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Documentari
del non-vero, la propaganda durante la Guerra Fredda
di Giorgio Signori | |
La dimensione mediale del cinema deve ideologicamente e storicamente molto del suo successo al proprio statuto ontologico di impressione fotosensibile del reale. Il discorso sull’oggettività, sulla produzione di verità e sulla realtà delle immagini fotografiche prima, in movimento poi, è estremamente delicato. Nel caso della propaganda americana degli anni Cinquanta, come avvicinarsi a prodotti dei quali, a distanza di oltre cinquanta anni, è possibile riconoscere un punto di vista tutt’altro che onesto, sia scientificamente che socialmente? È possibile superare questo pregiudizio nascente dal giudizio di valore che ci porta a considerare semplicemente falso quanto presente nei filmati di propaganda? O in essi sono cristallizzate, ma da scoprire, virtù e ideologie della società americana postbellica? Per dare una risposta a queste domande, bisogna verificare che tutte le fonti cinefotografiche, e non solo quelle di propaganda, possono essere sottoposte a questo lavoro di verifica, ma che tale validazione può anche essere irrilevante, perché il discorso storico non coincide necessariamente con quello narrativo presente nei film, ma è tuttavia desumibile attraverso un sottile gioco di ricorrenze tra testi e pellicole. André Bazin1 osserva come la nascita della fotografia prima, e delle immagini in movimento poi, abbiano immediatamente ammaliato gli storici per la capacità intrinseca di restituire il reale partendo da uno statuto ontologico essenzialmente oggettivo. Egli sottolinea come la fotografia, portando a compimento un percorso che vede la massima espressione nel barocco, abbia liberato le arti plastiche dall’ossessione della ricerca della rassomiglianza, lasciandosi scivolare da dosso la ricerca del realismo come fine ultimo dell’arte: per quanto abile sia il pittore, la sua opera sarà sempre ipotecata dalla soggettività autoriale. L’immagine tradisce la difficoltà dell’avvicinarsi alla realtà in virtù della presenza soggettivante dell’uomo, del quid che separa la realtà dall’immagine, uno strato di influenza mediatrice tra realtà e rappresentazione. La fotografia in questo senso è un fondamentale momento di apparente liberazione: soddisfa l’umana ansia per la riproduzione attraverso l’immagine, fornisce uno strumento privilegiato per il “complesso della mummia” che è alla base della sete di illusione, e che nei secoli ha alimentato, in maniera conscia o inconscia, la ricerca del realismo e della rappresentazione nell’arte. Tutto questo mediante una riproduzione meccanica da cui l’uomo è, almeno sotto un profilo prettamente tecnico, escluso: nella fotografia, a differenza di tutte le altre arti, si celebra l’assenza della mano dell’uomo, si beneficia di un transfert di realtà dall’oggetto alla sua riproduzione, che non è più una tecnica inferiore che punta alla rassomiglianza, ma è il frutto genetico, plastico, della natura estetica del modello. La fotografia appare dunque come l’avvenimento più importante della storia delle arti plastiche, un’importante liberazione psicologica dalla mano dell’uomo. E poco importa se, attraverso la selezione dell’inquadratura, i procedimenti della messa in scena, le espressioni del linguaggio, con la scelta individuale di cosa entrerà a far parte dell’immagine, essa sia in verità uno strumento creativo capace di tradire al pari delle altre arti l’impronta digitale dell’autore: la materia di cui è composta ha sempre un’origine innegabilmente legata ad una indiscutibile fisicità, un “calco” (o, appunto, un negativo) perfetto dell’oggetto. È necessario sottolineare però come il concetto di riproducibilità meccanica evidenziato da Bazin sia alla base della scelta dell’audiovisivo come strumento privilegiato della propaganda durante, ma non solo, la Guerra Fredda. Il motivo di questa scelta è facilmente intuibile: l’immagine restituisce l’illusione della realtà, è più facile affidare un discorso propagandistico, che ha quindi pretesa di esser vero, alla fotografia piuttosto che alle pagine scritte. L’impatto emotivo e psicologico è infatti senza dubbio più forte: la rappresentazione può sembrare maggiormente veritiera, soprattutto a una società meno educata all’immagine e all’audiovisivo. La pellicola è il regno della falsificazione: ciò che mostra può sempre essere messo in discussione. Prima ancora di Bazin però, ad affrontare sotto il profilo prettamente ontologico ed “estetico” la natura dell’immagine, e riferendosi in particolare alla finalità necessaria del cinema come strumento di riproduzione del reale, è Dziga Vertov, che nella prima metà degli anni Venti matura in Russia la teoria del Kinoglaz (Cine-occhio) e