La grande guerra, 1959
DULCE ET DECORUM
EST PRO PATRIA MORI?
di Luca Bifulco
In un libro giustamente famoso, Paul Fussell, celebre storico
della cultura, così si esprime: “Ogni guerra
è ironica, perché ogni guerra è
peggiore di quel che ci si aspettasse. Ogni guerra costituisce una
situazione ironica perché i suoi strumenti sono
melodrammaticamente sproporzionati ai suoi presunti scopi. Nella Grande
Guerra, otto milioni di uomini morirono perché due persone,
l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie, erano stati
uccisi.” (Fussell, 1984, p. 12). E, un po’
più avanti, in maniera ancora più acuta e forse
meno iperbolica: “Ma la Grande Guerra fu la più
ironica di qualsiasi guerra precedente o successiva.
Costituì un orribile imbarazzo per il diffuso mito
migliorista che aveva dominato la coscienza pubblica per un secolo:
capovolse l’idea di Progresso” (ibidem).
Un
evento così drammatico, per il carnaio di morti e il
prolungato sterminio tecnologico inimmaginabile fino ad allora, pur
nella difficoltà dell’elaborazione di un lutto
difficilmente rappresentabile, non mancò di generare un
apparato di prodotti culturali e del ricordo (dalla narrativa ai
memoriali) che cercarono almeno di fornire un qualche significato
consolatorio al trauma, al senso di blocco implacabile che una simile
catastrofe aveva diffuso (cfr. Winter, 1995). Il cinema italiano, per
molto tempo dalla fine del primo conflitto mondiale in poi, non ha
certo rappresentato il più fertile e nutrito serbatoio di
storie e racconti capaci di penetrare, sotto il profilo simbolico ed
emotivo, nelle viscere inquietanti di questo momento gravoso della
storia.
Parte di questa lacuna viene colmata da
Mario Monicelli, che nel 1959 gira La Grande Guerra.
A
quest’opera cinematografica va sicuramente ascritto un merito
davvero singolare: l’incrocio degli stilemi narrativi della
commedia all’italiana con la grave rappresentazione delle
atrocità belliche. L’operazione risulta molto
efficace. La commedia all’italiana – è
risaputo – usa le armi della satira per descrivere ed
indagare la realtà, sviscerandone paradossi, mettendo a nudo
le contraddizioni e le caratteristiche meno edificanti di un mondo che
spesso si nasconde dietro la coltre di un aspetto
all’apparenza integro ed irreprensibile. D’altra
parte, l’ironia – ed il corredo spesso amaro che
l’accompagna – è l’artificio
retorico che svela l’incongruo della realtà
ordinaria (Berger, 1999), ne smonta la formale
inappuntabilità, scardinando, tra l’altro, quei
discorsi pubblici che sorreggono sempre poteri e ingiustizie.
Insomma,
l’operazione di Monicelli, pur tutto sommato rispettosa del
dolore delle vittime di quel macello bellico, ci mostra e ci ridona
quell’ironia originaria della Grande Guerra che Fussell ci ha
ricordato. Si tratta di una sorta di svelamento indiretto,
perché ci restituisce intatto l’imbarazzo del
crollo degli ideali del progresso, dei miti dello slancio vitale della
comunità nazionale e dell’eroismo entusiasta ed
impavido di fronte all’orrore. Ma davvero “dulce et
decorum est pro patria mori”? Davvero l’esperienza
quotidiana della Grande Guerra è stata quella di eroi che
muoiono sorridenti in un conflitto patriottico?
Il film di
Monicelli non avalla di certo questo mito che si nutre di ampollose
quanto sospette retoriche. E costruisce il suo impianto demolitorio con
l’accentuazione tipica del paradosso, costruendo due
protagonisti dai tratti forse sproporzionati ma, per questo, in qualche
misura esemplari delle aporie che l’opera vuole
smascherare.
La trama è piuttosto nota.
