SLITTAMENTI PROGRESSIVI
DEL PIACERE
E DELLA PRIVAZIONE
di Fiorenza Gamba
Il cibo è sottoposto ad un superlavoro simbolico
che pare non potersi arrestare mai. Così, a fasi alterne e
ripetutamente, esso è stato inteso come istanza culturale,
come indicatore di distinzione sociale (Bourdieu, 1983), come strumento
di regolazione delle relazioni di gruppo, come nodo nevralgico dei
disturbi nella relazione madre/figlio o, più in generale,
comportamentali, come veicolo di ideologie, come oggetto di
interdizioni o concessioni religiose (Levi-Strauss, 1974; Douglas,
1975) e di molto altro ancora. In altri termini la preparazione, la
somministrazione e il consumo degli alimenti sono sempre stati
– e sono ancora – connotati da uno speciale
significato, variabile con il variare dell’osservatore e del
contesto d’analisi.
Piacere e privazione sono due
condizioni, opposte e complementari, legate al cibo e connotate a
partire dalla società moderna fino ai nostri
giorni.
Il piacere è indubbiamente legato
alla soddisfazione sensibile, alla concessione generosa nel consumo,
anche all’eccesso, ma la sua vocazione alla ricerca
raffinata, elevata di sensazioni esclusive e di significati traslati,
si diffonde e acquista la propria legittimità con
l’affermarsi della gastronomia. Pellegrino Artusi illustra
chiaramente questa immediatezza del piacere sensibile declinata in
forma sublime di arte attraverso i precetti della gastronomia. Il
gusto, assieme al tatto, senso della conservazione, è anche
più importante dei “sensi della
cerebrazione” come la vista e l’udito; e la
gastronomia in quanto arte consente di mettere sullo stesso piano
“una dissertazione sul sorriso di Beatrice” e
“una discussione sul cucinare
l’anguilla”, e di riabilitare il senso del gusto
poiché “ce ne dà i precetti”
(Artusi, 2010).
Nella Modernità erede
dell’Illuminismo e del Positivismo, delle loro idee di
dominio della Ragione e di capacità del Progresso di
migliorare le condizioni di vita dell’uomo, la maggior parte
della popolazione inurbata vive in condizioni disastrose: ambienti
malsani, igiene precaria, nutrizione insufficiente. Un panorama che
mostra chiaramente come il rapporto con il cibo sia sostanzialmente un
rapporto di privazione: una risorsa scarsa che svolge la funzione quasi
esclusiva di riproduzione delle energie necessarie al corpo per
produrre forza/lavoro. La società rurale presenta aspetti
del tutto simili: in primo luogo perché il cibo, in linea
teorica facilmente disponibile sotto forma di materia prima, in
realtà è soggetto a diversi fattori che possono
renderlo scarso come le condizioni atmosferiche, le carestie e le
epidemie; in secondo luogo perché esso è la merce
che assicura il reddito piuttosto che un bene disponibile a
piacere.
In questa situazione di privazione
generalizzata, il cibo tuttavia intensifica il proprio legame con il
piacere. Sia dal punto di vista di un sistema socialmente regolato, sia
da quello di un calendario essenzialmente definito. Nel primo caso il
cibo diventa elemento di distinzione sociale, di manifestazione di uno
status, di esibizione di privilegi (Veblen, 1979) proprio attraverso la
ricerca del piacere che corrisponde all’esecuzione di
preparazioni raffinate ed elaborate, anche esotiche; ma che
è assicurata dalla presenza di un officiante della
trasformazione dell’alimento in piacere, vale a dire il
cuoco. Averne uno al proprio servizio, indica una posizione sociale di
rilievo, di livello superiore: il cuoco infatti rientrava nel personale
di servizio di famiglie, aristocratiche prima e borghesi poi, come ad
esempio i Monzù campani o siciliani. Al tempo stesso il
cuoco regola l’accesso ad un territorio sacro, contiguo
talvolta alla creazione artistica, riconoscibile per l’uso di
uno spazio esclusivo e separato (la cucina), di oggetti e abbigliamento
specifici (mestoli, fruste e coltelli; l’immancabile cappello
o il famoso cordon bleu), per
la pratica di azioni rituali quasi magiche (montare a neve,
chiarificare il burro, legare una salsa) e l’uso di termini,
prevalentemente di derivazione francese, comprensibili solo agli
iniziati (aspic, salmì, roux, chiffonade,
concassé). Ma anche qualora si rimanga nel
contesto comune, alcuni eventi del calendario popolare –
contadino o meno – come ad esempio il matrimonio, la nascita,
il raccolto e le ricorrenze religiose, agiscono come interruzione della
privazione per ristabilire un accesso diretto e non controllato al
piacere del cibo. In questo caso il piacere non è
così direttamente riferibile alla ricercatezza, ma piuttosto
all’abbondanza (quantità) e al consumo condiviso.