della Kinopravda (Cine-verita). Vertov assegna al cinema un compito rigorosamente antinarrativo e antifinzionale, elaborando la visione di un cinema non recitato (neigrovaja kinematografija) che va letta non come la liberazione dai procedimenti cinematografici (anche sperimentali) del linguaggio, ma come il rifiuto di ogni forma servile di dipendenza del cinema nei confronti di modelli drammaturgici importati dalla letteratura e dal teatro2. La teoria del Cine-occhio, cristallizzata in Kinoglaz (1924) e ne L’uomo con la macchina da presa (Čelovek s kinoapparatom, 1929), punta a portare sullo schermo l’azione dei fatti, e non della recitazione, a sostituire le forme surrogate della rappresentazione della vita con la vita stessa. Vertov elimina sceneggiatura, attori, messa in scena, per inserire la macchina da presa, il Cine-occhio, nella realtà stessa. Pur se con finalità differenti, è interessante come sia Bazin sia Vertov pongano l’accento sulla meccanicità del processo di restituzione in immagine del reale. Come la fotografia descritta da Bazin, il Kinoglaz è un’entità meccanicamente ricettiva: registra tutto, anche le tracce più piccole; è una memoria sintetica e democratica la cui emulsione fotosensibile si lascia impressionare da ogni cosa, anche la più apparentemente inessenziale; è sintesi ultima di una presunta oggettività. La funzione del cinema non recitato però, secondo Vertov, non è la medesima del cosiddetto documentarismo: non si tratta di documentare fatti che ontologicamente si presentano come tali: il cinema piuttosto svela la segreta figura dell’esistente. Il cinema non recitato deve esibire non la propria natura di documento, ma la “scrittura” della vita, un cinema che rivela la presenza del Cineocchio nello spazio che riprende, un palesare l’atto stesso del vedere. L’apporto di Vertov è fondamentale perché inserisce un importante tassello sulla teoria genetica del cinema non recitato, un cinema che è in grado di cogliere la vita per ciò che è, e di restituirne forme e profili nella maniera teoricamente meno corrotta possibile. Tuttavia questa posizione appare a tratti utopistica: in quali condizioni è possibile davvero verificare l’assenza, volontaria o involontaria, di finzione? Bazin chiarisce questo punto, in particolare in riferimento a quelli che definisce “documentari ideologici di montaggio”, embrioni di propaganda filmata. Egli esclude una possibilità di verifica che non sia limitata al linguaggio. Per Bazin è il linguaggio stesso, ad esempio attraverso il montaggio, a tradire l’onestà dell’autore, e non l’immagine, che viceversa è sempre falsificabile. L’approccio è ancora circoscritto al
contesto-cinema, ma il
dibattito non tarda ad addentrarsi nelle possibili dimostrazioni della
dignità documentaria dell’audiovisivo, grazie
all’attenzione che il
cinema immediatamente catalizza come mezzo indiziale e come strumento
di riproduzione del reale. L’analisi diventa dunque una continua negoziazione
del senso tra ciò
che si vede e ciò che vi si può leggere. In
realtà “non ci può essere
la lettura storica di un film senza riferimenti ad alcune categorie
interpretative mutuate da altre discipline come la semiologia e
l’antropologia e, soprattutto, prescindendo dalla mediazione
concettuale offerta da una nozione come quella di ‘cultura
cinematografica’ come chiave per decifrarne
l’ambiguità e la
complessità dei segni e dei significati”3. Soffermarsi
sul problema della falsificazione che ogni filmato,
qualunque sia la propria origine, porta in sé, è
riduttivo, in quanto
l’oggettività è in realtà un
falso problema. Chi cerca di ricostruire
la storia deve invece tentare di comprendere la realtà
rappresentata e
collocata all’interno dell’impalcatura narrativa
del film. I filmati di
propaganda della Guerra Fredda giocano molto su questa
ambiguità:
utilizzano forme del linguaggio cinematografico che aiutano a veicolare
un’immagine di verità, ma contemporaneamente, a
volte ne palesano la
finzione. A volte la nostra reazione a un film di finzione è
plasmata sulle
nostre illazioni su come esso è stato realizzato. Tuttavia
le modalità
con cui le immagini e i suoni sono prodotti non sono sufficienti a
distinguere nettamente film di finzione e documentari. Ciò
che
veramente distingue queste macrocategorie filmiche, come ricorda Roger
Odin5, è solo l’atteggiamento spettatoriale,
l’insieme delle modalità
percettive, l’effetto prodotto in chi guarda. Avendo in mente
queste
caratteristiche è facile arrivare al ritenere film di
finzione e
documentari come egualmente degni di essere considerati fonti
storiche. Nel caso dei filmati della Guerra Fredda, è
interessante porsi la
domanda su quale possa essere l’atteggiamento spettatoriale
di chi li
guarda, ma soprattutto, per capire i linguaggi della propaganda, quale
