G. P., Storia del cinema italiano. Dal Neorealismo al miracolo economico 1945-1959. Vol. 3, Roma, Editori Riuniti, 2001.
× Casiraghi U., “L’Unità” Supplemento al numero 99 del 24/4/1995.
× Di Giammatteo F., Storia del cinema, Venezia, Marsilio, 1998.
× Ferzetti F., La grande Guerra contro la retorica, “Il Messaggero”, 30 luglio 2009.
× Porro M., Quel film diventò una grande guerra contro la retorica, “Corriere della Sera”, 26 febbraio 2008.
× Villaggio P., Fantozzi, Milano, BUR, 2001.
× Villari L., Dopoguerra: con lo spettro della fame, in AA. VV., Storia di una repubblica. Enciclopedia politica dell'Italia dal 1946 al 1980, L’Espresso, 1982.
× “Ordine pubblico: clava di Scelba”, in AA. VV., Storia di una repubblica. Enciclopedia politica dell'Italia dal 1946 al 1980, L’Espresso, 1982.
VISIONI
× Lattuada A., Il cappotto, Italia, 1952, Minerva Video, 2006.
× Lattuada A., La spiaggia, Italia-Francia, 1954.
× Monicelli M., Mondadori A., Cuore Rivelatore, Italia, 1934.
× Monicelli M., Mondadori A., I ragazzi della via Paal, Italia, 1935.
× Monicelli M., Steno, Totò cerca casa, Italia, 1949, Cecchi Gori Home Video, 2008.
× Monicelli M., Steno, Totò e i re di Roma, Italia, 1951, Cecchi Gori Home Video, 2009.
× Monicelli M., Steno, Guardie e Ladri, Italia, 1951, FilmAuro, 2008.
× Monicelli M., Totò e Carolina, Italia, 1955, FilmAuro, 2008.
× Monicelli M., I soliti ignoti, Italia, 1958, Dolmen Home Video, 2008.
× Monicelli M., La grande guerra, Italia-Francia, 1959, FilmAuro, 2008.
× Petri E., Il maestro di Vigevano, Italia, 1963, FilmAuro, 2008.
× Rossellini R., Il generale Della Rovere, Italia, 1959, Minerva Video, 2010.
× Salce L., Fantozzi, Italia, 1975, Medusa Home Entertainment, 2004.