Ciò
che appare chiaro è che nella Modernità la
privazione è uno stato esogeno all’individuo, non
volontario, al quale il piacere riesce ogni tanto a sottrarre,
temporaneamente, delle piccole roccaforti: detto altrimenti il cibo
è un piacere raro e in quanto tale destinato a
pochi.
Anche nella nostra società attuale –
inevitabile evoluzione o fallimento di quella moderna? –, per
intenderci, anche nella postmodernità, il rapporto tra
piacere e privazione rimane molto forte, assumendo però una
dimensione e un senso del tutto nuovi. Se la scarsità del
prodotto alimentare è un problema superato nella nostra
società occidentale, se l’uomo non è
più un corpo mantenuto efficiente per produrre forza/lavoro,
ma un dispositivo postmoderno per suscitare sensazioni, come lo
definisce Zygmunt Bauman (1999), in che modo permane la privazione e
come si lega al piacere? L’abbondanza e la
disponibilità del cibo, a partire da un certo momento che
è coinciso con il secondo dopoguerra, indurrebbero a pensare
ad una diffusione generalizzata, addirittura ad una democratizzazione
che sconfina nell’assuefazione, nell’indifferenza.
Per certi aspetti è stato così: il cibo diventa
un bene di consumo che testimonia l’uscita dalla
precarietà e dalla scarsità del periodo bellico
proprio quanto più risponde ai criteri della produzione
industriale, dell’omogeneità e
dell’omologazione, della grande distribuzione e della
facilità di conservazione; in altri termini è uno
dei mezzi che confermano la realizzazione del progresso e il
raggiungimento del benessere.
Ma proprio in questa
facilità del consumo, anche esagerato, si manifesta il
riemergere della privazione, ed è paradossalmente proprio da
questa nuova condizione che il piacere prende il sopravvento in una
forma tutta nuova. Infatti, se nella Modernità la privazione
era subita, contingente, nella Postmodernità essa
è volontariamente ricercata e sapientemente equilibrata. Il
sovrappeso ed alcune patologie ad esso legate, nonché un
rapido mutamento dei canoni estetici del corpo, inducono ad una ricerca
volontaria, ancorché orientata da sistemi esperti, di mezzi
di costrizione e privazione efficaci, sebbene spesso difficili da
seguire, capaci di fare raggiungere l’ideale forma fisica: le
diete. Di conseguenza, anche il piacere procurato dal cibo si
trasforma, e da segno di distinzione sociale o celebrazione rituale,
diventa principalmente luogo di una ricerca personale che contribuisce
a costruisce l’identità dell’individuo
tramite l’adesione volontaria a specifici stili di vita
ritenuti desiderabili sulla base di una narrazione del sé
che coinvolge l’uomo come unità autodeterminata
(Giddens, 1999). E se il piacere alimentare è ancora
un’esperienza legata alla raffinatezza del gusto, questo si
declina come autenticità (termine semanticamente ancora
più forte di quello di qualità). La
Modernità e le sue propaggini ricercavano il piacere
nell’artificio, nella costruzione del sapore,
nell’architettura degli elementi, e talvolta anche nella
quantità; la Postmodernità ritiene che esso si
trovi nell’essenzialità, nella sottrazione del
superfluo, nell’originarietà del prodotto. Sia da
un punto di vista visuale che da un punto di vista concettuale tanto
più l’una è barocca e opulenta tanto
più l’altra è minimalista, talvolta
fino all’eccesso, come per esempio la nouvelle cuisine o la
cucina molecolare.
