La dimensione mediale del
cinema deve ideologicamente e storicamente
molto del suo successo al proprio statuto ontologico di impressione
fotosensibile del reale. Il discorso
sull’oggettività, sulla produzione
di verità e sulla realtà delle immagini
fotografiche prima, in
movimento poi, è estremamente delicato. Nel caso della
propaganda
americana degli anni Cinquanta, come avvicinarsi a prodotti dei quali,
a distanza di oltre cinquanta anni, è possibile riconoscere
un punto di
vista tutt’altro che onesto, sia scientificamente che
socialmente? È
possibile superare questo pregiudizio nascente dal giudizio di valore
che ci porta a considerare semplicemente falso quanto presente nei
filmati di propaganda? O in essi sono cristallizzate, ma da scoprire,
virtù e ideologie della società americana
postbellica? Per dare una
risposta a queste domande, bisogna verificare che tutte le fonti
cinefotografiche, e non solo quelle di propaganda, possono essere
sottoposte a questo lavoro di verifica, ma che tale validazione
può
anche essere irrilevante, perché il discorso storico non
coincide
necessariamente con quello narrativo presente nei film, ma è
tuttavia
desumibile attraverso un sottile gioco di ricorrenze tra testi e
pellicole.
André Bazin1 osserva come la nascita della
fotografia prima, e delle
immagini in movimento poi, abbiano immediatamente ammaliato gli storici
per la capacità intrinseca di restituire il reale partendo
da uno
statuto ontologico essenzialmente oggettivo. Egli sottolinea come la
fotografia, portando a compimento un percorso che vede la massima
espressione nel barocco, abbia liberato le arti plastiche
dall’ossessione della ricerca della rassomiglianza,
lasciandosi
scivolare da dosso la ricerca del realismo come fine ultimo
dell’arte:
per quanto abile sia il pittore, la sua opera sarà sempre
ipotecata
dalla soggettività autoriale. L’immagine tradisce
la difficoltà
dell’avvicinarsi alla realtà in virtù
della presenza soggettivante
dell’uomo, del quid che separa la
realtà dall’immagine, uno
strato di influenza mediatrice tra realtà e
rappresentazione. La
fotografia in questo senso è un fondamentale momento di
apparente
liberazione: soddisfa l’umana ansia per la riproduzione
attraverso
l’immagine, fornisce uno strumento privilegiato per il
“complesso della
mummia” che è alla base della sete di illusione, e
che nei secoli ha
alimentato, in maniera conscia o inconscia, la ricerca del realismo e
della rappresentazione nell’arte. Tutto questo mediante una
riproduzione meccanica da cui l’uomo è, almeno
sotto un profilo
prettamente tecnico, escluso: nella fotografia, a differenza di tutte
le altre arti, si celebra l’assenza della mano
dell’uomo, si beneficia
di un transfert di realtà dall’oggetto alla sua
riproduzione, che non è
più una tecnica inferiore che punta alla rassomiglianza, ma
è il frutto
genetico, plastico, della natura estetica del modello.
La fotografia appare dunque come l’avvenimento
più importante della
storia delle arti plastiche, un’importante liberazione
psicologica
dalla mano dell’uomo. E poco importa se, attraverso la
selezione
dell’inquadratura, i procedimenti della messa in scena, le
espressioni
del linguaggio, con la scelta individuale di cosa entrerà a
far parte
dell’immagine, essa sia in verità uno strumento
creativo capace di
tradire al pari delle altre arti l’impronta digitale
dell’autore: la
materia di cui è composta ha sempre un’origine
innegabilmente legata ad
una indiscutibile fisicità, un “calco”
(o, appunto, un negativo)
perfetto dell’oggetto. È necessario sottolineare
però come il concetto
di riproducibilità meccanica evidenziato da Bazin sia alla
base della
scelta dell’audiovisivo come strumento privilegiato della
propaganda
durante, ma non solo, la Guerra Fredda. Il motivo di questa scelta
è
facilmente intuibile: l’immagine restituisce
l’illusione della realtà,
è più facile affidare un discorso
propagandistico, che ha quindi
pretesa di esser vero, alla fotografia piuttosto che alle pagine
scritte. L’impatto emotivo e psicologico è infatti
senza dubbio più
forte: la rappresentazione può sembrare maggiormente
veritiera,
soprattutto a una società meno educata
all’immagine e all’audiovisivo.
La pellicola è il regno della falsificazione: ciò
che mostra può sempre
essere messo in discussione.
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