poteva essere tale atteggiamento cinquanta anni fa. Oggi infatti, con
la forza di una cultura scientifica ben più diffusa e di
più facile
portata, si tende a trovare risibili le tesi e le posizioni mostrate
nel film, ad immaginare grottesche determinate affermazioni
(soprattutto, sulla minimizzazione dei rischi atomici). La chiave di
lettura per immedesimarsi nello spettatore dei primi anni Cinquanta
è
la paura: occorre calarsi nello stato psicologico innestato da una
situazione instabile e ansiogena come la Guerra Fredda. Con tutta
probabilità l’atteggiamento spettatoriale doveva
essere del tutto
analogo a quanto oggi si può provare nel rapportarsi a
prodotti
audiovisivi, più sottili e liminali ma inequivocabilmente
eredi della
medesima propaganda, che affrontano le paure del terrorismo
internazionale. La paura innescata da immagini spettacolari e terribili
della bomba atomica ha il medesimo DNA mediatico delle esplosioni
dell’11 Settembre: l’incertezza, la
novità, il timore, l’incredulità,
sono gli ingredienti necessari a recepire e capire
l’atteggiamento di
chi era spettatore nel pieno della Guerra Fredda. Analogamente, si
ripropone oggi la contrapposizione tra due visioni ideologiche
totalizzanti, e l’enfatizzazione di un nemico che, reale e
non
costruito, rappresenta una minaccia presentata come subdola e
incontrollabile. È su questo aspetto che gioca maggiormente la
retorica della
propaganda: l’assenza di connotati del linguaggio
interpretabili dallo
spettatore come appartenenti alla realtà finzionale
narrativo-romanzesca permette di conquistare la fiducia dello
spettatore, che non riconoscendo meccanismi narrativi di
finzionalizzazione, può tendere a lasciarsi vincolare da un
rapporto di
fiducia con l’autore. È uno spettatore che si
riconosce in ciò che
vede, come in uno specchio. Lo specchio è infatti secondo
Metz il luogo
dell’identificazione primaria10. È importante tener
presente questo
elemento, perché, come si vedrà più
avanti, l’idea di specchio si
rivelerà fondamentale nel definire il rapporto che si crea
tra i
prodotti audiovisivi di propaganda e la società. Metz elegge
a corpus
privilegiato della sua ricerca i film narrativi in quanto sostiene che
l’incontro fra cinema e narratività ha
condizionato in maniera
determinante l’evoluzione semiologica del film e ridotto il
documentario e gli altri insiemi non narrativi ad aree periferiche. Ma
di fatto propone una visione che omologa tutti i generi del cinema in
una forma di non realtà alla cui base sembra risiedere una
comune
natura di messa in narrazione della storia. E anche le storie
“vere”,
quelle raccontate ad esempio dai cinegiornali, subiscono
l’influenza di
questa forma di irrealtà dettata dalla messa in film. Nel
caso dei
documentari della Guerra Fredda, è impossibile non
riconoscere, seppur
a un livello meno palese rispetto a prodotti più
narrativizzati, la
linea del racconto, che a livello semiotico appare analoga ai
più
comuni prodotti del cinema di fiction: è frutto di una
sceneggiatura e
di messa in scena con attori e scenografie. È la messa in
forma che ne
cambia tuttavia la percezione, attraverso gli artifici del linguaggio
cinematografico. Particolarmente rilevante infine, a concludere il discorso
sull’atteggiamento spettatoriale, è inoltre la
posizione di Bill
Nichols, che distingue un “modo osservativo” e un
“modo partecipativo”
del documentario, in base alla percezione dello spettatore. Nel caso
del modo partecipativo/interattivo, si richiede allo spettatore di
entrare direttamente a contatto diretto con la realtà che
gli si
propone di osservare. È un modo che attribuisce molta
importanza alle
scelte che sono richieste al pubblico, affinché valuti il
grado di
rappresentazione della verità; il modo partecipativo
sottolinea la
complessità della conoscenza del mondo enfatizzando i propri
aspetti
soggettivi e le dimensioni emotive. È il caso, secondo
Nichols, dei
documentari russi a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, in cui il
materiale filmato viene selezionato da parte del regista che attraverso
le sue scelte stabilisce una determinata prospettiva riguardo
l’argomento del documentario e, di conseguenza, un punto di
vista
privilegiato. Sebbene il documentario ricerchi un alto grado di
oggettività, ogni selezione di questo genere sottende ad una
precisa
scelta ideologica ed estetica compiuta dal regista. Il modo
osservativo, pur nella consapevolezza dell’impossibilita di
una
trasparenza assoluta, cerca di mostrare la realtà per come
essa appare,
e viene ripresa dalla cinepresa, solo osservandola senza alcun tipo di
intervento da parte del documentarista. Bill Nichols fa coincidere il
modo osservativo con il cosiddetto Cinema Verité
e il suo omologo anglosassone Direct Cinema.