In modo diverso rispetto alla
Modernità, nella Postmodernità la privazione
è uno stato prodotto in maniera endogena
dall’individuo – è auto inflitta
– necessaria ad una maggiore esaltazione del piacere come
ricerca, materialmente disponibile ma solo culturalmente realizzabile:
il cibo è un piacere raffinato e autentico solo per coloro i
quali sono in grado di intraprendere un percorso culturale (Gamba,
2009).
Nella Modernità piacere e privazione si sono
disposti secondo un’alternanza esclusiva – spaziale
o temporale – in cui l’uno elide l’altra,
dando vita a una composizione complementare. Nella
Postmodernità piacere e privazione sono invece i due
atteggiamenti compresenti di un comportamento nei confronti del cibo
che si potrebbe definire schizoide, tale per cui l’indulgenza
edonistica alla percezione dei sensi, sicuramente prevalente e
visibilmente più diffusa, incorpora allo stesso tempo un
prezzo da pagare che si stigmatizza nella dieta, la quale non
può sfuggire ad una trasfigurazione estetica che la rende
desiderabile quasi quanto il piacere del cibo. Detto altrimenti il cibo
è un piacere raggiungibile a condizione che si seguano le
tappe di un percorso mai concluso. Nella contemporaneità, e
almeno fino ad ora, tutto si complica: il piacere è il
risultato paradossale, faticoso e quasi obbligatorio di una doppia
valenza che si alimenta nel cuore di quella svolta sensibile che
così bene ci definisce e che rientra nei caratteri della
Postmodernità. Si tratta di un piacere affatto spontaneo,
che viene gestito da diversi officianti per il bene, anzi per il
piacere dell’individuo: gastronomi, enologi, critici,
nutrizionisti e dietologi.
Ma si diceva, appunto finora. Ora
che tutto si trasforma, si cancella e precipita, abbiamo perso anche la
certezza dell’incertezza e della contraddizione a cui la
Postmodernità così stabilmente transitoria ci
aveva abituati. Forse questo ci obbligherà ad intrattenere
un rapporto ancora diverso con il cibo: abbandonata la
sovra-estimazione, l’intellettualizzazione e
l’estetizzazione, ma ancora memori di tutto questo e quindi
attenti alla sua integrità e alla sua
autenticità, senza precipitare in privazioni esogene,
cominceremo a considerarlo con saggezza un tesoro da non sprecare e
magari anche da condividere seguendo sobrie e più dimesse
regole del buon senso, come già alla fine del XIX secolo
Pellegrino Artusi profeticamente suggeriva. Nella Prefazione
alla trentacinquesima edizione della sua opera culto La
scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene si
legge: “Cieco chi non lo vede! Stanno per finire i tempi
delle seducenti e lusinghiere ideali illusioni e degli anacoreti; il
mondo corre assetato, anche più che non dovrebbe, alle vive
fonti del piacere, e però chi potesse e sapesse temperare
queste pericolose tendenze con una sana morale avrebbe vinto la
palma” (Artusi, 2010).
LETTURE
× Artusi Pellegrino., La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Edizioni BUR, Milano, 2010.
× Bauman Zygmunt, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999.
× Bourdieu Pierre, La distinzione, Il Mulino, Bologna, 1983.
× Douglas Mary, Purezza e pericolo: un’analisi dei concetti di contaminazione e di tabù, Il Mulino, Bologna, 1975.
× Gamba Fiorenza, La portata… dissacrante del postmoderno, “Quaderni d’altri tempi”, anno V, n. 20, maggio-giugno, 2009.
× Giddens Anthony, Identità e società moderna, Ipermedium, Napoli, 1999.
× Levi-Strauss Claude, Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano, 1974.
× Veblen Thorstein, Teoria della classe agiata, Einaudi, Torino, 1979.