L’armata Brancaleone, 1966
LA DISFIDA
D'ITALIETTA
di Adolfo Fattori
Quando nel 1966 L’armata Brancaleone uscì
nelle sale cinematografiche – trasformandosi rapidamente in
uno dei monumenti del grande cinema italiano – tutti coloro
che vi lavorarono probabilmente sperarono che diventasse un grande
successo, cosa puntualmente avvenuta, ma nessuno forse pensò
che il titolo del film sarebbe entrato nel lessico quotidiano
– almeno italiano – conquistando alla pellicola una
posizione di tutto rispetto nell’immaginario collettivo.
La
trama è in fondo semplice, seppur raccontarla per intero
può servire solo ad ingarbugliare le idee a chi, per sua
sfortuna od omissione, non l’abbia visto. Ne ricordiamo
alcuni tratti:
Brancaleone, cavaliere straccione e
senza terra, vuole raggiungere un feudo, Aurocastro, che secondo una
presunta “antica” pergamena imperiale sarebbe suo.
Verso la fine del suo viaggio, costellato più che di
avventure di fregature, equivoci, inganni, incontra un monaco, Zenone
(una trasparente controfigura di Pietro l’Eremita,
l’ispiratore della prima crociata) che, confortato forse dal
fatto che l’Apocalisse attesa per l’anno Mille non
era arrivata, predica la riconquista della culla del Cristo e arruola
chiunque voglia unirsi a lui. Folgorato quindi sulla via di Aurocastro,
Brancaleone si accoda alla gente di Zenone.
Lo svolgersi del
film quindi è una sequela di “avventure”
in cui Monicelli mette in scena un’Italia stracciona, furba,
intrappolata nelle sue stesse cialtronate, disgraziata – in
cui però alla fine, nel mondo fra l’incantato e il
grottesco che imbastisce, i “buoni” (gli ingenui,
gli innocenti, gli illusi) finiscono per prevalere – nel
senso di sopravvivere, naturalmente, e partire all’avventura
verso l’Oriente…
Brancaleone –
nome tirato fuori direttamente da uno dei pochi eventi in cui i
progenitori degli italiani di oggi si narra siano riusciti a mostrare i
muscoli: la “Disfida di Barletta”, che generazioni
di scolari hanno dovuto studiare (imparando magari a memoria i nomi dei
tredici cavalieri italiani che si misurarono a tenzone con altrettanti
francesi) – è un cavaliere: uno di quei personaggi
che nelle saghe medioevali e nei poemi cortesi, investiti per diritto
divino, si battevano contro le iniquità e le ingiustizie,
salvavano la virtù insidiata delle donzelle, combattevano
contro Mori e barbari per la cristianità. E Brancaleone
è un guerriero che, seppur sprovveduto e pasticcione,
è comunque coraggioso, fido, leale.
Perché
in realtà la prima crociata fu davvero una spedizione di
miserabili – “una vera armata
brancaleone” diremmo oggi, composta di chiunque volesse
aggregarsi al carro della fede – che
rubò, stuprò, massacrò, fino a
compiere atti di cannibalismo [Maalouf, 1983]) sotto la guida di un
monaco invasato – dimostrando peraltro un’estrema
volontà egualitaria: conquistata la
“Città Santa” al grido di “Dio
lo vuole!” i “guerrieri della fede”
spoliarono e macellarono indiscriminatamente ebrei, musulmani
e… cristiani, attività in cui avevano alacremente
già fatto pratica lungo la strada, man mano che
attraversavano i Balcani accolti pacificamente dai locali.
Ecco,
il film di Monicelli evoca e pone le premesse per ristabilire almeno una
verità: i primi crociati furono dei pezzenti scalcinati e
miserabili, con scarse idee e mete poco chiare, come Brancaleone, uno
straordinario Vittorio Gassman, e i suoi accoliti, plotone improbabile
e disorientato di poveracci – che però, almeno nel
film, sono uniti dall’amicizia, dalla solidarietà
e dal senso dell’onore feudale, convinti di partire
– alla fine – per la Terra
“Santa” in nome di ideali superiori. Ingenui
infatuati dei “valori”, predestinati a finire al
seguito di avventurieri, esaltati, macellai.
