Amici Miei, 1975
PER QUELLO CHE VALE,
OGNI SUICIDIO HA LA SUA STORIA
di Livio Santoro
Don Bastiano morì dal pulpito e dal patibolo allo
stesso tempo, con l’amarezza del silenzio di chi invece era
accorso per ingiuriarlo. Con l’amarezza di coloro a cui il
parroco brigante, costretto accanto alla ghigliottina che gli avrebbe
dato la morte, disse: “E voi, masse di pecoroni
invigliacchiti, sempre pronti a inginocchiarvi e a chinare la testa
davanti ai potenti. Adesso inginocchiatevi, e chinate la testa davanti
a uno che la testa non l’ha chinata mai, se non davanti a
questo strummolo qua. […] E ricordatevi che pure
nostro signore Gesù Cristo è morto da infame, sul
patibolo che è poi diventato il simbolo della redenzione.
Inginocchiatevi, tutti quanti, e segnatevi. E adesso pure io posso
perdonare a chi mi ha fatto male. In primis al
papa, che si crede il padrone del cielo; in secundis
a Napulion’ che si crede il padrone della terra; e per ultimo
al boia, qua, che si crede il padrone della morte. Ma soprattutto,
posso perdonare a voi, figli miei, che non siete padroni di un
cazzo!”. Lo stesso Don Bastiano che subito dopo queste parole
suggerisce al boia “te lo do io il segnale, eh!”
(Monicelli, 1981). Alzando la mano affinché gli sia data,
secondo legge, la morte. Don Bastiano muore di una morte consapevole,
oramai padrone di se stesso nonostante la condanna, rifiutando i
sacramenti e legandosi definitivamente alla sua intima morale, giusta o
sbagliata che sia, non sta a noi deciderlo (e a dirla proprio tutta non
sta a nessuno deciderlo).
Dall’altra parte della
macchina da presa, seduto sulla sedia di legno chiaro e tela bianca,
stava Mario Monicelli, anno Millenovecentottantuno. Ventinove anni
più tardi, lanciandosi dalla finestra
dell’ospedale in cui si prolungava la sua agonia, Mario
Monicelli ha preso il volo fidando sulla consapevolezza di non avere
nemmeno uno straccio di ali (proprio perché noi uomini non
siamo né angeli né diavoli, nonostante Pico della
Mirandola), offrendo al mondo un commiato immediato e poco doloroso,
consapevole, determinato, padrone di sé, leggero.
Non ci sarà mai dato sapere se un suicida, nell’istante in cui abbandona questo mondo, lo fa col sorriso o meno, questo è chiaro. Perché tra l’altro è pur vero che esiste suicidio ed esiste suicidio, e questo è fuor di dubbio – e sia detto senza bisogno di scomodare Émile Durkheim (2007). Se allora non ci sarà mai dato conoscere l’espressione interiore di un suicida che raggiunge il suo scopo definitivo, ci sarà forse dato immaginarlo, e anche argomentarlo (per quanto questa pratica possa avere utilità). Quello di Monicelli, dunque, non è certamente il suicidio di Primo Levi, e non è certamente nemmeno quello di Yukio Mishima. Se proprio dobbiamo dirlo. Quello di Monicelli, azzardando una stupida ipotesi che lascia il tempo che trova, ha il sapore di un definitivo ritiro fatto di tranquillità e fermezza. Perché se non si può decidere di nascere, ovvietà esistenziale che ci hanno insegnato, tra gli altri, la fenomenologia e lo storicismo critico, si può invece decidere di morire. La fenomenologia, con le sue grandi narrazioni un poco trascendentali e un poco soggettiviste, ci ha provato ad insegnare che esiste la gettatezza, ovvero la condizione iniziale dell’essere umano che si trova spaesato all’interno di un mondo senza aver deciso di farlo (Heidegger, 1971). Lo storicismo critico, dal canto suo, ci ha insegnato che l’uomo, come ente che non ha deciso di volersi, non ha alcun fondamento, o meglio è fondato sull’assenza di un singolare fondamento. Ma proprio in quanto tale, egli può fondarsi volta per volta, continuativamente, attraverso l’atto della valorazione, ovvero dell’attribuzione di valore (Piovani, 1972). L’uomo, sostiene infine Piovani, è chiaramente un ente non volutosi.
