DOCUMENTARI DEL NON-VERO LA PROPAGANDA DURANTE LA GUERRA FREDDA
di Giorgio Signori |
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Prima ancora di Bazin però, ad affrontare sotto il profilo prettamente ontologico ed “estetico” la natura dell’immagine, e riferendosi in particolare alla finalità necessaria del cinema come strumento di riproduzione del reale, è Dziga Vertov, che nella prima metà degli anni Venti matura in Russia la teoria del Kinoglaz (Cine-occhio) e della Kinopravda (Cine-verita). Vertov assegna al cinema un compito rigorosamente antinarrativo e antifinzionale, elaborando la visione di un cinema non recitato (neigrovaja kinematografija) che va letta non come la liberazione dai procedimenti cinematografici (anche sperimentali) del linguaggio, ma come il rifiuto di ogni forma servile di dipendenza del cinema nei confronti di modelli drammaturgici importati dalla letteratura e dal teatro2. La teoria del Cine-occhio, cristallizzata in Kinoglaz (1924) e ne L’uomo con la macchina da presa (Čelovek s kinoapparatom, 1929), punta a portare sullo schermo l’azione dei fatti, e non della recitazione, a sostituire le forme surrogate della rappresentazione della vita con la vita stessa. Vertov elimina sceneggiatura, attori, messa in scena, per inserire la macchina da presa, il Cine-occhio, nella realtà stessa. Pur se con finalità differenti, è interessante come sia Bazin sia Vertov pongano l’accento sulla meccanicità del processo di restituzione in immagine del reale. Come la fotografia descritta da Bazin, il Kinoglaz è un’entità meccanicamente ricettiva: registra tutto, anche le tracce più piccole; è una memoria sintetica e democratica la cui emulsione fotosensibile si lascia impressionare da ogni cosa, anche la più apparentemente inessenziale; è sintesi ultima di una presunta oggettività. La funzione del cinema non recitato però, secondo Vertov, non è la medesima del cosiddetto documentarismo: non si tratta di documentare fatti che ontologicamente si presentano come tali: il cinema piuttosto svela la segreta figura dell’esistente. Il cinema non recitato deve esibire non la propria natura di documento, ma la “scrittura” della vita, un cinema che rivela la presenza del Cineocchio nello spazio che riprende, un palesare l’atto stesso del vedere. L’apporto di Vertov è fondamentale perché inserisce un importante tassello sulla teoria genetica del cinema non recitato, un cinema che è in grado di cogliere la vita per ciò che è, e di restituirne forme e profili nella maniera teoricamente meno corrotta possibile. Tuttavia questa posizione appare a tratti utopistica: in quali condizioni è possibile davvero verificare l’assenza, volontaria o involontaria, di finzione? Bazin chiarisce questo punto, in particolare in riferimento a quelli che definisce “documentari ideologici di montaggio”, embrioni di propaganda filmata. Egli esclude una possibilità di verifica che non sia limitata al linguaggio. Per Bazin è il linguaggio stesso, ad esempio attraverso il montaggio, a tradire l’onestà dell’autore, e non l’immagine, che viceversa è sempre falsificabile. L’approccio è ancora circoscritto al contesto-cinema, ma il dibattito non tarda ad addentrarsi nelle possibili dimostrazioni della dignità documentaria dell’audiovisivo, grazie all’attenzione che il cinema immediatamente catalizza come mezzo indiziale e come strumento di riproduzione del reale. Il medesimo dubbio sul reale fotografico si propone anche sui documentari: esiste il vero documentario? Gli esercizi esegetici di critica all’immagine oggi appaiono schematici e riduttivi, e soprattutto non si confrontano adeguatamente con le incredibili capacità di manipolazione delle fonti offerte dalle tecnologie moderne. La tradizionale distinzione tra vero e falso, così cara al positivismo scientifico, appare ormai rischiosa e limitante: il falso può rappresentare un documento storico di grande importanza, così come il vero può essere accettabile anche in condizione di non completa aderenza ai parametri del vero assoluto: è il regno del verosimile, del probabile, che rappresenta l’oggetto delle scienze sociali. I filmati della Guerra Fredda, se pur rappresentano con il linguaggio del documentario il non-vero, costituiscono lo stesso una fonte di significato di grande rilevanza, purché non si perda di vista la loro natura, e le funzioni che svolgono nel contesto della propaganda e soprattutto della fortissima contrapposizione delle ideologie tra le superpotenze che si combattono anche con gli strumenti dell’autoaffermazione e dell’enfatizzazione del “nemico rosso”. |
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2.
Su Vertov un’ottima risorsa è il lavoro di Pietro Montani in cui l’autore ripercorre
il percorso che ha portato Vertov a teorizzare il cine-occhio e la cine-verità: P. Montani, L’immaginazione narrativa, il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Milano, Guerini, 1999, in particolare il capitolo 2 “Il cinema non-recitato e la vita colta sul fatto”. |
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