Brancaleone
è, insomma, un “antieroe”,
l’opposto di un Conan il barbaro (il
film di Milius con Arnold Schwarzenegger è del 1982, ma i
romanzi di Howard cui è ispirato sono degli anni Trenta):
laddove Conan è introverso, combattuto, oberato da un
immenso dolore originario (come tanti altri Eroi) – e
terribilmente letale – Brancaleone è arruffone,
maldestro, ignorante, in fondo ottimista – o incosciente
– magnanimo…
Una specie di Don Chisciotte
prima del tempo, anche lui come il nostro antieroe imbevuto di principi
evanescenti e sostenuto da un coraggio inossidabile. Come Brancaleone,
abitante solitario di un mondo immaginario, anche se sicuramente meno
cialtronesco.
O, ancora – lo ammettiamo,
con un esercizio di equilibrismo transtemporale piuttosto audace
– potrebbe far pensare a uno dei seguaci di Forrest Gump
(Zemeckis, 1994) nella lunga corsa senza meta – o meglio con
una traguardo puramente metafisico, indefinito – attraverso
l’America, iniziata da Forrest da solo, e conclusa con un
lunghissimo codazzo di proseliti. Ognuno convinto di condividere lo
scopo della corsa con Forrest, solo che il giovane non ne ha nessuno, e
ognuno di loro ha il suo.
Ecco, se la “crociata dei
pezzenti” si svolse nel segno della Croce e la corsa di
Forrest, un vero viaggio interiore, si svolge per coloro che vi si
aggregano in quello dell’infinita pluralità di
declinazioni del relativismo new age degli anni della tarda
modernità, un tratto comune è riconoscibile: il
legame con un mondo “incantato”. Originale e
coerente il primo, rimediato e frammentario il secondo. E questo a
prescindere dalle intenzioni dei due “condottieri”,
l’Eremita e Forrest.
Col senno di poi – e
con lo sguardo che solo la distanza storica ci concede – oggi
possiamo apprezzare quanto L’armata Brancaleone sia
tuttora il contenitore di un precipitato di immaginario che va dal
picaresco al cavalleresco allo sword & sorcery al postmoderno,
raccogliendo dal passato e rilanciando verso il futuro –
fermando il tempo, in qualche modo, e mostrandoci parte delle radici
dell’oggi che viviamo.
Alla fine, però,
dobbiamo ribadire il decisivo slittamento di significato
subìto dal titolo del film, che non gli rende giustizia: con
“armata brancaleone” si intende oggi più
che altro una sorta di “corte dei miracoli”
sbracata e trafficona, maneggiona ma incapace, se non nella cura dei
propri interessi rigorosamente privati e in conflitto con quelli
pubblici. E non è un caso che il termine serva a indicare
gruppi organizzati o meno che hanno a che fare con la politica,
l’economia – a volte anche con la cultura,
istituzionali. Il che significa che Mario Monicelli e Age e Scarpelli
– e il cinema – sono riusciti ad andare al di
là di quelle che forse erano le loro intenzioni e produrre
un’opera che ha sfondato i confini poetico/temporali della
commedia all’italiana travestita da parodia picaresca ed
è entrata in quel luogo al di fuori del tempo e dello spazio
che ospita i capolavori, quelli destinati ad andare oltre la propria
epoca e il contesto che li ha prodotti, e a dire qualcosa in generale
sul mondo, sugli uomini, sulle passioni, sulle grandezze e sulle
bassezze della condizione umana.
I prodi di
Brancaleone erano sì degli sbandati, ma non erano i
manigoldi – poco più che pavidi ladri di polli,
una volta che ne viene svelata la vera natura – che
“armata brancaleone” serve oggi a definire. In
fondo, erano il prodotto di un’Italia ancora se si vuole
ingenua, in cui al trasformismo che ci attribuiamo da sempre si
opponeva ancora la dimensione etica delle grandi narrazioni della
modernità. Quasi da rimpiangere, osservando Cetto La
Qualunque, il politico frutto del genio di Antonio Albanese
(Manfredonia, 2011), lucido ritratto degli attuali faccendieri,
magliari, per citare un classico del cinema impegnato italiano,
l’omonima pellicola di Dino Risi, nuovi magliari, bande di
faccendieri e trafficoni che imperversano nel “Bel (?)
paese”, ma questa è un’altra storia.
LETTURE
× Maalouf A., Les croisades vues par les Arabes, 1983, trad. it. Le crociate viste dagli Arabi, SEI, 1983.
VISIONI
× Manfredonia G., Qualunquemente, Italia, 2011.
× Milius J., Conan the Barbarian, Usa, 1982, Conan il barbaro, 20th Century Fox, 2002.
× Zemeckis R., Forrest Gump, Usa, 1994, Paramount, 2004.