Se è vero che noi siamo esseri umani, allora,
è anche vero che nulla possiamo farci sulla nostra nascita
di singoli soggetti. E questo sembra incontrovertibilmente una
certezza. Tuttavia, qualcosa può essere fatto per quello che
riguarda l’altro estremo della nostra biografia: la morte
consapevole, allora, non diventa altro che l’accettazione
della vita intera. La morte appare, in tal modo, come la bandiera
più alta del vitalismo. E questo è un fatto che,
tra gli altri, a noi occidentali mai definitivamente secolarizzati,
post-materialisti e drammaticamente invigliacchiti come i pecoroni di
Bastiano, ci ha insegnato Friedrich Nietzsche (si veda Jaspers, 1996,
pp. 296), per il quale l’accettazione della morte consapevole
viene solo dopo l’affermazione del definitivo sì
alla vita. Ecco, noi umani ci si può dare la morte, Dio o
non Dio. In ogni caso. Il “poi” è storia
da romanzi o da grosse narrazioni metafisiche (che poi altro non sono
che romanzi, quelle pure). Non si può nascere, ecco, ma si
può morire di propria mano. Che si diventi alberi parlanti
incancreniti tra i gironi dell’inferno o che si diventi
solamente materia che con il tempo si disgrega: d’altronde
non è forse vero che ancora oggi, una volta morti,
diventiamo caro data vermibus, nel linguaggio e
nelle parole oltre che nella sostanza?
Dunque, per tornare
sulla strada poco sopra imboccata, si diceva che
c’è suicidio e suicidio. La secchezza di una lista
ne può rendere le differenze, perciò eccone
alcuni esempi presi a caso da una qualsiasi memoria (quella di chi
scrive, nella fattispecie):
Primo Levi si lanciò
dalla tromba delle scale probabilmente perché le cose
vissute nel passato avevano oramai prosciugato ogni suo umore.
Yukio
Mishima rese pubblici i suoi visceri per l’abnegazione nei
confronti della divina stirpe imperiale e di quel vecchio Giappone che
oramai non era più, l’abnegazione di uno di quegli
spiriti eroici di cui aveva già
raccontato (2006), la stessa abnegazione che il samurai concedeva
naturalmente al suo Daimio, come stava scritto
anche nell’Agakure (Yamamoto, 2001); e
proprio come stava scritto nell’Agakure,
Mishima fece seppuku.
Vic Chesnutt,
ingordo di quella quiete che il suo dolore non gli concedeva,
morì perché nel frattempo si era innamorato del demerol,
perché ci si innamora di chi o di cosa ci rende sollievo, e
questo amore Vic Chesnutt l’aveva già cantato
(Chesnutt, 1993).
Seneca, invece, lo stoico Seneca, si uccise
perché, in un modo o nell’altro, per una vita
intera, aveva predicato, argomentato e giustificato la pratica
gratificante del commiato consapevole; o semplicemente
perché ce l’aveva scritto nel nome.
Cesare
Pavese prese congedo da queste sponde perché non voleva
più saperne niente, e perché non se ne parlasse
più.
Nick Drake disse addio al mondo per lasciarci
un palcoscenico della morte scenografato perfettamente, e
perché aveva già sostenuto quanto la vita gli
fosse aliena; infatti cantava così Drake:
Life is but a memory
Happened long ago
Theatre full of sadness
For a long forgotten show
per concludere, poi, in quest’altro modo:
They’ll all know
That you were here when you’re gone
(Drake, 1969)
cosa che, in effetti, avvenne.