Due soldati, il romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e il lombardo
Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) sono costretti, loro malgrado, a
partecipare al conflitto. La loro storia lungo il film è
quella di un tentativo costante di evitare gli sforzi più
onerosi e le situazioni più pericolose, pur –
ovviamente – non riuscendo del tutto a sottrarsi ai disagi
della guerra. Oreste è un vigliacco conclamato, che non fa
nulla per nascondere la sua indole anche un po’ truffaldina,
mentre Giovanni cerca – in modo per nulla convincente, a dir
la verità – di giustificarsi dietro
improbabili letture bakuniane, che legittimerebbero un comportamento
libertario e poco incline agli obblighi imposti dallo stato o da
chicchessia. Tanto meno incline a morire per interessi altrui, dal
momento che “nessuno ha il diritto di mandare a morire
qualcuno”!
La sostanza cambia poco. La furbizia di
entrambi – più o meno efficace – viene
messa al servizio di un goffo individualismo e di una possente
pigrizia. Questa sorta di codardia si affianca alla piaggeria, alla
ruffianeria, alla deferenza e alla sottomissione di facciata con cui i
due cercano sovente di ingraziarsi i superiori, sebbene poi emerga una
strutturale irriverenza nei confronti dell’Arma e dei suoi
ufficiali. Insomma, tutto abbiamo di fronte tranne l’amor
patrio e lo sprezzo del pericolo che avvolgono la retorica militare.
Eppure, l’egoismo dei lavativi, la loro mediocre astuzia
è a volte calmierata da atti di inaspettata
umanità o pietà: come quando i due donano
all’ignara vedova di un commilitone i proventi di una
colletta fraudolenta a favore dei feriti di guerra, o come quando
esitano a sparare ad un soldato austriaco isolato, sebbene questi
verrà poi comunque ammazzato da un loro compagno
d’armi.
Anche Oreste e Giovanni troveranno
però la morte. Nell’imminenza della strenua e
vittoriosa difesa del Piave verranno scovati da un drappello austriaco
in un pagliaio. Si erano recati in paese per dare informazioni cruciali
alla batteria lì ubicata, e si erano attardati nel fienile
per sfuggire ai bombardamenti che imperversavano sul loro battaglione
in collina. Verranno fucilati, perché, in un momento di
orgoglio più personale che semplicemente patriottico, si
rifiuteranno di indicare la postazione del ponte di barche allestito
dall’esercito italiano. È così che essi
intendono opporsi all’accusa di vigliaccheria loro mossa
dagli ufficiali austriaci. Ironia della sorte, il loro prode atto
rimarrà sconosciuto, e i due saranno comunque considerati
degli imboscati, nel pieno rispetto della fama che ormai avevano
maturato. Un contrappunto sarcastico e significativo.
Ora,
abbiamo detto che i due protagonisti sono personaggi un po’
esagerati, tipizzati (quasi l’idealtipo
dell’italiano medio del Novecento alle prese con
l’esperienza estrema per antonomasia, ovvero la guerra). Ma
questo consente, come accennavamo, di rivelare le contraddizioni della
realtà bellica e le ipocrisie che tentano di nasconderle non
senza impaccio. Perché, come testimonia
l’esperienza di Oreste e Giovanni, la meschina furbizia e la
vigliaccheria sono estremi espedienti che mettono a nudo e scarnificano
il cuore effettivo della struttura del primo conflitto mondiale: non
gesta eroiche, ma disperato tentativo di sopravvivere, che vive
dell’alternanza di istinti egoistici e solidarietà
di gruppo; non ardimentose imprese, ma fatica insensata quando non ozio
spossante e snervante; non tanto spirito della patria, ma misera fuga
dalla morte, individualizzata in quanto priva di significati collettivi
forti e accoglienti.
È questa la
quotidianità della Grande Guerra, che l’ironia di
Monicelli stana nel modo più implacabile possibile, grazie
alla potenza dei suoi personaggi iperbolici. L’onore, la
gloria, i valori sono artifici retorici incompatibili con il soldato
massa, il soldato senza qualità (Gibelli, 2003, p. 91),
semplice e anonimo ingranaggio di un meccanismo di morte
industrializzata, vita ipotetica ed avvilita, da plasmare in
virtù di piani bellici all’insegna della
distruttiva razionalità tecnologica. La trincea è
fango, privazione continua, putridume, sospensione del tempo, come ben
testimoniato da molteplici resoconti letterari o documentari (si veda,
solo ad esempio, Remarque, 1989). E la morte è una morte di
massa, altrettanto anonima, certo non incline
all’individualità straordinaria
dell’eroe.
