BLADE RUNNER, O L’EDIPO REPLICATO di Antonio Cavicchia Scalamonti |
Non è un caso che essi sono gli unici che non provano nessuna pietà per gli androidi. E l’impressione che suscitano è che essi non provano nessuna pietà per nessuno. Per quanto riguarda Eldon Tyrell, egli sembra laido e brutto come i suoi due scherani, una figura a metà strada tra il Rabbino Loew e lo scienziato moderno. Tra il mago, il cabbalista che gioca a rubare, colpevolizzandosi, l’onnipotenza divina, e lo scienziato moderno che, dietro l’apparente neutralità della sua scienza, finisce, con la sua razionalità fredda e strumentale, per sconvolgere il mondo. Insomma, sembra che anche gli umani abbiano gli stessi difetti che imputano agli androidi. Anche l’uomo, e questa è la paura che il film rappresenta, a dispetto della sua millenaria essenza, stava per confondersi con la macchina, nel senso che stava per disumanizzarsi, diventare cioè insensibile, incapace d’empatia, impossibilitato a condividere il dolore altrui, ed in procinto di perdere le sue più recenti conquiste, quelle su cui ha costruito la sua sensibilità e la sua identità moderna. E l’umanità tutta – in questa chiave interpretativa – non è che una massa in cui crescono e proliferano, come un virus inarrestabile, i replicanti, un insieme cioè in cui gli uomini autentici stanno scomparendo per essere sostituiti da semplici riproduzioni meccaniche. La trasformazione allora non è fisica, almeno non solo fisica, ma essenzialmente spirituale. Ma questa è solo una parte del film. E forse anche la più superficiale. Il discorso potrebbe anche essere, in un certo senso, rovesciato. Va detto infatti, che in questa proiezione collettiva vi è anche – e in modo evidente – un aspetto positivo e per di più venato dalla speranza. Sul replicante vengono proiettate non solo le nostre paure ed angosce di disumanizzazione (che ne richiedono e ne giustificano l’eliminazione), ma anche aspetti completamente opposti, fecondi, che, in qualche modo, ipotizzano un futuro (un nostro futuro di uomini) diverso e migliore. Nei loro confronti vi è un’ambiguità che è la stessa che nutriamo verso la tecnologia in particolare e verso il mondo moderno in generale. In poche parole, vi è tutta una parte del film che ci fa capire che gli uomini – nel senso pieno del termine, cioè gli “autenticamente umani” – non sono quelli che passano per tali, ma i replicanti stessi. D’altronde quali sono le loro caratteristiche e di che soffrono costoro? La loro esistenza è immersa in un vortice temporale spaventosamente accelerato. Non hanno una storia alle spalle e quindi non posseggono una vera e propria memoria. Per questo ne sono assolutamente ossessionati, ma non avendo criteri sufficienti per ricostruirla assorbono quella altrui. La loro visione temporale non possiede alcuna prospettiva: non solo gli manca il passato ma non riescono ad intravedere alcun futuro. Sanno che la morte è inevitabile perché inscritta nel codice genetico. Essi vivono in un mondo che ha oramai perso da tempo l’orientamento alla trascendenza, e che stenta ad adattarsi a questo destino mortale, e per questo vive letteralmente terrorizzato dalla morte; ciò li porta a chiedere disperatamente non un’altra vita, a cui non credono più, ma di allungare il più possibile la loro vita. Non posseggono una identità ben precisa e stabile nel tempo sia per la mancanza della memoria, sia per l’incapacità di fare ed assorbire l’esperienza che – come abbiamo visto altrove – gli sfugge da tutte le parti (Cavicchia Scalamonti, S.M. Capua Vetere, 1997). Sono privi di un Universo simbolico che, nell’integrare i loro valori e le loro conoscenze, dia un “senso” completo, alla loro esistenza. Ebbene, tutte queste caratteristiche che affliggono gli androidi sono quelle che affliggono l’uomo moderno o contemporaneo. Questi, oramai orfano di un insieme di perdute evidenze che non riescono a coinvolgerlo più, da tempo tenta di riorientare i suoi paradigmi conoscitivi e affettivi per ristabilire o riparare un ordine sociale che possa poi riflettersi su quello psicologico. | ||
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