Ma tutte le storielle
di questo breve inventario, tutti questi epiloghi se volgiamo anche un
po’ melensi (il lettore saprà perdonare), sono
solo piccole definizioni congetturali di un evento che, alla fin fine
(formula parodica che si direbbe estremamente adeguata, a questo
punto), resta di totale appannaggio di chi lo decide. Come sono
congetturali queste storielle è congetturale anche la
prossima, e ce ne scusiamo ancora.
Eccola: da parte sua Mario
Monicelli, novantacinque anni e un vecchio corpo metastatizzato,
avrà forse pensato che sarebbe stato meglio decidere di se
stessi piuttosto che fare quella fine umiliante sotto le lenzuola di un
letto d’ospedale, quando il corpo comincia a imputridire,
puzzare e putrefarsi già molto prima di esalare
l’ultimo respiro – si provi a confrontare questa
storia con gli ultimi giorni di mamma Beauvoir per avere idea di quanto
si sta dicendo (de Beauvoir, 1966). Monicelli, probabilmente,
avrà pensato che, come Don Bastiano, c’era da dare
un ultimo insegnamento, un’ultima indicazione sarebbe meglio
dire, sulla vita e sulla morte. Tutto qui. Cose normalissime in fin dei
conti, non sarebbe stato né il primo né
l’unico ad averlo fatto, certamente uno dei più
garbati.
D’altronde ce lo aveva già
detto, Monicelli, che la morte può essere una cosa come
un’altra, normale, e che può essere presa nella
sua immanenza, nella sua diretta connessione con la vita, come atto
ultimo di una biografia che s’è vissuta in un
certo modo, con la stessa decisione. Si prenda la supercazzola
del Perozzi alla fine del primo atto di quella trilogia, Amici
Miei (Monicelli, 1975), che tra le altre cose ci riesce anche
a dimostrare il fatto che la morte, come
l’anzianità, la malattia e il deperimento possano
essere visti in maniera differente. Perché se Monicelli
faceva confessare a Philippe Noiret: “sbidicuda veniale con
la supercazzola prematurata, […] come fosse antani con
scappellamento a destra”, all’attonito prelato
giunto per ungere l’infermo, Nanni Loy, dieci anni
più tardi, nel terzo sbiadito atto della saga (1985) si
lasciava andare a una serie di bigottismi di maniera, tra improbabili
ospizi allegri e colorati e strane pompette d’inchiostro su
quattro ruote.
Che si muoia come si è vissuti,
sembra aver voluto dire Monicelli, perché se è
vero che la vita è sacra, e che di vita ce
n’è una sola, non è forse possibile
dire la stessa cosa della morte?
LETTURE
× De Beauvoir S., 1964, Une mort très douce, trad. it. Una morte dolcissima, Einaudi, Torino, 1966.
× Durkheim É., 1897, Le Suicide, étude de sociologie, trad. it. Il suicidio. Studio di sociologia, Rizzoli, Milano, 2007.
× Heidegger M., 1927, Sein und Zeit, trad. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1971.
× Jaspers K., 1974, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierenes, trad. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano, 1996.
× Mishima Y., 1966, Eirei no koe, trad. it. La voce degli spiriti eroici, SE, Milano, 2006.
× Piovani P., Principi di una filosofia della morale, Morano, Napoli, 1972.
× Yamamoto T., 1906, Hagakure, trad. it. Hagakure. Il codice segreto dei samurai, Einaudi, Torino, 2001.
ASCOLTI
× Chesnutt V., Drunk, 1993, Texas Hotel, ristampa New West Records, 2004, distribuzione Ird.
× Drake N., Five Leaves Left, 1969, Island Records, ristampa Island Records, 2000, distribuzione Universal Music.
VISIONI
× Loy N., Amici Miei Atto III, Italia, 1985, FilmAuro, 2008.
× Monicelli M., Il Marchese del Grillo, Italia/Francia 1981, Cecchi Gori Home Video, 2010.
× Monicelli M., Amici Miei, Italia, 1975, FilmAuro, 2008.