La fedeltà di questi documentari nasce dalla nozione che
esista una
relazione diretta tra l’immagine, e ciò che essa
identifica, ovvero del
legame indessicale, facendo un passo indietro e tornando allo statuto
ontologico della fotografia di cui parla Bazin, che esiste tra immagini
e realtà. Allargando il campo, è possibile sottolineare come
l’analisi dei
prodotti al di fuori del circuito cinematografico mainstream, dal
cinema di finzione tradizionale, può estendersi a tutti quei
prodotti
la cui origine va oltre la semplice definizione di
“documentario”.
Questo include, ad esempio, i cortometraggi, la pubblicità,
e, appunto,
la propaganda. Un lavoro di riferimento sul piano metodologico
dell’analisi e sicuramente quello di Lino
Miccichè, che analizza le
tendenze del linguaggio del cinema italiano a partire proprio dal
documentario, in un periodo che va dal 1945 al 1965. 1. André Bazin, “Ontologia dell’immagine fotografica”, in Che cos’e il cinema?, Milano, Garzanti, 1973. 2. Su Vertov un’ottima risorsa è il lavoro di Pietro Montani in cui l’autore ripercorre 3. G. De Luna, La passione e la ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo, Firenze, La Nuova Italia, 2001. 4. D. Bordwell, K. Thompson, CINEMA come ARTE. Teoria e prassi del film, Milano, Il Castoro, 2003, pp. 170. 5. Roger Odin, Della finzione. Vita e Pensiero, Milano, 2004. 6. Su Grierson cfr. R. Nepoti, Storia del documentario, Bologna, Patron, 1988. 7. Id., pp. 11. 8. Sul rapporto tra realta e finzione nel cinema Roger Odin, della scuola francese, è un autore chiave. 9. A tal proposito si veda C. Metz, Cinema e psicanalisi, il significante immaginario, Venezia, Tascabili Marsilio, 1980. 10. L’approccio della semiologia al consumo del mezzo audiovisivo vede in Christian Metz un autore di grandissimo rilievo. Si veda in particolare C. Metz, Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1972. 11 È dunque principalmente, in definitiva, il modo in cui
lo spettatore percepisce il film, la modalita del consumo, a
polarizzare l’inclusione di un prodotto in una
macrocategoria come quella del documentario, come emerge in
B. Nichols, Representing reality. 12. Si veda in particolare Lino Miccichè, Studi di dodici sguardi d’autore in cortometraggio, Torino, Lindau, 1955. 13. Augusto Sainati, “Stile e formato dell’informazione ‘Incom’”, in A. Sainati, La settimana Incom, |
bibliografia |
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Bazin, A., “Ontologia dell’immagine fotografica”, in Che cos’e il cinema?, Garzanti, Milano, 1973. Bordwell, D., Thompson, K., CINEMA come ARTE. Teoria e prassi del film, Il Castoro, Milano, 2003. |
De Luna, G., La passione e la
ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo, Nuova Italia, Firenze, 2001. Grierson, J., Documentario e realtà, in “Bianco e Nero”, 1950 Metz,C., Cinema e psicanalisi, il significante immaginario, Tascabili Marsilio, Venezia, 1980. Metz,C., Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1972. |
Miccichè,
L., Studi di dodici sguardi d’autore in cortometraggio, Lindau, Torino, 1955. Montani, P., L’immaginazione narrativa, il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Guerini, Milano, 1999 |
Nepoti,
R., Storia del documentario, Patron, Bologna, 1988. Nichols, B., |
Odin, R., Della finzione. Milano, Vita e Pensiero, 2004. Sainati, A., “Stile e formato dell’informazione 'Incom'”, in A. Sainati, La settimana Incom, cinegiornali e informazione negli anni ’50, Lindau, Torino, 2001. |