L’ideale del progresso si
frattura nella guerra, perché l’evoluzione tecnica
non è altro che annientamento e devastazione, non
miglioramento cumulativo ed ininterrotto delle qualità e
delle possibilità umane. La cesura della storia si fa allora
drammatica, così come la dissoluzione di una generazione che
non ha più un passato ed a cui è tolto il futuro.
La continuità temporale, elemento essenziale per alimentare
identità sicure e solide, si frammenta inesorabilmente.
L’individuo non si fonde per niente con la grande storia,
attraverso la mediazione della patria, ma ne viene addirittura
estromesso (Bifulco, 2007, pp. 115 e sgg.). Non si partecipa ad un
superbo destino unanime, non si è parte della
totalità sovraindividuale che vivifica le persone
all’interno di una comunità accogliente,
capace di rinvigorire i valori più autentici (Simmel 2003).
E ciò proprio perché i soldati vivono una
costrizione pervasiva, sentono costantemente mortificata qualsiasi
ipotesi di vitalità (Leed, 1985).
Insomma, Oreste e
Giovanni sono inconsapevoli portavoce di una grande quanto netta
disillusione, che rifiuta la parole enfatiche con cui le
élite hanno imposto di elaborare e legittimare la
carneficina che coglie soprattutto il soldato operaio. Il giudizio
graffiante sulla realtà di guerra che ha per tramite la loro
personalità e la loro storia, alla fin fine, non fa che
riverberare una disposizione d’animo tipica delle trincee
della Grande Guerra: vale a dire un umorismo nero, un cinismo ed
un’autoironia con cui i soldati pongono una protezione
psicologica e salvifica di fronte all’atrocità
quotidiana (Fussell, cit.). Come scrisse Philip Gibbs
all’indomani del conflitto: “Era… il
riso dei mortali di fronte al tiro giocato loro da un destino ironico.
Erano stati allevati a credere che il massimo obiettivo della vita
fosse quello di raggiungere la bellezza e l’amore, e che il
genere umano, procedendo verso la perfezione, avesse annientato gli
istinti bestiali, la crudeltà, la sete di sangue, la
primitiva e selvaggia legge della sopravvivenza dominata dalle zanne e
dalla clava, dal randello e dall’ascia. La poesia,
l’arte, la religione, tutte avevano predicato questo vangelo
e questa promessa.
Ed ora questo ideale era infranto, come un
vaso di porcellana precipitato a terra. Il contrasto tra Quello e
Questo era sconvolgente… E così
l’umorismo proprio del tempo di guerra sghignazzava deliziato
alla vista di tutta quella dignità ed eleganza
smascherate” (citato in Fussell, cit., p. 13).
LETTURE
× Berger P., Redeeming Laughter. The Comic Dimension of Human Experience, 1997, trad it. Homo ridens. La dimensione comica dell'esperienza umana, il Mulino, Bologna, 1999.
× Bifulco L., I tempi della modernità. Dalla linearità alla frantumazione nelle rappresentazioni sociali e nell’immaginario cinematografico, Ipermedium libri, S. Maria C. V., 2007.
× Fussell P., The Great War and Modern Memory, 1975, trad. it. La Grande Guerra e la memoria moderna, il Mulino, Bologna, 1984.
× Gibelli A., L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
× Leed E. J., No Man’s Land. Combat & Identity in World War I, 1979, trad. it. Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima Guerra mondiale, il Mulino, Bologna, 1985.
× Remarque E. M., Im Westen nichts Neues, 1929, trad. it. Niente di nuovo sul fronte occidentale, Mondadori, Milano,1989.
× Simmel G., Der Krieg und geistigen Entscheidungen, 2000, trad. it. Sulla Guerra, Armando Editore, Roma, 2003.
× Winter J., Sites of Memory, Sites of Mourning. The Great War in European Cultural History, Cambridge University Press, 1995.
VISIONI
× Monicelli M., La grande guerra, 1959, FilmAuro, 2008.